L’abnorme ammasso di aeromobili obsoleti che circonda la città di Tucson, Arizona

Non è affatto insolito per una città statunitense con una lunga storia bellica pregressa, come quella collegata a un sito strategico per l’addestramento dei piloti già nel corso della seconda guerra mondiale, il fatto di possedere un qualche tipo di museo aeronautico, dalle vetuste sale arredate dai velivoli di un tempo, preservati il più possibile per l’educazione dei futuri aspiranti piloti dei nostri giorni. Ciò che si dipana innanzi a tutti coloro che lasciano il complesso deputato nei dintorni dell’Old Pueblo di Tucson, secondo centro per numero di abitanti dopo Phoenix in tutto lo stato un tempo appartenuto alla popolazione dei nativi Apache, è l’opportunità di visitare qualcosa di simile ma dalle proporzioni non particolarmente facili da immaginare, almeno finché non lo si vede con i propri stessi occhi, nel corso di una delle molte visite guidate organizzate al volgere di ciascuna settimana: code, ali e carlinghe letteralmente finché riesce a spingersi lo sguardo umano. Ovvero in altri termini, l’effettivo parco di mezzi volanti in dotazione a quello che potrebbe essere il più grande schieramento di forze aeree al mondo dopo tutto il resto degli aerei in possesso degli Stati Uniti; se soltanto la stragrande maggioranza di un così eccellente patrimonio non giacesse, sotto il cocente sole del deserto, in vari stati di deperimento e rovina. In quello che semplicemente costituisce, all’identificazione di un’occhio esperto, l’equivalente militare di uno spropositato sfasciacarrozze o boneyard (campo d’ossa) alias l’AMARG – Aerospace Maintenance and Regeneration Group (309th) uno di quei posti in cui gli aerei ormai non particolarmente utili vengono immagazzinati, smontati, riciclati o trasformati in qualche cosa di diverso, ad esempio droni a controllo remoto da impiegare nelle esercitazioni con armi vere nei cieli del vicino poligono impiegato dall’Aviazione.
Una realtà piuttosto triste, se vogliamo, ma che trova una diretta corrispondenza in molti campi possibili del comportamento umano. Secondo il quale, lunghi anni di accumulo di beni cessano di avere un valido significato, nel momento stesso in cui vengono rimossi dal proprio originale contesto d’impiego. Diventando più che altro un’ostruzione, una tipologia di ostacolo all’impiego efficiente d’ingenti risorse pecuniarie e di spazio ai fini di possibili progetti futuri. Ed è proprio qui che entrano in gioco istituzioni come quella di Tucson, integrata nel contesto dell’attuale consorzio della base in servizio attivo di Davis–Monthan, intitolata a due piloti originari dei dintorni e deceduti negli anni ’20 del Novecento nel corso dell’espletamento delle proprie funzioni. In una maniera paragonabile a quella che potremmo individuare nell’ultimo capitolo della storia di molti tra i velivoli qui presenti, taluni tra i quali servitori tecnologici della patria e la bandiera nel corso di quasi un secolo di storia. A partire dalla fondazione di questo luogo totalmente fuori scala, collocabile precisamente nel corso dell’anno 1946…

Il personale della base di Davis–Monthan risulta essere al conteggio attuale per lo più costituito da civili, con soltanto due ufficiali di controllo assegnati alla gestione quotidiana del Boneyard. Ciò probabilmente al fine di contenere, per quanto possibile, i costi operativi delle sue procedure.

