Le spine di cactus che non nuocciono al palato della nave del deserto affamata

Come flussi che s’intersecano in un vasto delta fluviale, i cambiamenti dell’evoluzione incrociano le rispettive direzioni, mischiano le loro acque, avvicendano la propria forza cinetica nella realizzazione del grande obiettivo: convogliare l’acqua delle aspettative fino al mare delle circostanze finali. Così rincorrendosi, e cercando al tempo stesso di riuscire a primeggiare, lasciano indietro sedimenti, pietrisco, detriti. Mentre il piano dei primordi viene sovvertito ripetutamente, superando l’essenziale regola e la concatenazione della logica apparente. Prendi il caso, per comprendere quei presupposti, che una particolare creatura rappresenti l’assoluto perfezionamento, tramite lunghi millenni di minuti cambiamenti, dello stile di vita del grande mammifero all’interno di un territorio ostile. Il più terribile di tutti: l’arido, inospitale, scarno deserto. Alla stessa maniera, nel contempo, in cui particolari piante hanno scoperto il modo per riuscire a conservare umidità, resistendo con il proprio involucro coriaceo ai ripetuti assalti del clima e degli erbivori alla ricerca di una fonte di sostentamento. È perciò del tutto naturale che la seconda abbia un sapore quanto meno… Delizioso, per il primo e che costui farebbe pressoché qualsiasi cosa, per riuscire ad assaggiare il dolce gusto della polpa contenuta all’interno. Incluso sopportare l’agonizzante sensazione di essere trafitto ripetutamente nella bocca, nelle guance, sulle labbra e nell’arcata del suo grande palato. Fino a diventare, per usare un eufemismo, ESTREMAMENTE bravo a sopportarla.
Il che stupisce in primo luogo perché il qui mostrato cactus dell’Opuntia ficus-indica, inteso come pianta succulenta dalle riconoscibili foglie carnose a forma di pagaia, ha in effetti la sua origine nel territorio geografico del Nuovo Mondo, praticamente alle antipodi del primordiale territorio della bestia in questione. Che poi sarebbe, per dare un nome a questo volto, niente meno che il Camelus dromedarius da una singola gobba, ovvero quello che vediamo in genere associato a una qualsiasi storia o notizia, per non parlare delle confezioni delle sigarette, collegate a questo genere d’animali. Ma non necessariamente utilizzando gli occhi della mente, vista la collocazione ancor più iconica all’interno del senso comune del suo cugino C. ferus/bactrianus con la doppia gobba ed una provenienza più ad Oriente nelle steppe asiatiche fino alla Cina, dove sopravvive lo sparuto gruppo degli ultimi esemplari allo stato brado. Egualmente ghiotti, per quanto possiamo presumere, di queste foglie militarizzate ed auspicabilmente incommestibili senza un’adeguata preparazione umana, benché l’evidenza dei fatti ci dimostri su Internet l’esatto contrario. Come è possibile, dunque, che un genere di creature eurasiatiche dimostri l’effettivo possesso di tratti genetici adeguati alla consumazione di una pianta che, di contro, vede le proprie origini esclusivamente nel continente americano? La storia è più lunga di quanto potreste pensare e dal punto di vista anatomico, straordinariamente interessante…

Una lepre che mangia il fico d’India? È assolutamente possibile. Persino probabile, a dire il vero. Benché sia importante notare la sua particolare strategia, fondata sull’impiego procedurale di una dose significativa di cautela, mordendo tutto attorno a quelle spine crudeli.

