Il piumaggio del piccione psichedelico che discende da sua maestà il dodo

Non è un momento semplice da definire, nell’incedere dell’entropia che conduce irrimediabilmente all’estinzione. Trascorso un lungo periodo di preoccupazioni ed ansie, ho finalmente imboccato quella porta… Luminosa eppure stranamente angusta. Sono andato nell’ufficio del capo e ho chiesto due settimane di ferie! Ho fatto i bagagli in un pomeriggio frenetico ma stranamente liberatorio. Ho lasciato l’auto in un parcheggio a lungo termine e sono salito sul primo aereo disponibile verso il distante Oriente. In un luogo sperduto. Un’isola lontano dagli esterni presupposti. Spiaggia libera da ogni segno che potesse riportarmi al centro della mente un ricordo di Lei… La città. Metropoli terribile, agglomerato delle meraviglie, fonte di prosperità e squallore, forza d’animo ed annientamento della personalità umana. Cinque minuti dopo essere sceso dal taxi e abbandonato il piccolo bagaglio nella lobby del villaggio vacanze, ho fatto qualche passo tra le verdeggianti propaggini dell’oscura giungla delle Nicobare, quando un suono sommesso ha cominciato a risalire nell’amigdala alla base del mio cervello. Lieve, distante: “Tuu, tuu ~ Tuu, tuu” Libero? Non è possibile. Gli occhi spalancati, le mani prossime alle orecchie, in un gesto istintivo di terrore subdolo insinuato nel profondo dell’animo umano. Dietro un tronco, camminando dondolante, l’impossibile forma di quella grigiastra Creatura. Prima quella testa tondeggiante, in cima a un collo scuro ricoperto da un casco di piume oggettivamente un po’ cascanti. Poi le ali portate ordinatamente lungo i fianchi, fino alla forma affusolata di una coda piatta e larga, contrassegnata da una forma bianca ed appariscente. Oh, tremendo araldo delle aviarie circostanze! Simbolo della condanna e tutti gli anni di pregressa dannazione… Fino in capo a un lungo itinerario, la mia vista si è incrociata alla sagoma di un tremendo piccione. Così pensai, e di questo avrei narrato nel cassetto della mia memoria futura, se non fosse stato per un semplice accidente del destino. Mentre l’equilibrio delle nubi sovrastanti si trovava a sovvertirsi per un vezzo del Dio dei Venti, lasciando che un singolo raggio di luce diretta penetrasse tra gli spazi delle fronde, fino a ricadere sopra il dorso dell’uccello fuori dai confini dell’asfalto che possiede il suo stesso… Colore? Cosa vedono i miei occhi? Trasformato nella forma e nell’aspetto, con i fianchi ricoperti dal vermiglio di Asfodelo. E il collo verde come l’abito di Belzebù in persona. Il viola luciferino sulla sommità della sua testa, arcano copricapo che indica l’appartenenza a un cerchio più ristretto di entità chtonie. Dal profondo dell’inconscio, egli era giunto. La fenice della fine. L’arpia delle salvezza. Il grifone del pan grattato fuoriuscita dal cartaceo recipiente della vita stessa.
Un Caloenas nicobarica, o come lo chiamano da queste parti, il ma-kūö-kö è molto più che un semplice volatile della metà di nostra vita. Potremmo a dire il vero definirlo più come la manifestazione tangibile del principio e della fine, la via d’accesso ad una forma mentis che prevede la bellezza in ogni tipo di creatura. A patto che i trascorsi della sua evoluzione siano stati sufficientemente permissivi, ovvero privi di quel tipo di pressione che costringe le generazioni a conservare l’energia del proprio codice genetico, lasciando in secondo piano ogni possibile mania di protagonismo. Vedi quella che conduce, senza falla, certi uccelli ad agghindarsi come i principali attori di una rappresentazione teatrale sulle gesta di antichi eroi aztechi. Formidabili nel proprio mondo, ma purtroppo e imprescindibilmente, destinati ad essere lasciati indietro dalla spietatezza inusitata della Storia…

La principale maniera per distinguere un esemplare giovane di questi uccelli è la minore capacità delle piume di riflettere e cambiare la luce. La punta della coda, inoltre, diventa bianca soltanto al raggiungimento dell’età adulta.