Immaginate dunque di essere una grande potenza globale, nel contesto largamente ridisegnato del pianeta appena uscito dalla guerra più terribile che avesse mai sperimentato fino a quel momento. Le vostre piste di decollo ed atterraggio letteralmente ingombre non soltanto di caccia già prossimi all’obsolescenza, causa l’ombra incombente del nuovo spettro dei motori a reazione, ma imponenti bombardieri e aerei da trasporto, quali rispettivamente il Boeing B-29 Superfortress e il Douglas C-47 Skytrain. Oggetti forse non più utili come soltanto una manciata di mesi prima di quella data, ma che non per questo potevano essere semplicemente accantonati, lasciando che le intemperie e gli elementi si occupassero di ridurli in un letterale ammasso di rottami. Dal che l’idea, certamente ingegnosa dal punto di vista programmatico, di trovargli un luogo di riposo idoneo, dove potessero resistere almeno fino all’implementazione di un’appropriata filiera di riciclo e reimpiego. Sito magnificamente individuato proprio nella periferia cittadina di questo centro da 240.000 anime, caratterizzato dalla perfetta nonché rara combinazione di un’altitudine di 780 metri, clima secco e un suolo solido e compatto, in misura sufficiente da non dover richiedere la costituzione di grandi viali e piazze asfaltate. Al fine di ospitare il numero sempre crescente di relitti, ulteriormente aumentati nel 1965 con l’aggiunta dei circa 600 aerei provenienti dal vicino Litchfield Park di Goodyear, precedentemente gestito dalla Marina. Fino all’attuale quantità stimabile attorno alle 3.000 unità, largamente trasferite in questo sito sfruttando l’energia dei propri stessi motori per un’ultimo volo, prima che la cessazione dello stato operativo intervenisse a rendere esponenzialmente più costoso qualsivoglia tipo di spostamento. Per un catalogo, in quest’ottica, formalmente suddiviso in una serie di “livelli” in base al grado di rovina ed ipotetica prontezza operativa di ciascun pezzo facente parte dell’imponente collezione. A partire dal tier 1.000, degli aerei posti qui per lo stoccaggio a lungo termine, mantenuti intonsi e sottoposti anche ad occasionali opere di manutenzione, nell’ottica ideale di un futuro ritorno tra cieli. Benché in situazioni e con missioni ben diverse da quelle che hanno conosciuto ai loro tempi d’oro. Una fra tutte, quella già citata di essere impiegati come bersagli volanti durante le più importanti sessioni d’addestramento. Diverso il caso del tier 2.000, appartenente a quei velivoli ormai giudicati troppo vecchi per servire a niente di diverso, che fornire parti di ricambio ed utili materiali lavorati pronti al riciclo, mediante lo svolgimento di una lunga serie di passaggi preparatori. Categoria all’interno della quale, essenzialmente, potremmo anche inserire la vasta serie d’imponenti bombardieri B-52 Stratofortress dismessi al termine della guerra fredda negli anni ’90, e fatti a pezzi all’epoca sotto l’occhio vigile dei satelliti ex-sovietici mediante l’utilizzo di una speciale ghigliottina creata ad-hoc. Per quanto concerne il tier 3.000, invece, siamo innanzi a mezzi ancora utilizzabili sebbene superati, per avionica, sistemi d’arma ed altra tecnologia di bordo, mantenuti in condizione relativamente pronta al decollo dovesse mai scoppiare un nuovo conflitto apocalittico finale. Il che conduce numericamente, se non in una progressione naturale, al tier ultimo cui è stato attribuito il numero 4.000, degli aerei da cui è stato tolto fino al più minuto componente riutilizzabile, prossimi all’ultima spiaggia dello smaltimento come rottami per la costruzione di lattine, automobili, strutture architettoniche… Un fato forse non tra i più dignitosi, per simili trascorsi eroi dei cieli. Ma pur sempre utile all’accrescimento del benessere comunitario dei nostri giorni.

Molti sono gli ex-piloti che chiedono di visitare l’AMARG, spesso chiedendo se possibile di giungere al cospetto del velivolo che avevano utilizzato in qualche momento memorabile della propria carriera. Qualche volta è persino possibile, per gli addetti, soddisfare una simile pretesa.

Vecchi eroi che non servono più a nessuno, dismessi orpelli di un’epoca in cui la vita era più semplice, ed assieme ad essa ciò che risultava in grado di combattere una guerra tra le regioni iperboree degli strati d’atmosfera terrestre. Verso un lento e progressivo ritorno alla terra, ma non prima che ogni singolo fattore trovi applicazione pratica nei modi possibili concessi dalla moderna tecnologia di riciclo. E qualche “pezzo forte” da mantenere al sicuro per l’accrescimento di fama del tour locale, effettuabile dietro il pagamento di una somma ragionevole di appena 10 euro. Vedi il Lockheed LC-130 Hercules Phoenix (numero 8321) rimasto a lungo intrappolato in mezzo ai ghiacci dell’Antartico, per un malfunzionamento del suo speciale sistema di decollo a reazione. O l’F-14 numero 159437, che decollando dalla portaerei J.F. Kennedy riuscì ad abbattere nel 1989 due Mig-23 Flogger libici sopra il golfo di Sidra, in uno scenario che sembrava provenire direttamente dallo storico film Top Gun, uscito soltanto tre anni prima. Per non parlare dei molti aerei ed elicotteri decorati con le scritte di commiato dei loro vecchi piloti, spesso accompagnati dalla firma e data relativa al compiersi del loro ultimo volo.
E la scaletta con lo spazio di parcheggio vuoto identificato con la dicitura F-117 Nighthawk, il famoso “aereo invisibile” della Skunk Works. Perché un pizzico d’umorismo, a conti fatti, non fa mai male! Soprattutto quando ci si trova al cospetto della più dispendiosa, vasta e diversificata delle discariche, a solenne testimonianza dell’ultimo destino delle ingenti somme pagate dai cittadini americani con le proprie tasse, per poter godere di servizi sanitari e d’altro tipo che potremmo definire a conti fatti meno validi di quelli conferiti a queste vecchie ferraglie dei cieli. Che è un po’ una sorta di contraddizione, ma anche ciò contribuisce a definire il paese maggiormente militarizzato al mondo! Non che il senso di responsabilità connesso a un tale status invidiabile (?) nei trascorsi frangenti, non ci sia tornato utile in un gran numero di delicati momenti storici e risvolti internazionali.

Lascia un commento