La prima assunzione non corretta in merito alla questione risulta essere perciò quella che osserva lo stato attuale delle circostanze, cercando di trarre conclusioni in merito alla remota antichità della Preistoria dallo stato attuale delle cose, incluso l’areale assai variabile di una creatura in grado di spostarsi tramite l’impiego di quattro forti e lunghe zampe. Così tutti quei cammelli, in origine, non soltanto giunsero alle terre dell’attuale “Vecchio” Mondo a partire da un singolo antenato comune, ma possiamo con ragionevole certezza affermare che quest’ultimo sia stato, guarda caso il Protylopus, una creatura della grandezza approssimativa di una lepre che migrò ad Est attraversando il ponte di terra della Beringia, all’incirca 7,5 milioni di anni a questa parte. Mostrando un’inclinazione cosmopolita che potremmo facilmente definire come caratterizzante, ed alla base della sua futura e largamente nota adattabilità gastronomica ad una vasta gamma di circostanze. D’altra parte non va sottovalutata in alcun modo la maniera in cui il coerente schema evolutivo delle piante appartenenti alla famiglia delle Cactacee, parimenti, sia tutt’altro che unica nel panorama del mondo vegetale, trovando valide corrispondenze in altri esempi di stilemi negli ambienti aridi, dove la trasformazione delle foglie in spine ha molti più lati positivi che svantaggi. Vedi il caso delle euforbiacee, non a caso vendute spesso nel mercato del collezionismo con il nome di “cactus”, ma anche piante acuminate quali le acacie o Mimosacee, perfettamente capaci di trafiggere uno spaventapasseri alla maniera prototipica dell’ideale lancia di Longino. Il che esaurendo le nozioni del “dove”, “cosa” e “perché” ci porta a pieno titolo nel territorio familiare, ed estremamente interessante, del “come” ovvero la maniera esatta in cui, volendo analizzare a fondo la questione, i buon cammello può riuscire a masticare tutto questo senza riportare ferimenti gravi o significativi delle proprie fauci o condotti del sistema digerente. Permettendo di notare in rapide sequenze come quella d’apertura l’inconfondibile conformazione della bocca di questi animali, che altre pubblicazioni non hanno esitato a paragonare al “pozzo del Sarlacc” la giganteggiante creatura mostruosa e simile a un formicaleone del terzo film di Star Wars. Questo soprattutto per la presenza, all’interno delle guance, della gola e del palato, di una pluralità di estrusioni dalla forma grossomodo piramidale, in campo anatomico definite come papille, morfologicamente affini a quelle presenti sulla nostra lingua ma molto, molto più grandi e resistenti. Così come avviene in molti rettili, pesci ed uccelli per non parlare delle tartarughe di mare, servendo in modo esplicito allo scopo di guidare il cibo fin giù dentro lo stomaco, impedendogli in qualsivoglia maniera di muoversi nel senso contrario. Il tutto accompagnato, nel caso del cammello, da uno strato d’epitelio cheratinizzato anteposto alla prototipica sacca rossa di corteggiamento posseduta dai dromedari, protetto da un materiale affine alle nostre unghie delle mani e che ricorda una plastica particolarmente rigida al tatto, risultando perciò perfettamente capace di resistere alla punta acuminata delle spine di cactus o altre piante naturalmente belligeranti. Una dote, tra tutte le conformazioni possibili di un paio di fauci, che risulta dotata di un notevole valore. Soprattutto in luoghi di una simil natura…

Essere perfettamente adattati a trangugiare avidamente un certo tipo di cibo non significa, d’altronde, poter fare lo stesso con qualsiasi alternativa. Vedi la scena di questi due dromedari alle prese con una semplice biglia, che appare assai difficile per loro da tenere in bocca e finisce per essere mandata giù in un sol boccone.

Che il cammello possa consumare il cactus senza conseguenze, dunque, risulta essere una pura evidenza dei fatti, chiaramente ed ampiamente documentata. Che ciò riesca ad essere per lui, allo stesso tempo, facile e gradevole, è per lo più opinabile sulla base dei dati raccolti. In una famosa risposta data dall’utente Miles Burton del portale Quora, che si accompagna spesso al nostro video d’apertura, l’esperto allevatore ci racconta di come gli animali siano effettivamente attratti con golosità magnetica dalle foglie del fico d’India, benché siano tutt’altro che sereni e rapidi nel consumarlo. Fatta eccezione dunque per la scena suddetta (in cui l’operazione sembra andare assolutamente per il meglio) costui ci racconta di come i suoi dromedari assolutamente voraci di quella pianta, pressoché onnipresente nello stato dell’Arizona, non soltanto sembrassero infastiditi dalle spine della pianta, ma persino sofferenti al termine di ciascuno dei loro acuminati “spuntini”. Una condizione che d’altronde non sembrava scoraggiarli, per gli inevitabili e reiterati approcci successivi.
Il che ci ricorda, e simboleggia grazie al sempre pregno mondo esperienziale delle creature, come l’aspettativa di qualcosa di gradevole, di per se stesso, possa garantire il superamento di numerosi ostacoli situazionali. Ed ogni scoglio possa essere gioiosamente oltrepassato, dinnanzi ad un presunto guadagno di sazietà futura.

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