Il mistero dell’Utsuro-bune: un UFO nel Giappone del 1803?

Esattamente 162 anni erano passati da quando il potente Iemitsu, nipote del primo shōgun Tokugawa, circondato dai suoi luogotenenti e assiso sullo scranno del potere nel grande castello di Edo, aveva proclamato l’editto passato alla storia come sakoku (鎖国) o del “paese incatenato”, costituito da una legge senza precedenti capace di trasformare l’intero arcipelago in una fortezza del tutto chiusa all’Occidente. Soltanto in quattro luoghi del Giappone, da quel fatidico momento, fu consentito un limitato accesso agli stranieri: il porto di Nagasaki aperto per gli Olandesi e i Cinesi, il feudo di Tsushima per i Coreani, Oshima in Hokkaido per la popolazione aborigena degli Ainu e le isole Ryūkyū (odierna prefettura di Okinawa) per il transito di merci prevalentemente cinesi. Eppure come narrato dalla cultura popolare moderna e contemporanea, vedi ad esempio l’opera dell’autore americano di romanzi James Clavell, l’ingresso accidentale o qualche volta intenzionale di stranieri non cessò mai del tutto, per l’opera di mercanti intraprendenti, malcapitati naufraghi o imprudenti missionari, pronti a rischiare d’incorrere nell’ira del bakufu (幕府 – governo centrale) o i suoi funzionari locali. Simili incontri/scontri, nell’esperienza della gente comune nata e cresciuta successivamente all’epoca del terzo shōgun, finivano per costituire dei veri e propri eventi fuori dal contesto, talvolta riportati nelle cronache locali accanto alle leggende folkloristiche di mostri, fantasmi ed altri tipi di yōkai (妖怪 – apparizioni). Testi come il Toen shōsetsu (兎園小説 – “Racconti del giardino dei conigli”) del 1825 composto da Kyokutei Bakin, contenente il resoconto scritto a 22 anni di distanza di uno dei casi più bizzarri, ed apparentemente inspiegabili, nella lunga trafila d’incidenti culturali, il cui esito e provenienza restano, ancora adesso, per lo più incerti.
Il nome della storia, nonché del principale veicolo coinvolto, è Utsuro-bune (うつろ舟) ovverosia letteralmente, “barca cava” con riferimento al misterioso oggetto che approdò, il 22 febbraio del 1803, presso le coste di
Harayadori  nella provincia di Hitachi, non troppo lontano dall’omonimo villaggio di pescatori. Lasciando emergere il consenso pressoché istantaneo, tra i numerosi testimoni e curiosi accorsi sul posto, che dovesse esserci qualcosa di davvero insolito nella sua provenienza e funzione. Poiché un tale scafo, tanto per cominciare, appariva caratterizzato da un’insolita forma tonda, con la parte inferiore ricoperta di piastre metalliche e iper-tecnologiche finestre di cristallo curvo sulla sommità, che si aprivano verso un ambiente interno ricoperto da geroglifici impossibili da decifrare. All’interno vi erano provviste, una grande ciotola ricolma di tè ed un paio di coperte in materiale simile alla seta, ma diverso. Sopra le quali, notarono ben presto i primi accorsi sulla scena, sedeva la figura accovacciata di una donna.

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L’arido mistero dei nani dell’Anatolia

