Il significato di una falce per gli agricoltori indiani

“Va bene! Voglio dire: cosa possiamo pretendere più di così?” La vita di campagna nello stato di Uttar Pradesh può donare grandi soddisfazioni. Il piacere della comunione con la natura, l’ottenimento di una paga semi-stabile, la consapevolezza di un obiettivo che può unire saldamente le famiglie dell’intero villaggio. “Certo, arrivati ai 30 anni cominciano i problemi alle articolazioni, la schiena inizia a irrigidirsi, alzarsi da una sedia non è più semplice com’era prima. Ma siamo disposti a conviverci, come ogni singola generazione prima di questo giorno…” Perché vedete, presso questi luoghi a quanto pare esiste un metodo tradizionale di fare le cose, che prevede la raccolta del grano con un metodo particolarmente antico, quello dell’attrezzo che i latini chiamavano falce messoria. Lasciate che vi aiuti ad identificarlo meglio: sto parlando del semplice bastone a una mano, lungo all’incirca una trentina di centimetri, con una lama ricurva di un paio di spanne all’estremità superiore. Il contadino all’opera, secondo la sua prassi di utilizzo, dovrà quindi piegarsi sistematicamente, afferrare la sommità delle piante con una mano e reciderne il gambo con un rapido gesto, assicurando la raccolta delle messi senza dover ricorrere a costosi macchinari, ovvero risorse tecnologiche del tutto fuori portata, ancora oggi, per molti dei paesi in via di sviluppo. È un lavoro nobile, un’opera profondamente funzionale. Che comporta, purtroppo, uno sforzo massacrante. Si dice che la mente umana sia per sua stessa natura creativa e ribelle, poiché intere generazioni di scienziati, tecnici e ingegneri hanno lavorato per dirimere le nebbie primitive, al fine di trovare una migliore soluzione ai molti problemi della società. Eppure ciò non toglie che, in determinate situazioni, possa subentrare l’elemento della compiacenza, questa imprescindibile abitudine ad accontentarsi della situazione presente, vedendo solo il meglio della vita. Se un qualcosa funziona, perché cambiarlo? Già, perché mai?
Ed è a questo punto che in un viaggio all’altro capo del mondo, simile per certi versi a un balzo indietro nel tempo, l’imprenditore canadese Alexander Vido si è messo d’accordo con due suoi amici indiani, Anant e Vivek Chaturvedi, per organizzare un tour nei luoghi nativi di quest’ultimi, e presentare ai colleghi locali una soluzione rivoluzionaria a tutti i loro problemi. Una falce della tipologia cosiddetta fienaia o frullana, di quelle per intenderci col manico lungo fino 150-160 cm e una lama di fino a 90, che tuttavia presentava anche un’innovazione ulteriore: la presenza di una grossa mano artificiale a cinque dita, benna o culla che dir si voglia, finalizzata alla creazione sistematica di una striscia di vegetali recisi, tutti orientati nello stesso modo e pronti alla raccolta tramite l’impiego di un carretto. Ciò è nient’altro che fondamentale, nell’ottimizzazione del lavoro di raccolta. Ma c’è un fattore ancora più importante: salvaguardare l’integrità di quanto si sta raccogliendo. Persino in Europa, il continente dove i ritrovamenti archeologici hanno dimostrato una maggiore diffusione di questo attrezzo fin dal 500 a.C, la falce fienaia aveva un utilizzo specifico che, per l’appunto, si può desumere dal nome. Essa serviva quasi esclusivamente per la raccolta di cibo per gli animali, mentre le più delicate spighe di grano usate dall’uomo, per essere raccolte in maniera corretta senza che si frantumassero al suolo, richiedevano l’impiego di quello stesso identico falcetto usato nello stato di Uttar Pradesh. Tutto ciò almeno fino all’epoca dei nostri trisavoli, tra il 1800 e il 1840, quando quasi contemporaneamente tra Europa e Stati Uniti iniziò a circolare la soluzione nuova di quella che venne formalmente chiamata la grain cradle (culla del grano) un apparato attaccato all’impugnatura della falce, che adagiava delicatamente la pianta recisa a lato.
Molti, su Internet, sono balzati subito alle conclusioni, gridando a gran voce che “Non è possibile” che nel subcontinente indiano, uno dei paesi culturalmente più antichi al mondo, le genti delle campagne non avessero mai visto una falce. Il che, probabilmente, è vero: il semplice concetto di attaccare un bastone più lungo alle loro lame deve necessariamente aver attraversato la loro mente. Ma il problema, piuttosto, è un altro. Avrebbero mai potuto farlo costoro con reali presupposti d’efficienza, senza disporre un’innovazione così recente che nei fatti, per una ragione o per l’altra, non aveva mai trovato applicazione nel loro paese?

