Uno sguardo più ravvicinato alla funzione della fonte radioattiva smarrita in Australia

L’effetto farfalla è quel paradigma teorico secondo cui il singolo battito d’ala di un insetto potrebbe nel momento giusto introdurre una variabile nel sistema atmosferico terrestre, tale da influenzare in senso significativo le interconnessioni tra i fronti d’aria calda e fredda vigenti. Fino a ingenerare, tramite una serie di eventi a catena, l’episodio meteorologico di un uragano dalla parte opposta del pianeta Terra. Poco… Probabile, sicuramente ma è anche il fondamento di un approccio al pensiero logico finalizzato a dare un senso alle profonde implicazioni delle circostanze. Quanto può una cosa che ci sembra piccola, in maniera poco prevedibile o apparente, portare a deleterie conseguenze sullo stato di salute, ed invero l’integrità stessa di preziosi ed insostituibili entità viventi? Vi sono presupposti in base ai quali l’effettiva massa, peso e dimensione di qualcosa costituiscono la metrica palese della sua possenza. Mentre in altri casi, è il possesso di una qualità ulteriore ed inerente, a determinare la portata del nostro latente senso d’inusitato terrore. Ed è il secondo tipo di connessione logica quella che tende a generarsi tra i nostri pensieri, nell’acquisizione di un tipo di notizia come quella che ha iniziato a diffondersi su scala internazionale nella giornata di ieri, benché relativa ad un evento verificatosi probabilmente tra il 10 e 16 gennaio scorsi e reso pubblico nel giorno 26 del mese, quando i responsabili si sono visti costretti infine a notificare le autorità dell’accaduto. Il tipo di contingenza che tende a sembrare a tutti evitabile, una volta che ormai è troppo tardi per tentare di porvi facilmente rimedio. Ed in realtà c’è qualcosa di delicatamente surreale o in qualche modo catartico, nell’udire la particolare sequenza di parole che, andando dritte al punto grazie all’opera di un incaricato PR di una certa esperienza, descrive la maniera in cui un camion noleggiato dalla compagnia mineraria Rio Tinto è riuscito incredibilmente a perdere, lungo la strada verso un sito di stoccaggio a Perth, qualcosa di minuscolo e davvero problematico. Niente meno che una capsula cilindrica, di 8 millimetri di lunghezza e 6 di diametro, contenente la corrispondente quantità di Cesio-137, un isotopo radioattivo soltanto parzialmente schermato e per questo capace d’irradiare, in modo potenzialmente letale, chiunque dovesse trovarsi nelle sue immediate vicinanze per più di qualche minuto. Il che potrebbe anche non aver costituito un problema (dopo tutto, qualcosa di tanto pericoloso può sempre essere captato con un contatore Geiger, giusto?) Se non fosse per l’estensione media del tipo di tragitto che nel continente australiano tende ad essere chiamato “strada”: esattamente 1.400 Km tra la miniera di ferro a Gudai-Darre e la capitale dell’Australia Occidentale, nei fatti maggiore di quella che separa l’estrema punta settentrionale britannica dalla regione costiera della Cornovaglia. Il che ha dato inizio, a quanto narrano le sincopate conferenze stampa prodotte fino a questo momento, ad una letterale caccia dell’ago avvelenato in un pagliaio gigante, mediante l’utilizzo di veicoli dotati di strumentazione specifica e grandi dispiegamenti di uomini e mezzi. Mentre i notiziari di mezzo mondo, non importa quanto distanti dall’accaduto, si sono preoccupati di offrire descrizioni estremamente approfondite dell’oggetto in questione, come se potesse spuntare, non si sa come, all’altro capo degli oceani sulle coste europee e statunitensi. Mentre ciò che nella maggior parte dei casi si è mancato di approfondire, come capita spesso su Internet, è la parte più interessante. Ovvero la precisa provenienza dell’oggetto e conseguente dinamica dell’incidente…

Sopra: l’utente di Reddit Mr Finley ha creato una riproduzione con la stampante 3D dell’aspetto che potrebbe avere la capsula smarrita dalla Rio Tinto.

L’utilizzo di un densometro non è particolarmente difficile, né rischioso a patto che si seguano le precise istruzioni. Il suo trasporto su lunghi tragitti, tuttavia, dovrebbe prevedere una serie di opportune precauzioni ulteriori.

