Tre insoliti caffè stranieri: il fresco, il bruno e il misterioso

Vietnamese Coffee

Recipiente di metallo dalle plurime sfaccettature, spigoloso, verticale. Un manico di bachelite ed un becco prominente, il pomello sulla cima del cucuzzolo bollente. Molti pensieri ed ancor più profonde considerazioni, sono state elaborate ai margini di ciò che stiamo descrivendo, fin dal distante 1933: la macchinetta immaginata da Alfonso Bialetti, per la prima volta sul princìpio di funzionamento della lavatrice lisciveuse, che portando ad ebollizione l’acqua per i panni, questo fluido lo spostava nello spazio superiore, in cui si andava ad incontrare col sapone. Prima di tornare giù, svolgendo il suo lavoro. Rapidità, praticità, nessuna possibilità d’errori. Bastò applicare simili metodologie all’antica quanto beneamata bevanda proveniente dal profondo dell’Africa e dell’area dell’Oceano Indiano, un prodotto possibile di oltre 13.500 specie vegetali differenti, per ottenere un qualcosa che potrà essere facilmente definito, senza timore di smentite, l’assoluta Perfezione. Un lieve sbuffo di vapore, il suono di automobili distanti. Le tende alla finestra che si muovono nel vento, dunque l’improvviso gorgoglìo. Dapprima lieve. Quindi un po’ più intenso. Ed sapore che già sgorga, dal condotto interno e l’ingegnoso fontanile in miniatura… Mentre la mente inizia a sorseggiare. Ma non smette di pensare: è davvero possibile, giungendo a tali vette d’eccellenza, continuare a mantenere un punto di contatto ininterrotto col passato? Cosa è andato perso, in questa storia di una bacca prediletta dall’umanità, e poi cosa ritrovato? È insomma davvero giusto definire, questa invenzione italiana, come l’unico modo degno per sperimentare l’epico sapore? Càpita così, di accendere la radio (Vietnamita? No, Thai). Per udire all’altro capo, nient’altro  che la nénia persistente del dubbio profondo, ding-ding-dong, ding-ding-ding…
Per trovare un punto di contatto di quel mondo, con il nostro di orgogliosi bevitori occidentali, occorre muoverci dall’altro capo dell’Oceano Atlantico. Dove dorme, acciambellato attorno al vasto continente americano, il grande drago dalle molte scaglie sfolgoranti di Starbucks. L’antonomasia del “bar” statunitense, una catena assolutamente spropositata, con oltre 180.000 dipendenti all’attivo. Un luogo in cui l’espresso tradizionale non è che una scelta fra molte, ed altrettanto spesso, non la più desiderata. Specie dai clienti di estrazione asiatica che in genere, così racconta almeno un testimone diretto in quel di Reddit, chiedono che sia guarnito con uno specifico prodotto, qui da noi praticamente sconosciuto: la mocha sauce, praticamente cioccolata ed addensante, molte volte più dolce dello zucchero e del miele. La ragione di una tale scelta va rintracciata per analogia nell’esistenza di questa bevanda concepita in Vietnam, che una buona parte del Sud-Est asiatico conosce ed apprezza da generazioni. E se avete visto il video qui sopra riportato, a questo punto lo saprete: stiamo parlando del Cà phê đá o caffè ghiacciato. Un invenzione dei primi del ‘900, qui dimostrata con abile prassi dal filmmaker Eric Slatkin, completa degli attrezzi vintage della tradizione. Perché non esiste l’eccessiva “efficienza” ma è pur vero, che anche le limitazioni fanno parte della “scienza”. E l’infusione.
Ora, naturalmente tutto quello che occorre per poter preparare la nostra amabile bevanda, non è null’altro che scaldare fino ad un certo punto i chicchi derivanti dalla lavorazione delle bacche, affinché questi liberino l’essenza deliziosa contenuta al loro interno. Ma affinché il prodotto finale non abbia un gusto sgradevole, la cottura dovrà interrompersi ad un punto assai specifico. Ed è per questo, in ogni versione moderna di una tale avventura, che s’impiega un filtro, all’interno del quale l’acqua circoli, s’insaporisca, prima di uscirne in qualche modo trasformata. Così la vecchia prassi vietnamita, molto precedente all’invenzione del nostro maestro piemontese, prevedeva l’impiego di un semplice filtro gravitazionale dal progetto francese, lì denominato cà phê phin, prima di essere depositata in un recipiente sottostante, assieme a latte in polvere e Longevity, ghiaccio ed un prodotto zuccherino comparabile alla mocha sauce. Il risultato, è…