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L’incredibile potenza del cavallo brabantino

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Nelle tipiche illustrazioni fantasy, come quelle del popolare videogioco World of Warcraft o dello strategico con le miniature da tavolo che l’ha ispirato, ricorre un particolare stile nel raffigurare i personaggi, tutt’altro che realistico nella maggior parte dei casi: i guerrieri hanno spalle larghissime, con protezioni sovradimensionate e dei lineamenti straordinariamente pronunciati, simili a quelli di un uomo primitivo. Le mani son enormi, mentre le membra sono corte e tozze, per accentuarne la muscolatura, tanto che sembra quasi di trovarsi di fronte a un’ibrido uomo-gorilla. E non entriamo nel merito delle proporzioni femminili, che è meglio… Il che del resto ha un senso nella ricerca di una grafica che possa dirsi caratteristica e divertente. Nel caso degli orchi, elfi e gli altri meta-umani, tra l’altro, tutto appare più che mai giustificato. Per quanto concerne invece i cavalli forniti ai giocatori, fondamentale mezzo di trasporto in una società d’ispirazione medievale, sarebbe difficile pensarci fuori dalle regioni della più pura invenzione: essi appaiono infatti lunghi e massicci, le zampe larghe come quelle di un rinoceronte. Il muso corto ed una testa piccolissima, posta sulla sommità di un petto squadrato almeno quanto quello di un pitbull, mentre i quarti posteriori, tondeggianti e solidi come la roccia, ricordano da vicino il sedere di un cane corgi. Questi esseri così diversi da un moderno purosangue, come dal tipico ronzino che tutt’ora serve nelle fattorie, galoppano con piena bardatura di metallo, vere e proprie parti d’armatura a piastre, nonché sulla sella riccamente ornata, un cavaliere grosso e forte, a sua volta abbigliato grosso modo come Jeeg Robot d’acciaio con le corna da vichingo, armato di spada, mazza, lancia e così via… 200, 300 Kg complessivi? Possibile. Tutt’altro che irrealistico. Perché lasciate che vi dica la realtà insospettata: quel tipo di cavallo esiste davvero, viene dal Belgio e… Potrebbe farcela davvero. Niente, nella storia pregressa di questa razza, è mai riuscito a far crollare la sua straordinaria determinazione.
E questo è un aspetto, io credo, a cui non si pensa tanto spesso. Che le cavalcature più pregiate delle epoche trascorse non erano certo gli antenati diretti di quelli che vediamo oggi all’ippodromo, straordinariamente fragili e veloci. Ma dei veri carri armati del regno animale, costruiti come macchine da guerra: il destriero, il palafreno, il corsiero, l’hunter. Tutti termini d’uso comune non tanto riferiti a specifiche linee genetiche, bensì al ruolo che questi quadrupedi assumevano nella loro vita con gli umani, particolarmente nel momento di scendere in battaglia. Se soltanto potessimo vederne uno da vicino, oggi, non avremmo il benché minimo dubbio: queste sono bestie da fatica, ovvero, da tiro. Animali concepiti per lo sforzo, tutt’altro che aggraziati in termini generali eppure, se soltanto li si guarda con l’occhio critico innato, dotati di una loro grazia e bellezza assai difficile da trascurare. Oggi il Gran Cavallo, come ancora lo chiamava Leonardo da Vinci nel 1482, nel progetto che doveva servire per la statua mai realizzata di Ludovico il Moro, è sostanzialmente sparito, benché persistano su questa Terra alcuni suoi remoti discendenti. E primo fra tutti, come avrete certamente capito dal video di apertura e l’accenno fatto poco sopra, è lui, il cavallo Belga da tiro. O come viene talvolta chiamato, il cavallo (della regione) di Brabant, o Brabantino. Una bestia formidabile e pacata, standardizzata soltanto a partire dal XIX secolo in tre varianti di altezza progressivamente maggiore: il Gros de la Deandre, il Gros di Hainaut e il Colosses de la Mehaique. Fin dalle soglie del ‘900, poi, alcuni esemplari importati negli Stati Uniti vennero selezionati per creare una versione dai tratti atipici meno accentuati, sostanzialmente simile a un cavallo normale di colore esclusivamente marrone. Ma grosso, enorme persino: gli esemplari maschi superano spesso la tonnellata di peso. Il più grande Brabantino presente o passato di cui abbiamo notizia è Big Jake, un castrato di 9 anni originario Wisconsin, misurante la cifra vertiginosa di 210 cm senza indossare i ferri. Trascinare un tronco per lui sarebbe un gioco da ragazzi, per non parlare di…Altre cose…

