La sacra coppa che fu perduta e ritrovata, diventando l’emblema museale d’Irlanda

“Sbrigati, il bastione del forte non terrà ancora per molto!” Il giovane Coll, con il lungo coltello stretto nella mano sinistra, in assenza del fodero lasciato in casa nella fretta di raggiungere il rath, guardava ansiosamente verso la porta dell’oratorio quadrangolare in legno lavorato, mentre il fratello Sean, secondo aiutante del sacerdote del villaggio, apriva l’armadio con i paramenti, tirandone fuori il calyx ministerialis, singolo oggetto più sacro dell’intero insediamento. Costoro erano i due più giovani membri della milizia e figli di famiglia nobile, inviati a svolgere il doloroso compito proprio perché ritenuti, a torto o ragione, i meno utili nel breve assedio che stava per cominciare contro i razziatori provenienti dal golfo di Corryvreckan, forse gli stessi che avevano attaccato il celebre monastero di Lindisfarne. Uomini spietati, vestiti di metallo e con alti elmi conici, che secondo le storie dei viaggiatori molti avevano iniziato a chiamare i “vichinghi”. Uscendo in tutta fretta dal basso e finemente ornato edificio, Coll fece segno di fermarsi, mentre osservava di sfuggita per un’ultima volta il meraviglioso oggetto, donato con gran sfarzo al capoclan di Ardagh dal suo Re legittimo, a seguito dell’aiuto ricevuto nell’ultima campagna militare con il tuatha (piccolo dominio) confinante. La coppa usata per dire messa, e principalmente costruita in argento, oro, bronzo e vari smalti colorati, conteneva una quantità di altri metalli che nemmeno in due, sarebbero stati in grado d’identificare al di là di ogni ragionevole dubbio. Ed in quel giorno fatidico, nel sesto mese del 723° anno dalla morte e resurrezione di Nostro Signore, essa sarebbe stata sepolta, per salvarla dal pericolo più grande: quello di cadere in mano a predatori spietati ed infedeli, per finire tra i tesori di una stretta e lunga nave di ritorno nell’oscuro settentrione innevato. Così Sean, guardandolo dritto negli occhi, fece un cenno inequivocabile, verso la fossa già preparata coi principali oggetti di valore dell’insediamento. Proprio lì sotto la vecchia quercia, dove un altro calice di bronzo si trovava in attesa, assieme a vari gioielli tra cui le grandi spille circolari dei due esattori delle tasse, inviati qui dal sindaco prima di prendere anche loro le armi. Con la massima deferenza, i fratelli posarono la reliquia tentando d’ignorare i suoi della terribile e disperata battaglia. La vanga, d’altra parte, era ancora lì accanto. Quindi una volta completata l’opera Coll, impugnando saldamente il coltello, alzò lo sguardo oltre le mura circolari del rath: già la punta di un’ascia ed una spada sporgevano oltre il bordo della palizzata. Suo fratello aveva in mano un piccolo arco da caccia, materializzatosi chissà da dove. Era l’ora di tentare il tutto per tutto, dimostrando la propria forza d’animo e convinzioni contro i barbari alle porte della civiltà. A Dio piacendo, nella speranza di essere presi come schiavi e forse, un giorno, ritornare a conoscere la libertà. E forse tornare fino a qui, uomini diversi. E ancor più saldi nella propria fede nei confronti della Provvidenza.
Lieta e pacifica, l’Isola Verde probabilmente non lo era più stata, fin dal posizionamento dei primi vessilli sulle alte colline, strumenti validi all’aggregazione di gruppi sociali in grado di riconoscersi in un antenato comune, con la ferma intenzione di combattersi per delineare i limiti dei propri territori. Ma il tipo di crudeltà e conflitti che questi abitanti poterono sperimentare per la prima volta attorno al sesto e settimo secolo, assieme al resto delle isole britanniche, furono di un tipo e una portata totalmente diverse. Tale da giustificare, in più di un caso, il tentativo di seppellire i propri averi più importanti, nella speranza di un domani migliore. Un giorno che talvolta non aveva proprio alcun modo, né ragione di venire a manifestarsi…

Fabbricare un calice come questo, per quanto possa sembrarci al giorno d’oggi sfarzoso e stravagante, doveva costituire all’epoca un profondo atto di devozione. Collegando il mondo materiale a quello superno, grazie all’utile strumento della grazia divina.