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L’arma segreta delle megattere affamate

Bubble net feeding

Uno spettacolo unico al mondo, una visione indimenticabile e per certi versi terrificante. Adatta a chi vuole sperimentare la furia potenziale della natura, testimoniata dal comportamento specifico di un gruppo di creature pesanti 30-40 tonnellate, che cooperano nel momento di cacciare. Vorreste vederlo? Allora vi consiglio di venire…In Alaska. Dove altrimenti? E per essere maggiormente precisi, nella baia di Seward, sulla penisola di Kenai, dove da tempo ormai le barche piene di turisti si lanciano dai moli, per andare a far da spettatori a quelle che qui chiamano le Humpback whales (Balene gobbute) e che per noi corrispondono alla definizione scientifica di M. novaeangliae, ovvero quella delle Megattere “del New England”. Come volle chiamarle, per primo, il naturalista Mathurin Jacques Brisson nel 1756, benché oggi sappiamo, simili creature abitano in molti dei mari e degli oceani della Terra. Al punto da aver fatto teorizzare, dai classificatori moderni, l’esigenza di definire tre sottospecie differenti: l’una residente nel Pacifico Meridionale, l’altra nell’Atlantico Settentrionale e poi c’è questa. La megattera del Pacifico Settentrionale, che sola tra le sue simili dimostra la speciale abilità in questione. Così strategicamente complessa, e tanto valida nella risoluzione di un problema in rapido divenire, da ricordare l’invenzione di un intero comitato militare. Un qualcosa di “pensato”.
Ed in effetti, strano a dirsi, è proprio così. La caccia con la rete di bolle non è affatto scritta nel codice genetico delle balene: ciò possiamo ben desumerlo dal fatto che soltanto certi gruppi delle creature, ed unicamente in luoghi specifici, posseggano gli strumenti di pensiero ed attuazione necessari a praticarla. Si tratta dunque di una tecnica trasmessa attraverso le generazioni, patrimonio attentamente custodito di singole tribù d’animali. Vederne le ultime battute, dal ponte di una barca noleggiata in quel d’Alaska raramente lascia i turisti privi di un’impressione profonda e significativa. Soprattutto quando, come talvolta capita, ci si ritrova lì, fra l’onde. Per udire nel momento atteso il canto acuto dei giganti, che contrariamente a quanto ci viene dato ad intendere dal senso comune, è si! Udibile dall’orecchio umano. Addirittura dall’altro lato delle increspature sulla superficie che sostiene il nostro duro scafo. Una materia sempre più agitata e meno trasparente, fino a che non viene data l’occasione di scrutare le ombre colossali, che preannunciano e danno ad intendere il momento della verità. Ed ecco che finalmente, arrivano! Come coni vulcanici, come colline eruttive, quattro, cinque, sei bocche spalancate, in un vortice di spruzzi e di gabbiani, che prontamente si erano gettati nell’occhio del ciclone per tentare di arraffare il cibo. Rubandolo da un pasto costituito, guarda caso, da branchi di aringhe o eglefini, o ancora qualche sparuto gruppo di merluzzi neri. Gli oggetti di una simile, pericolosa attenzione. Si tratta di una questione, a ben pensarci, alquanto semplice da definire. Le megattere del Pacifico, per loro imprescindibile natura, sono grandi. Molto: fino a 27 metri di lunghezza. Il che significa, per le leggi fisiche del mondo, che sono anche relativamente lente, potendo raggiungere al massimo i 25 Km/h, ma soltanto dopo un lungo periodo d’accelerazione. Ed è proprio questo il motivo, tra l’altro, per cui si nutrono preferibilmente dell’invisibile brodo di microrganismi e gamberetti che viene convenzionalmente definito krill, esattamente come usa fare la distante cugina ancor più sovradimensionata, la balenottera azzurra. Ma si può anche capire, poco ma sicuro, il loro bisogno di mettere in pancia qualche volta un bocconcino un po’ più sostanzioso… Ed è qui che entra in gioco l’agilità concessa dalle grandi pinne anteriori di questi animali, che non per niente prendono il nome dalle parole greche mega-/μεγα- “grande” e ptera/πτερα “ali”.