Il piccolo popolo, la congrega sepolta, la gente del sottosuolo, i fabbri degli Dei. Per tutte le diversità che sussistono tra le culture dei diversi angoli del pianeta, c’è almeno una distinzione che tende ad essere evidenziata, da Oriente a Occidente, dal Meridione al Settentrione: che possono esserci due motivi, per essere molto più bassi del normale. Il primo è una condizione clinica, indubbiamente assai problematica ma spesso superabile, sopratutto nella società contemporanea. Il secondo, un diritto di nascita, nonché una fortuna ancestrale. Perché i Nani, quelli che in lingua inglese si distinguono per la maniera in cui si scrive il plurale (dwarves invece che dwarfs) sono un concetto che alberga alla base di una quantità innumerevole di miti, leggende e congetture. Ritrovandosi associati alle correnti di pensiero più diverse. Secondo i cultori dell’ipotesi extraterrestre, essi sarebbero i discendenti dei primi alieni giunti sulla terra. Per chi l’evoluzione è un fatto speculativo, potrebbero trovarsi collegati all’estinta specie neandertaliana, dei nostri fratelli decisamente meno loquaci eppure secondo alcuni antropologi, marcatamente più intelligenti di noi. In molti, cercando i segreti agli albori della nostra stessa esistenza, si sono avventurati in giungle, caverne o hanno risalito irti sentieri montani, seguendo voci di popolo e dicerie che avrebbero dovuti condurli, ipoteticamente, fino alle genti di Norðri, Suðri, Austri e Vestri, per non parlare dei loro discendenti fiabeschi descritti nell’opera dei fratelli Grimm. C’è almeno un luogo, tuttavia, dove nessuno aveva pensato di recarsi con questa missione, almeno fino all’epoca dell’immediato dopoguerra: uno dei più remoti deserti dell’Asia Minore.
Ovviamente, la gente della regione conosceva il villaggio di Makhunik, col quale le genti nomadi erano solite, occasionalmente, intrattenere della limitata attività commerciale. Ma si tratta di un’esperienza che possiamo rivivere a pieno soltanto attraverso gli occhi del fantomatico primo esploratore occidentale. Intento a procedere col suo veicolo, rigorosamente a motore, lungo il desolato territorio di Dasht-e Lut (la “Pianura Vuota”) uno dei luoghi più spogli e caldi del pianeta, dove in epoca moderna sono state registrate temperature in grado di raggiungere, per più di un’ora, la cifra impressionante di 70 gradi. Non qui tuttavia, e non ora. Più ci si spinge verso l’Afghanistan, verso est, maggiormente i venti umidi che soffiano dal golfo di Oman creano quel particolare microclima, che fin dall’epoca antica fu indissolubilmente legato al cosiddetto grano di Khorasan (Triticum turanicum) da cui viene tratta la farina kamut. Tutt’altro che stupefacente dovrebbe apparire, dunque, il dato secondo cui qui non soltanto ebbe modo d’espandersi un popolo, ma sorsero e furono superate diverse importanti civiltà: dall’impero dei Parti, spina nel fianco dell’espansione romana, fino alla dinastia Sassanide, ultimo regno dell’Arabia classica finito nel 651, esattamente 31 dopo la fondazione dell’Islam. “A quale di loro…” Potrebbe quindi chiedersi il nostro visitatore ipotetico: “Sarebbe mai potuto appartenere QUESTO?” La scena dev’essersi presentata, allora come appare ancora oggi, in maniera piuttosto imprevista e surreale: svariate dozzine di piccole case quasi invisibili, paragonate da alcuni commentatori a funghi mimetizzati nella sabbia del deserto. Dai tetti piatti e le pareti in mattoni di fango, ciascuna caratterizzata da due singolari aspetti: in primo luogo, una porta piccolissima, al punto che molte persone di dimensioni normali avrebbero avuto notevoli difficoltà ad entrarvi. Il che conduceva all’altezza complessiva degli edifici in questione, raramente maggiore di un metro e cinquanta. Ora, è ragionevole pensare che negli anni successivi al 1945, gli abitanti di questo luogo avessero già significative difficoltà ad utilizzare al meglio questi ambienti. Benché si riporta che una parte significativa di costoro, ancora in quell’epoca, fossero in media più bassi di 20-30 cm rispetto ai loro connazionali. Ma si narra come già dall’inizio del secolo scorso, le genti di Makhunik avessero un’altezza inferiore di un metro e più, rappresentando in effetti, il singolo popolo più basso della storia acclarata.
Di ipotesi per giustificare un tale inspiegabile fatto, a quanto ci viene dato di sapere, ne sono state fatte parecchie. Ma forse la più affascinante, per quanto improbabile, resta quella che lo lega ad un particolare ritrovamento archeologico effettuato non troppo lontano da qui nel 2005. Per trovare informazioni sul quale, tutto quello che serve fare oggi è visitare uno dei molti siti sul tema dell’ufologia, le scie chimiche e gli altri complotti per nascondere sconvolgenti verità del Cosmo…

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L’evoluzione robotica del treno espresso Shinkansen