All’incirca tredici secoli sarebbero passati dunque, dal momento di questi drammatici (e totalmente ipotetici) eventi, perché qualcuno posasse nuovamente gli occhi sul prezioso tesoro di Ardagh. In circostanze non meno difficili, sebbene per ragioni assai diverse, del momento in cui venne dolorosamente ricoperto con la terra dell’altissimo Medioevo. Eravamo dunque verso la fine di settembre del 1868, pochi anni dopo quella che sarebbe passata alla storia come an Gorta Mór, la “vita grama” o grande carestia irlandese delle patate, quando la rapida ed inarrestabile diffusione di un’infezione fungina capace di compromettere il raccolto di quel bene primario aveva portato più o meno direttamente all’impressionante quantità stimata di almeno 1 milioni di morti. Dipingendo uno scenario di sopravvivenza all’interno del quale la separazione del raccolto era giunta a costituire un caposaldo della salvaguardia agricola, fino al punto di sfruttare terreni precedentemente giudicati sacri o degni di suscitare una profonda reverenza nei confronti degli antenati. Luoghi come il forte ad anello (rath) di Reerasta, vicino al villaggio di Ardagh nella contea di Limerick, dove tuttavia erano giunti a trovarsi quei due ragazzi, Jimmy Quinn e Paddy Flanagan. Rispettivamente figlio del proprietario della fattoria ed uno dei suoi servi, con il mandato sancito dall’amministrazione locale di piantare i loro tuberi lontani da quelli del vicino. Operazione per la quale adesso, facendo uso di strumenti non dissimili da quelli dei loro ancestrali predecessori, udirono improvvisamente un suono sordo e roboante: dovuta al fatto che la vanga, a quanto sembrava, aveva urtato una spessa lastra di pietra. Adesso i due si affrettarono a sollevarla, colpiti da un profondo senso di curiosità. E sotto di essa trovarono, con sommo senso di stupore e meraviglia, i vari oggetti di quel magnifico tesoro, che qui era stato nascosto, inequivocabilmente per salvarlo da un qualche tipo d’inimmaginabile razzia o saccheggio. Ora in un mondo ideale, o forse successivo all’invenzione di Internet, i ragazzi del posto avrebbero compreso di essere di fronte ad almeno un manufatto di valore inestimabile, contattando direttamente l’allora preliminare istituzione che sarebbe presto diventata il Museo Nazionale d’Irlanda. Ma poiché il terreno era di proprietà del vescovo locale, George Butler, essi consegnarono l’intero ritrovamento al padrone, che li ricompensò con la somma non particolarmente generosa di 50 sterline. Per poi ricevere a sua volta, a quanto si narra, fino a dieci volte tanto da parte dell’Accademia di Dublino, noncurante dell’aver commesso un’opinabile peccato di simonia.
Una sfortunata serie d’eventi, da un certo punto di vista, che avrebbe se non altro portato all’analisi tecnica e scientifica del magnifico e santo calice, giungendo a identificarlo come uno dei principali e meglio conservati esempi del largamente misterioso periodo definito in campo artistico come arte insulare, situato cronologicamente tra la caduta dell’Impero Romano e la devastazione dei principali centri culturali e religiosi irlandesi all’inizio delle cruenti scorribande vichinghe. Questo oggetto diventato a pieno titolo e ragione uno dei simboli nazionali più noti a livello globale, costituito dalla quantità notevole di 354 pezzi indipendenti, congiunti tramite l’impiego di un’impressionante varietà di tecniche di lavorazione dei metalli. Tra cui l’intarsio, l’uso sapiente del martello da fabbro, la fusione a cera persa, l’applique, il cloisonné e lo smalto. Con un’intrigante commistione di simboli cristiani e pre-esistenti, a partire dalla croce con sfere colorate nella sua parte frontale, potenzialmente allusiva alla forma floreale di una calendula, fino alla banda circolare nella parte alta dei suoi 190 mm di diametro, ornata con figure geometriche e di animali nonché i nomi degli apostoli trascritti nell’alfabeto gaelico. Con un’ulteriore fregio circolare in corrispondenza del gambo, anch’esso ospitante immagini create dall’artista, comprendenti figure d’animali ed altri soggetti collegati alla natura. Mentre persino la parte inferiore dell’oggetto riporta perle di smalto e un’ulteriore disco d’oro, tanto da aver motivato il collocamento del calice all’interno del museo in posizione sopraelevata su uno specchio, per facilitarne la fruizione da ogni possibile angolo di visuale. Accrescendone ulteriormente l’alone di leggenda…

Ogni lato dell’oggetto “di scena” è decorato con la stessa notevole attenzione ai dettagli. Non è forse vero, d’altra parte, che il prete l’avrebbe sollevato in alto sopra la testa durante i ben codificati passaggi del suo discorso?

La moderna Irlanda d’altra parte, soprattutto a partire dall’acquisizione della sua sudata indipendenza nella seconda decade del XX secolo, ha dimostrato al mondo di saper custodire e celebrare la sua storia con una particolare attenzione agli aspetti esteriori ed apprezzabili dell’archeologia pregressa. E interminabili “liste d’oggetti” in quantità di 100 o più, frequentemente citate come i simboli più rilevanti di questa o quella provincia, all’interno di cataloghi attentamente custoditi dalle autorità. Quasi nessuno, tuttavia, importante quanto alcune celebri reliquie, tra cui figura chiaramente il calice di Ardagh (a cui si ispirano almeno due coppe sportive e vari francobolli) oltre ai vangeli finemente miniati del libro di Kells e la magnifica spilla discoidale di Tara, tutti manufatti risalenti allo stesso periodo, collocato approssimativamente attorno al settimo secolo. Quando i singoli villaggi isolati, ciascuno dotato del suo stimato artigiano, avevano trovato modo di riunirsi in comunità più grandi, nell’attesa della nascita di un vero e proprio stato unificato. Opportunità destinata palesarsi soltanto dopo il ritirarsi dei razziatori vichinghi, passati a prede più redditizie, con la nascita del regno guidato dal grande re Brian Boru (941-1014). Non sarebbe tuttavia un errore, definire l’età precedente come un letterale periodo d’oro andato in fumo per le arti, capace di raggiungere vette senza precedenti e destinato, inevitabilmente, a declinare per i lunghi secoli a venire. Laddove persino oggi, con tutti i macchinari e le conoscenze a nostra disposizione, un fabbro moderno avrebbe serie difficoltà nel riprodurre fedelmente un manufatto di così straordinaria entità. Una presa di coscienza utile a ridimensionare la nostra spropositata, e qualche volta esagerata fiducia nella tecnologia. E tutti i grossolani errori di calcolo che tendono, talvolta, a derivarne.

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