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Come trovare il platino per strada

Cody's Platinum

È un esperimento, fondamentalmente. Nient’altro che uno studio di fattibilità su un processo che, svolto in una simile maniera, non potrà mai essere in alcun modo profittevole o proficuo. Il che non significa, del resto, che un’adattamento alla prassi dell’economia di scala, con grandi attrezzature, macchine e strumenti, non possa in un futuro trasformare questa attività in qualcosa di diffuso e totalmente quotidiano, per aziende pubbliche o private che poi mettano in commercio lo splendente materiale in massa, con un probabile immediato crollo del mercato. Nei primi minuti dell’intero processo, tuttavia, appare fin troppo chiaro che Cody ed il suo amico Arthur, l’ospite del presente video, al momento di girarlo fossero stati invasati dal demone della pura scienza. Altrimenti come potresti mai spiegare, la folle scena in cui i due coraggiosi, senza neanche l’ombra di un gilè catarifrangente, si sono avventurati con altrettante scope presso un viale a 6 corsie alle 3 di notte, con l’unica protezione della loro fida berlinetta con i lampeggianti accesi, a mettere in guardia chiunque dovesse sopraggiungere rischiando un incidente catastrofico e letale…Ma il guadagno ecco, il guadagno fa l’uomo… Imprudente.
Perché un’automobile, da certi inaspettati punti di vista, è fatta esattamente come una persona. Ha due occhi per guardare, orecchie, gomma zigrinata sotto i piedi. Ha un esterno resistente alle intemperie ed un interno morbido, ricolmo di strumenti utili al suo procedere da un luogo all’altro con estrema nonchalance. E una tale analogia, per quanto all’apparenza ardimentosa, può trovare il suo riscontro addirittura nei dettagli: vedi, per esempio, l’intestino. Perché al termine del nostro tratto digerente, una volta che il prezioso cibo ha già percorso l’esofago e lo stomaco, ciò che segue nel suo viaggio è un lungo tunnel, pieno di anse e punti ciechi, dove gli enzimi si attivano ed assorbono una parte addizionale del prezioso quibus nutritivo. Mentre prendi un mezzo a quattro ruote, mettilo sul ponte del meccanico ed osserva bene il suo squadrato deretano: cosa vedi? C’è un oggetto, poco prima del tubo di scappamento, che ha una forma esterna simile a un barattolo cavo all’interno, ma è in realtà riempita da innumerevoli cellette, come un alveare. Sarebbe questa la marmitta catalitica, dove i gas di scarico sono rallentati, grazie all’uso di una simile struttura, e quindi intrappolati, esattamente come le sostanze da noi masticate che finiscono laggiù, per aiutarci a camminare, parlare, respirare. Con una significativa differenza: poiché un’automobile non è vivente, e per funzionare essa consuma un qualche cosa che è tremendamente velenoso, non può essergli permessa la defecazione incontrollata. Almeno una parte, di simili scorie, devono restare lì, all’interno. Ed è una furba applicazione della chimica, quella che ha permesso agli ingegneri di risolvere il problema; poiché esistono metalli PREZIOSI, a questo mondo, che possono indurre la trasformazione degli ossidi d’azoto in puro azoto, e il monossido in anidride carbonica, ovvero CO2. Che non sarà la più desiderabile delle sostanze ma almeno, non uccide gli scoiattoli che vivono sui margini dell’autostrada. Per questo, all’interno del convertitore catalitico di un’auto nuova, possono esserci tra i 6 ed i 15 grammi di platino, palladio e rodio, ben nascosti tra i villi e cavilli della complessa struttura interna. Fino a 30, se si tratta di un SUV.
Il che ci porta a una questione estremamente suggestiva. Perché pare che, e ce lo racconta in questo caso il grande sperimentatore del canale Cody’s Lab, chiunque abbia mai lavorato con delle marmitte catalitiche ben conosca un incredibile segreto. Relativo al fatto che, dopo aver percorso 100.000 miglia, all’interno della marmitta resti la metà del contenuto originario in simili metalli. Come se la rimanente parte, per uno strano caso del destino, fosse destinata a volatilizzarsi assieme al carburante che in forma gassosa, li attraversa con grande violenza e velocità. Ma il punto, semmai, è un altro: perché l’esperienza ci insegna che i metalli di questo mondo, fra tutti gli elementi della tavola periodica, sono quelli meno propensi a mutare dallo stato solido, essere lanciati ad alta quota e scomparire tra la polvere di stelle. Mentre ciò che sempre fanno, per innata predisposizione, è ricadere sul terreno, soggiacervi, quindi scomparire tra gli strati superiori dei sedimenti, molto più leggeri. Ora, l’ambiente naturale dell’automobile è la strada, dove non esistono processi geologici (di questo noi ci siamo assicurati, per ovvie ragioni) ma si verifica comunque un qualche tipo di deposito costante: quello dello sporco, la polvere la spazzatura. Certo, quanto platino può perdere una singola automobile, in un tratto y di strada? Però quante auto passano, ogni giorno, presso i più importanti svincoli e le vie di scorrimento?
I conquistadores spagnoli, al volgere della scoperta del nuovo mondo, viaggiarono tra le giungle sudamericane alla ricerca della mitica città di El Dorado, in cui si diceva che le strade fossero lastricate d’oro. Non la trovarono mai, o almeno questo è quello che ci è stato detto. Ma è possibile che invece, le nostre vie asfaltate di maggior impiego, siano segretamente ricoperte del singolo metallo più prezioso di questa Terra? Vediamo un po’…