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Un trattore che si avvia con le cartucce di fucile

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Scenario: l’immediato periodo successivo al termine della seconda guerra mondiale. In un mondo stanco e ferito, sostenuto da un senso di latente sollievo, provato nell’anima ma lieto di voltare finalmente pagina, l’economia e l’industria cominciavano a tornare lentamente sul binario principale. E tutte le industrie, da Oriente ad Occidente, che per tanti anni avevano prodotto soltanto aeroplani o carri armati, avrebbero fornito gli strumenti stessi per cercare la normalità. Niente più cannoni ma tegami, aratri al posto dei fucili ed i motori potenziati dell’ultima generazione, vincitori di campagne combattute fino all’ultima goccia di carburante, che per la prima volta si trovavano applicati in ambito civile, servendo a svolgere mansioni maggiormente edificanti. Il che non significa, del resto, che le fabbriche di munizioni avrebbero dovuto chiudere del tutto. C’era, dopo tutto, ancora la necessità di andare a caccia, ed esisteva pure un certo di tipo di agricoltore. Il quale i propri colpi, li sparava col trattore. Anzi, DENTRO il trattore. E non soltanto perché il gesto risultava… Straordinariamente divertente!
Il particolare approccio era mutuato anch’esso, guarda caso, dall’ambito dei mezzi militari: perché all’epoca non c’era proprio niente di meno pratico, ponderoso e inaffidabile, che un sistema d’accensione elettrica, che richiedeva grosse batterie da mantenere cariche grazie ad attrezzature specializzate. Mentre il metodo dell’avviamento per inerzia, tramite l’impiego di un volano con o senza la stereotipata manovella, risultavano ingombranti, lenti e faticosi. Provate, a tal proposito, a vedere la questione dalla prospettiva degli anziani, che per anni avevano dovuto mantenere attivi i campi, mentre i loro figli, generi e nipoti, combattevano sui fronti più lontani e disperati. Uomini dai molti anni e qualche volta le afflizioni dell’età, piegati dolorosamente, per roteare il meccanismo ancòra e ancòra, finché a un certo punto finalmente l’accensione del veicolo giungeva a compimento. Così quando nel 1945 la Marshall, Sons & Co. di Gainsborough, nel Lincolnshire inglese, uscì sul mercato col suo ultimo e più rivoluzionario modello di veicolo agricolo, lo fece dando la più alta rilevanza pubblicitaria ad una particolare, fantastica funzione: il sistema di avviamento con cartuccia di fucile. Per cominciare la giornata di lavoro con un solo gesto, in pochi attimi, e passare subito al paragrafo più rilevante. Osservare con ammirazione, oggi, una simile prassi desueta, può sembrare un mero passatempo nostalgico. Ma la realtà è che il funzionamento di questi motori a diesel, tanto diversi da quelli attuali, potrebbe offrire un utile metro di paragone, per cercare nuove strade evolutive, potenzialmente meno problematiche o inquinanti.
A spiegarci il funzionamento del miracoloso meccanismo, ci pensa l’agricoltore veterano Pete, orgoglioso proprietario di un modello Field Marshall tirato a lucido fin quasi alle condizioni del nuovo, in questo video all’apparenza girato durante un qualche tipo di concorso per veicoli di un altro tempo, probabilmente tenutosi nel 2011 in un luogo d’Inghilterra. Il tutto ci giunge grazie al nostro relatore John Finch, autore e cameraman del video, che ci fa notare di aver “saputo porre le domande giuste al momento giusto” complessa operazione che lui definisce non senza ironia il “punto primo” dell’intera procedura. Mentre è ciò che viene subito dopo, a catturare l’attenzione e l’immaginazione…

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La vera funzione del cocomero quadrato