Riportano taluni notiziari, sia in Italia che all’estero, la spiegazione sommaria di come una “svista” tanto drammatica possa aver avuto modo di verificarsi: a quanto pare il letale cilindro era contenuto, in modo piuttosto incredibile, all’interno di una “scatola” dotata di viti imbullonate. Una delle quali vibrando lungo il percorso accidentato dell’outback australiano è letteralmente uscita dall’alloggiamento, per poi permettere all’oggetto del destino di cadere fuori dal foro risultante, ed essere smarrito in un punto imprecisato del percorso, nella maniera notata soltanto alla redazione dell’inventario dopo il termine della malaugurata operazione. Il che tende ad evocare l’immagine piuttosto sconcertante di un oggetto tanto inusitato lasciato letteralmente libero di rimbalzare, come un fagiolo magico, all’interno di una scatola del tutto inadatta a contenerlo, frangente oggettivamente improbabile e che sarebbe stato di una negligenza pressoché criminale. Mentre uno scenario molto più coerente con la naturale concatenazione di causa ed effetto inizia ad emergere, nel momento in cui si approfondisce dove e come tale fonte, considerato il suo contesto di provenienza, dovesse essere comunemente impiegata. Ovvero in quel moderno settore della prospezione mineraria, nonché l’ingegneria delle infrastrutture stradali, che prende il nome di densitometria nucleare, consistente nell’impiego del potere dell’atomo al fine di scoprire l’effettiva compattezza di un particolare materiale, corrispondente nella maggior parte dei casi al suolo stesso. Attraverso l’impiego primario del densometro radioattivo, un apparato che si presenta con la forma e dimensioni approssimative di una vecchia macchina da scrivere posato a terra, dotato di un’alta maniglia metallica da manovrare restando in piedi. In questa maniera: l’operatore, praticando preventivamente un foro tramite l’impiego di un apposito trapano manuale, abbasserà nel punto idoneo la suddetta leva al fine di ottenere due cose allo stesso tempo. Punto primo, l’apertura di una schermatura piombata, capace di contenere all’interno dell’alloggiamento tutti e tre i tipi di radiazioni nocive per l’uomo, alfa, beta e gamma. Punto secondo, l’abbassamento di una sonda nel pertugio, dotata per l’appunto alla sua estremità inferiore della minuscola capsula di Cesio-137 (o altro isotopo di potenza equivalente). Ciò affinché, previa calibrazione di un contatore Geiger contenuto nel densometro attraverso l’uso di una seconda fonte identica situata accanto, si possa misurare l’esatta quantità di radiazioni che vengono respinte al mittente dalla parete più o meno permeabile dello strato di terra sottostante. Un’approccio per così dire statistico, ma estremamente preciso, alla valutazione stratigrafica di un tratto di suolo, e sua conseguente probabilità di contenere sostanze di un qualche valore. Ora dall’osservazione degli operatori incaricati di sfruttare un simile meccanismo, come osservabile dai numerosissimi video reperibili online sull’argomento, si nota la loro totale assenza di abbigliamento protettivo. E l’unica precauzione necessaria di spostarsi a circa due metri di distanza nel momento della verità, ovvero quando le capsule d’isotopo si trovano al di fuori della schermatura anti-radiazioni, lasciando intendere la quantità relativamente ridotta di radiazioni emesse anche nel momento estremo della verità. Questo perché il presunto cilindro letale risulta essere, anche in tale circostanza, smorzato dal suo stesso involucro metallico, capace di trattenere le particelle velenose di tipo alfa e beta, lasciando fuoriuscire soltanto quelle di tipo gamma. Struttura la quale, essendo di per se abbastanza protettiva da non richiedere alcun tipo di contenitore, potrebbe essere quella che ha visto verificarsi “l’allentamento della vite o bullone” da cui è risultato lo smarrimento dell’oggetto deleterio. Producendo un’irradiazione possibile, per chi dovesse trovarsi a pochi centimetri di distanza, pari a quella di circa 10 radiografie l’ora ovvero l’equivalente della quantità prevista nel corso di un intero anno per chi lavora a contatto con simili meccanismi. Il che non toglie come, in particolari circostanze, simili oggetti possano arrecare ed abbiano effettivamente arrecato in passato danni di natura niente meno che spropositata…