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Ragazzo del Galles reinventa il concetto di marionetta

Hand Puppet

Una riduzione pratica del bisogno talvolta palese di gettarsi dietro i propri guai, alzarsi in piedi e serenamente, mettersi a danzare. Perché non è sempre possibile, trovare quegli spazi che sono pienamente necessari, oppure battere coi propri piedi sopra il pavimento con il rischio di svegliare il cane dei vicini. Proprio per questo, esiste la simulazione: guardare la propria mano destra e dire, questa non è più un’estremità. Ma il corpo intero, di un qualcuno e quel qualcuno sono IO. Chi non l’ha mai fatto, prima d’ora? Disporre il dito indice ed il medio a forbice, mettendo prima avanti l’uno, quindi l’altro, mentre la mano procede verso il bordo di un tavolo e poi…Una danza…E poi… Volare? Cadere? Formare un pugno che ritorna fedelmente al punto di partenza, come quello di Mazinga dopo l’annientamento del nemico più temibile, la noia? Tutto è possibile. Con le mani, si usava dire nell’antico impero Archemenide prima dell’arrivo di Alessandro Magno, puoi accarezzare…Il gatto. O le cipolle. Se ce l’hai, altrimenti – JAZZ HANDS. Improvvisazione. Sentimento. Sorprendere se stessi e gli altri con un gioco di parole, però pronunciate nella lingua universale dei segni. Fatti con le dita e i gesti pronti all’uso quotidiano, si… Se ti accontenti! A sentir dire il misteriosamente abile Barnaby Dixon, davvero a questo mondo c’è di meglio. E così lo ritroviamo, nel suo penultimo video di un canale di YouTube che soltanto adesso, sta ricevendo la grande visibilità che certamente meritava, mentre mostra al mondo l’ultima invenzione messa a punto nella sua officina personale, che potrebbe o meno esistere in maniera puramente fisica, come spazio architettonico di questo mondo lacrimoso. Potrebbe, eppure non è affatto necessario. Ciò che conta, nell’opera di un entertainer tanto esperto nonostante l’apparente giovanissima età, sono le idee. O per meglio dire, la visione a fondamento della sua opera di artista innovativo. Tutto ciò perché, in effetti, un simile apparato costruito come ausilio all’espressività degli arti manipolatòri, su Internet non s’era mai visto. Il che non significa, a voler essere fin troppo cauti, che sia totalmente privo di precedenti: chi può dire, realmente, quante compagnie teatranti hanno percorso le incrociate strade della Storia… Ma per il modo in cui viene qui presentato, per l’abilità d’impiego, per lo stile di design curioso e pienamente ben riuscito, merita (al minimo) una freccia ben piantata dentro al pomo dell’encomio.
“Guardate e stupite” sottintende, “Spettatori.” Poi ci spiega: costui è il mio nuovo prodotto ESCLUSIVO. Una figura antropomorfa dall’aspetto spiccatamente tribale, con tanto di maschera in pieno stile africano, capelli a raggiera e quella che potrebbe soltanto essere definita come un qualche tipo di armatura. C’è un che di videoludico, nell’effetto complessivo di una tale marionetta, soprattutto per le movenze che l’operatore gli fa compiere, mentre gli arti stranamente scollegati dal corpo sotto-dimensionato paiono muoversi alla maniera impossibile di quelle di Rayman, il Super Mario proveniente dalla Francia. Ora naturalmente, se avrete osservato il video anche soltanto di sfuggita, il metodo impiegato da Dixon a fondamento del suo breve spettacolo non potrà che essere per voi chiaro: due mani l’una sopra l’altra, in opposizione. Ottimamente coordinate molto ben vestite. Del resto, questo non significa che il gioco sia davvero alla portata di tutti…

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