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La città di Tokyo è, per citare Anthony Bourdain, celebre cuoco, scrittore e personaggio della Tv statunitense, quasi certamente uno dei luoghi più incredibili della Terra. Un concentrato iper-tecnologico di soluzioni avveniristiche e interi quartieri a tema, un labirinto imperscrutabile di sotto-culture, istituzioni semi-serie e d’intrattenimento, punti di svago e giochi di ruolo indistinguibili dalla realtà. Un ambiente vasto e diseguale in cui il proprio modo di comportarsi, relazionarsi con gli altri o vestirsi, può indicare il senso d’appartenenza a tribù trasversali che superano il senso delle tradizioni, per generare una storia pregressa che corre indietro fino all’epoca dei samurai. Avete mai bevuto il tè verde? E con bevuto, non intendo semplicemente acquistato, preparato e versato la bevanda nelle tazze, per poi condividerla coi vostri amici e conoscenti. Ma essersi seduti con le gambe incastrate nella difficile posa del seiza, ascoltando i suoni della natura, mentre il sibilo del vento accompagna il gorgoglìo di un’antica teiera. Ed ai margini dello sguardo, posizionato apparentemente per caso in un angolo, è presente un oggetto d’arte finalizzato ad agevolare lo stimolo del pensiero: una statuetta di Buddha, un rotolo calligrafico, un piccolo ed altrettanto perfetto bonsai; una scultura moderna, un modellino di Gundam, un enorme Pikachu di peluche. O se siete davvero fortunati, qualcosa di ancor più raro e meraviglioso…
Intendiamoci: l’impiego presunto ideale del cocomero-cubo, fin dalla sua genesi commerciale verso il princìpio degli anni ’80, è stato fin da subito di natura sociale. Esisteva in effetti da poco una catena di negozi con sede nella capitale, dal nome di Senbikiya, fondata sul concetto che visitando un amico, il miglior omiyage (regalo) a disposizione fosse un buon frutto, che egli potesse gustare pensando a noi, magari poco dopo il termine dell’incontro. E non c’era niente di meglio, a tal fine, che l’impiego di un dono che stupisse anche l’occhio, ben prima di solleticare il palato. Dovete anche considerare che il Giappone, rispetto alla media dei paesi con la sua stessa popolazione, ha un’estensione del suolo coltivabile piuttosto limitata, che non gli consente di far fronte al fabbisogno nazionale di frutta e verdura senza ricorrer alle importazioni. Ciò a portato, negli anni a partire dall’epoca industriale, alla costituzione di una particolare filiera che cerca, sopra ogni altra cosa, la qualità estrema. Il che, unito al prestigio che si può tutt’ora guadagnare portando al proprio capufficio o suocero la perfetta scatolina di uva, mele o pere, ha fatto lievitare non poco il costo medio di simili “doni” della natura. Ma persino questo non era nulla, al confronto degli estremi monetari raggiunti dal più esclusivo, meraviglioso e raro dei frutti prodotti all’interno dei confini di Nippon.
Esiste un qualche grado di dubbio, su chi effettivamente abbia avuto per primo l’idea, benché la produzione effettiva della geometrica delizia spetti unicamente all’azienda agricola di Toshiyuki Yamashita, fiero abitante della città di Zentsūji, nell’isola meridionale di Shikoku; ciò certifica, in effetti, lo stesso brevetto mostrato nel video dall’imprenditore stesso a John Daub, il titolare, l’ideatore e conduttore della serie per YouTube ONLY in Japan, parte del network divulgativo WAO-RYU. Wikipedia cita tuttavia, con tanto di link all’effettivo documento ufficiale, un’opera d’arte della designer Tomoyuki Ono risalente al 1978, cui fece seguito l’immediato brevetto presso l’ufficio preposto degli Stati Uniti. Pare infatti che fosse stata proprio lei, la prima a pensare d’introdurre il dolce frutto della Citrullus lanatus all’interno di un contenitore quadrato, lasciandolo attaccato alla pianta per permettere che, crescendo, assumesse la forma desiderata. Ma oggi in Giappone, il cocomero quadrato è direttamente connesso unicamente a questi luoghi, e procurarsene uno privo dell’adesivo che ne dimostri la chiara origine controllata, vanificherebbe essenzialmente il valore del gesto e dell’oggetto in se. Il quale, come esordisce John nella sua esposizione, risulta essere tutt’altro che indifferente: si va in media dai 100 ai 200 dollari, con alcuni esemplari reputati assolutamente perfetti (nella precisione della forma ed allineamento della livrea alternata) che possono agevolmente superare l’equivalente dei 500. Si tratta, dopo tutto, di una merce piuttosto rara. E meno deperibile di quanto si possa tendere a pensare…

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