Per comprendere davvero a fondo la collocazione tassonomica di questo uccello, andando oltre mere considerazioni di natura estetica, occorrerà quindi spostarsi di oltre un paio di secoli in avanti dalla sua originaria classificazione ad opera del naturalista inglese Eleazar Albin, poi integrata nella decima edizione del Systema Naturae del buon vecchio Linneo. Quando la creazione di strumenti più avanzati al formidabile servizio della biologia, assieme alle discipline interconnesse allo studio della genetica e tutto questo che ella comporta, avrebbero portato ad una strana linea di collegamento individuata nei citocromi b dell’mtDNA e le 125 sequenze di rRNA. Direttamente riconducibile, senza nessun presupposto di probabile deviazione, ad un essere da tempo già fatto e finito, inteso come forma fisica e lungamente compianta del dronte o dodo. Quel Raphus cucullatus, come l’aveva chiamato lo stesso Big L. parlandone già al passato, di cui i primi esploratori dell’Oceano Indiano si erano nutriti con trasporto, rilasciando nel contempo dalle proprie cupe navi la progenie accidentale del ratto nero. Vero essere venuto dall’oscurità del mondo, portatore della fine per innumerevoli generazioni di pulcini ed uova. Il che avrebbe lasciato vivi, tra i columbidi di questi luoghi dalle dimensioni imponenti di fino a 50 cm, soltanto quelli in grado di raggiungere i rami più alti al fine di costruire la solida intelaiatura del loro nido. Ed ecco svelato, dunque, l’arcano: di un piccione come quello delle Nicobar (in realtà diffuso anche in India, nelle isole Solomon, a Palau e in Malesia) che diversamente da quello che potremmo essere indotti a pensare, non è una mera derivazione infusa di quel naturale “Gradiente di vivacità latitudinale” recentemente individuato in uno studio britannico (Cooney, Varley et al, 2022) che porta gli uccelli prossimi all’equatore ad essere più sgargianti. Bensì la risultanza di un preciso bioma, dalle abbondanti fonti di cibo nutriente rappresentato da frutta e semi, e considerato il vantaggio reciproco di potersi riconoscere a distanza coi propri simili, durante le frequenti migrazioni intra-costiere tra un isola e l’altra. Al punto che il segmento candido della coda stessa è stato paragonato, in contesti informali, al fanalino di coda seguito dagli altri entusiastici partecipanti al gruppo di volo. Così come quella chiara catarifrangenza, frutto di una struttura cellulare riflettente nelle cellule delle sue piume, stranamente simile allo strato chitinoso di un coleottero, dovrebbe servire alla funzione d’invogliare l’essenziale formazione di coppie riproduttive. Che analogamente a quanto avviene per le specie di piccioni a noi più prossime, saranno inclini a rimanere unite per tutta la vita. Ciò detto, non tutto è semplice come appare, poiché il piccione delle Nicobar depone in genere un singolo uovo per stagione riproduttiva, ellittico e bluastro, il cui pulcino sarà alla nascita assolutamente altriciale, ovvero incapace di spostarsi o mettersi in salvo da eventuali pericoli. Ragion per cui la mimetizzazione della coppa di rametti diviene niente meno che essenziale, così come l’attenzione e la frequenza del rigurgito impiegato da entrambi i genitori al fine di nutrire il prezioso rampollo.
Il che d’altronde non protegge questi volatili dal loro nemico più terribile, che non è il topo e neanche il gatto (benché ci vadano entrambi vicini) bensì la creatura bipede ed onnipresente che li ha trasportati fin quaggiù, l’avido ed infaticabile essere umano. Che non solo si è nutrito tradizionalmente, fin dall’alba dei tempi, di queste creature relativamente incapaci di difendersi fatta eccezione per la capacità di emettere “un fragoroso grugnito simile a quello di un maiale” (peccato nessuno sembri averlo registrato online) ma ne ha fatto incetta per il chiaro valore estetico delle loro piume. Ed un’altra, più sinistra ed inaspettata, tipologia di tesoro: niente meno che la “pietra” del ventriglio, quella macina durissima facente parte del sistema digerente dell’uccello, da lui utilizzata al fine di tritare e trangugiare le durissime noci moscate dell’ambiente da cui proviene. Oggetto orribile e maleodorante, che una volta sottoposto a un appropriato trattamento, le culture indigene e non solo sono state riportate utilizzare per la fabbricazione di una strana tipologia di gioielli. Davvero, il gusto della collettività non conosce ragionevoli confini…

Priva di significative caratteristiche di dimorfismo sessuale, il maschio del piccione di Nicobar è soltanto lievemente più grande della sua signora. Le piume sono un po’ più lunghe. La protuberanza sul becco lievemente più pronunciata.

Oh, presenza stranamente magnifica, per quanto relativamente indesiderata! Oh, topo pantagruelico delle globali circostanze alate! Come hai potuto fare questo? Sollevarti all’incrocio della Rosa dei Venti, per raggiungere sull’ali del destino un luogo tanto solitario e distante… Non lasciandomi altra scelta, che venire a patti con la forma e la sostanza di quell’essere che tanto a lungo è stato il simbolo della costante quotidiana prigionia di noialtri.
Umani “dodo” intesi come dollarizzatori dell’interregno intra-domenicale, schiavi dolorosi della doppia domanda: Do dove proveniamo? Do dove stiamo andando? È già giunta l’ora della fine, ahimé. Perciò sorga in una poetica conflagrazione, dalle ceneri di questo giorno, una perfezionata immagine del tutto accidentale di me stesso. Purché sia, come quel vivace abito piumato che osservo, diversa.

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