Il problema delle cose è che non sempre il loro aspetto corrisponde alla natura fondamentale dei loro presupposti. E quando cambiano i contesti, non sempre ci si rende conto delle conseguenze più indirette delle proprie azioni. Poiché non esiste la cognizione, perfetta e universale, di un pericolo che vive più a lungo di noi…

Vi sono due incidenti pregressi, a tal proposito, che vengono citati in merito alle capsule di Cesio-137, il primo dei quali coinvolse proprio quella originariamente contenuta in un densitometro per uso minerario presso la città di Kramatorsk, in Ucraina. Era effettivamente il 1980 quando il gestore di una miniera locale, dopo averne persa una in circostanze simili al caso australiano, la cercò per circa 10 giorni decidendo infine di lasciar perdere la difficile impresa. Cosa poteva succedere, dopo tutto, di così tremendo? Ma poiché il destino gioca scherzi spesso di una crudeltà particolare, caso volle che l’oggetto del destino finisse per essere prelevato accidentalmente e mescolato con la ghiaia dello scavo ai materiali usati per la costruzione di un edificio. Nella fattispecie il condominio 85 della strada Mariyi Pryimachenk, dové finì per posizionarsi esattamente all’interno di un muro, a ridosso di quella che sarebbe diventata in seguito una stanza da letto. Ebbene come potrete facilmente immaginare, le conseguenze furono nefaste: nel 1981 morì di leucemia la prima persona, una ragazza poco più che diciottenne, ben presto seguita da suo fratello di 16 anni. Quindi seguì la loro madre, per quella che i dottori considerarono erroneamente una predisposizione genetica della famiglia alla malattia. Così anche il figlio della nuova famiglia, trasferitosi a seguire nell’appartamento, morì nello stesso modo, prima che a qualcuno venisse in mente di accertare la presenza della maledetta capsula mediante l’uso di strumentazione adeguata.
Il secondo caso, ancor più grave e successivo in termini cronologici essendosi verificato nel 1987, coinvolse di suo conto l’intero quartiere della città brasiliana di Goyana circostante un vecchio ospedale, all’interno del quale dei raccoglitori di rottami trovarono una capsula d’isotopo di dimensioni superiori, che non senza una certa folle determinazione riuscirono purtroppo ad aprire. Tirandone fuori la polverina azzurra e brillante al buio, per via di un effetto noto come radiazione Cherenkov, che diventò una sorta di curiosità locale, venendo passata di mano, inalata o persino mangiata (in un caso particolarmente tragico, da una bambina di soli 6 anni) da una quantità stimata di circa 250 persone. Quattro delle quali morirono per malattia acuta da radiazioni, mentre molti altri negli anni successivi a causa dello sviluppo di varie tipologie di tumori.
Una terribile rimembranza, fin troppo spesso soprasseduta, dell’effettivo rischio inerente che sussiste in qualsivoglia tentativo di utilizzare l’energia dell’atomo custodita all’interno della materia. Si stima a tal proposito come la fonte australiana smarrita sulla via di Perth, in base alla mezza vita del Cesio-137 pari ad esattamente 30 anni, resterà ragionevolmente pericolosa per almeno un paio di secoli. Periodo durante il quale, nel caso per nulla improbabile in cui riuscisse a sfuggire ai suoi cercatori, potrebbe essere portata lontano dal vento, raccolta da qualcuno o perché no, fagocitata dagli animali. Il grosso uccello dei ratiti simile a uno struzzo, l’emù (Dromaius novaehollandiae) è ad esempio noto per la sua tendenza fagocitare oggetti metallici brillanti. E chissà a questo punto, prima dell’inevitabile epilogo della faccenda, vicino a chi potrebbe decidere di andare a morire. Poiché l’essenza stessa degli oggetti radioattivi, se soltanto ci si pensa, è quanto di più simile nel mondo materiale alle terribili maledizioni delle leggende folkloristiche o mitologiche prodotte dalle trascorse generazioni umane (e non solo). La grande Fine della vita invisibile e latente, che contagia e non permette di trovare alcun tipo di salvezza o speranza. Tutto il peso dell’Unico Anello, senza la capacità di diventare invisibili per il suo portatore. Poiché non si può trovare, semplicemente, alcun tipo di scampo o salvifico riposo, dal terribile calore che arde al suo interno.

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