Ci sono paesi che, nell’immaginario comune, esistono in uno stato di pericolo costante. Così gli Stati Uniti o l’Inghilterra, che nei film sono il costante bersaglio di pericolosi terroristi internazionali, magari seduti su poltrone girevoli con gatti bianchi dal pelo morbido e setoso, piuttosto che psicopatici al comando di un esercito privato di scagnozzi, armati solamente di un odio estremamente sviluppato per la società civile (e sferraglianti AK-47, direttamente dalle fabbriche della Avtomat Kalašnikova). Il Giappone, nel frattempo, è un caso particolare. Che sebbene non conosca nello stesso modo la paura, si può dire che anteponga la qualità, alla quantità degli attacchi narrati dalla cultura Pop dei nostri giorni: alieni, mostri giganti o rettiliani che riemergono dalle profondità terrestri, samurai che viaggiano nel tempo, mutanti radioattivi, intere famiglie di cani-procioni possessori di un filo conduttore privilegiato con il mondo potenzialmente infernale degli yokai, i mostri sovrannaturali della tradizione. Contrastare una simile classe di pericoli, non è difficile immaginarlo, richiede un certo tipo di agenti, che non sono certo 007 o l’ex-poliziotto divorziato John McClane. Tutto viene portato ai massimi termini, mentre lo stesso supereroe di stampo occidentale, nient’altro che una persona dotata di forza o poteri particolari, si trasforma in qualcosa di più imponente e molto spesso, efficace. Un prodotto della scienza, poiché la cultura dello Shinto non possiede il concetto di “salvatore divino” come il cristianesimo e il Buddhismo. Che alla figura del Bodhisattva, l’Illuminato che torna sulla Terra per assistere i viventi, preferisce gli spiriti invisibili delle montagne, degli alberi e dei fiumi. O del metallo e il potenziale bellico dei macchinari. Qualsiasi cosa, purché sia inanimata: ci penseranno gli esseri umani a dargli l’energia o l’inconraggiamento di cui necessita per trasformarsi. Questo è in buona sostanza, il princìpio generativo del mecha, o come preferiamo definirlo da generazioni, il robottone da combattimento pilotato.
I mecha nella cultura giapponese sono un po’ ovunque: nei fumetti, nei cartoni animati, nel cinema e nei videogiochi. Così come avviene, incidentalmente, per le mascotte aziendali, pupazzi in qualche maniera buffi o attraenti che personificano l’una o l’altra realtà commerciale, non poi così diversi da ciò che è diventata negli anni la figura di Topolino per la Disney. È perciò del tutto inevitabile, attraverso lo scorrere degli anni, che le due correnti non finiscano per incontrarsi, creando un super-robot che è anche una pubblicità ambulante, di qualcosa che è in realtà molto più che un semplice brand, costituendo piuttosto una realtà quotidiana per centinaia di migliaia di giapponesi. Avete mai sentito parlare del Nuovo Tronco Ferroviario? Probabilmente lo conoscete con il suo nome originario, 新幹線 che per la cronaca, si pronuncia Shinkansen; un modo migliore di vivere il concetto di ferrovia, nato nel 1959, in cui non occorreva più scegliere tra il fare molte fermate, oppure raggiungere rapidamente il punto d’arrivo. Semplicemente perché la locomotiva, per la prima volta nella storia, riusciva a raggiungere i 220 Km/h. Ma quello era naturalmente, soltanto l’inizio… A.D. 2011: entrano in servizio i gli Shinkansen Serie E5, elettrotreni in grado di raggiungere i 320 Km/h, in uso sulla linea Tokyo-Aomori che congiunge la parte settentrionale dell’isola centrale dello Honshu. Per commemorare l’evento, le ferrovie giapponesi elaborano un progetto promozionale con la Takara Tomy, compagnia multimediale specializzata nella produzione di giocattoli e merchandise. Da questa fortunata congiunzione, quindi, nasce la linea di possenti mecha trasformabili Shinkalion (bando agli inglesisimi, la pronuncia è Shinkariòn). Proprio di questi giorni è la notizia che, come si era capito ormai da anni, il franchise si stava muovendo verso il culmine nipponico, pressoché irrinunciabile, della creazione di una serie animata televisiva, destinata ad inserirsi nel lungo, e profittevole filone degli show robotici orientati a un pubblico di bambini. Non senza sollevare auspicabilmente, in via del tutto collaterale, anche l’interesse di qualche otaku (in questo contesto “fan”) del mondo dei treni, con in casa vetrinetta d’ordinanza dei modellini, fondamentale per evitare l’accumulo di polvere sui preziosi oggetti della sua fissazione.

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Possiamo tenerlo? È un cucciolo d’insetto spadaccino

Nel consorzio lineare dei vermi, bruchi e piccoli serpenti, tutti quanti in fila dal tramonto fino all’alba, non c’è forse un membro più bizzarro e singolare della larva di Dynastes hercules hercules, neanche in grado di strisciare. Ma soltanto intrufolarsi, con la sua mandibola insistente, tra le fibre di un pezzo di legno marcio, e addormentarsi, poi mangiare, addormentarsi e poi mangiare. Fino a raddoppiare le sue dimensioni, e triplicarle addirittura, per giungere riempire facilmente un pugno umano:  150 mm, per 140 grammi, è l’obiettivo. Raggiunto il quale, il piccoletto si scolpisce un buco grosso esattamente il giusto, quindi secerne un’armatura ragionevolmente resistente. Ed a quel punto, inizia a mutare. Proprio come una farfalla! (Uguale!!) Generalmente, nell’allevamento di tali creature (che vi stupirà ma è alquanto diffuso, soprattutto in Giappone) si consiglia di lasciarle seppellite fino all’attimo dell’emersione spontanea dell’insetto maturo, prevista nel giro di un paio di mesi dall’inizio del processo. Un proprietario particolarmente esperto, ed abile nei movimenti delle mani, può tirare fuori la creatura occulta, per osservarne la corretta crescita e se necessario, aggiungere additivi nel sostrato. È del tutto incidentale poi, ovvero non determinante in alcun modo, che l’utente HirokA avesse in quel momento nella sua mano sinistra una telecamera, valida a mostrarci la natura estetica del suo tesoro. Così come che un frequentatore del portale Reddit, gran compendio d’opinioni e materiali reperiti online, passasse in quel momento di lì, pensando di proporre l’animale alla sua amata collettività. Dal che, apoteosi: perché la pupa dello scarabeo Ercole, stadio intermedio tra la forma originaria e la possente imago adulta, è una convincente unione di grazia e mostruosità. Che sembrerebbe aver ispirato, negli anni, innumerevoli interpretazioni del concetto di mostro alieno, nonostante uno stato di coscienza del tutto simile a quello di un cucciolo di cane o gatto. Fatta eccezione per il fodero del doppio corno, frontale/addominale, che appare ancora avvolto nel suo fodero di protezione chitinosa. Il didietro segmentato nel frattempo, al di sotto delle placche ancora semi-rigide dell’armatura, si agita vistosamente, nell’inutile speranza di sfuggire a eventuali predatori. Che comunque, in natura esistono eccome: nelle giungle sud e centro-americane, dal Brasile alla Colombia, Perù, Venezuela, Guatemala… Fino al confine meridionale del Messico, vi sogno ragni, piccoli mammiferi e insetti parassiti, che se rintracciano la tana, possono por fine alla venuta del sovrano. Ma se ad esso riuscirà di evadere i pericoli, per un tempo sufficientemente lungo, la natura gli concederà di essere tutto quello che poteva sperare, diventando uguale ai propri genitori. Per irrompere, con tutta la possenza di un guerriero, tra le sterpaglie e le radici della giungla, dove inizierà a volare, sbuffando, per poi farsi strada alla ricerca di una partner da impressionare.
È una vita dura. Proprio per questo, ricca di soddisfazioni. Ad appannaggio un insetto che costituisce, nei fatti, il singolo più lungo al mondo (180 mm) ma non il più pesante, primato che spetta allo scarabeo golia (gen. Goliathus) dalla riconoscibile colorazione bianca e nera, che tuttavia non può godere di un simile corno ad aumentare le misure complessive, superando talvolta in lunghezza il resto dell’intero animale. La quale impressionante arma, coadiuvata da una seconda più piccola in contrapposizione verticale ha una funzione, chiaramente, legata alle dispute tra maschi per il territorio, nel corso delle quali si realizza uno degli spettacoli più drammatici del regno naturale. Chi non li ha mai visti, in qualche documentario, o perché no, cartone animato? Due scarabei della sottofamiglia Dynastinae che si affrontano assomigliano a guerrieri fantasy, o minuscoli lottatori di sumo corazzati. Mentre si sollevano a vicenda, con la propria pinza sovradimensionata, nel tentativo di rovesciare l’avversario e costringerlo alla ritirata. Gli etologi ritengono che queste specie, in realtà molto difficili da osservare in natura, siano solite inscenare simili duelli sul punto d’appoggio di un ramo a decine di metri da terra. E benché siano in effetti, pienamente in grado di volare (un po’ goffamente) ci sono ben poche speranze che uno di loro riesca a riprendersi in tempo da avere salva la vita. Sia chiaro dunque che stiamo parlando di un vero e proprio gladiatore. O per usar l’analogia più fortemente sentita in Oriente: l’insetto dei samurai.

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