Guardare, non toccare: c’è una spina velenosa sull’aguzza mantide di mare

L’evidente risultanza di una circostanza evolutiva reiterata, nonostante appaia superficialmente assai rara. Il dito della natura che punta contro di te e solennemente rivolge la sua domanda: “Benvenuto all’ultimo dei tuoi giorni, essere…Vivente. Come desideri riuscire a reincarnarti? Un fantasma… O uno scheletro?” Porque no los dos? Affermava con tono accattivante la simpatica bambina americana, nella pubblicità del preparato per i tacos “duri e morbidi” venduto al supermercato. Tuttavia non c’è un grande negozio negli abissi silenziosi dell’umido globo solare. E dunque per nutrirsi, occorre ogni vantaggio che sia possibile acquisire sulla strada serpeggiante degli eventi. Come un paio di chele raptatorie. Multiple antenne. Un corpo che si annoda attorno alla vegetazione, mimetizzandosi e sfruttando al tempo stesso le instancabili oscillazioni della corrente! Con un risultato stranamente familiare, agli entomologi e gli scrutatori della Terrafirma, per un approccio alla questione nutritiva che ricorda l’animale religioso per eccellenza, la cui “preghiera” è sempre consistita nel ghermire piccole cose volanti via dall’aria. E quindi suggerle con le mandibole affilate come pugnali. Ma esiste pure il caso, di un crostaceo propriamente detto, vero e proprio anfipode, come sua cugina la pulce di mare. Che per questo non possiede “solamente” sei zampe, bensì un gran totale di 18, molte delle quali deputate a una funzione molto specifica, di cui ghermire è solamente quella più evidente; così il paio più avanzato si occupa di sminuzzare e trangugiare il cibo. Mentre quelle posteriori sono simili alle dita di una mano artigliata, concepita per stringere saldamente i gambi d’alga o di colonie degli idroidi, come dei perduti ramoscelli di una pianta che sa replicare se stessa. E tra quelle che si trovano nel mezzo, alcune ospitano branchie, altre sacche delle uova, altre ancora sono atrofizzate e ormai del tutto inutili; perché si può finire per avere troppo, addirittura di una cosa buona come questa. Così appare chiara, almeno in linea di principio, questa immagine di una creatura lunga e affusolata, come una sorta di millepiedi degli oceani del nostro pianeta. Se non fosse ritornato a intervenire, a più riprese nella lunga serie dei momenti pregressi, l’ingegnoso pennello creativo del demonio. Tale da creare uno degli esseri più visualmente aggressivi e potenzialmente inquietanti dell’intero regno animale.
Ed è una fortuna, senza dubbio, che stiamo parlando di una creatura normalmente non più lunga di 5 cm, nelle plurime incarnazioni degli oltre 1300 generi riconosciuti all’interno della famiglia Caprellidae, dimostrando un’eccezionale propensione alla speciazione e conseguente capacità d’adattamento, per un tipo di creatura che ricorre, in una forma o l’altra, nella stragrande maggioranza dei Sette Mari. Poiché se cose come queste fossero imponenti, intelligenti e predatorie, cose come queste popolerebbero i nostri peggiori incubi ancor più di quanto ci riescano con chi è affetto da thalassofobia. L’irrimediabile, ed in qualche modo comprensibile paura degli abissi marini. Che qui trova la più squisita e imprescindibile realizzazione, per chiunque inizi la propria esistenza come larva di pesce o altra creatura planktonica, incapace di resistere alla forza che finisce per portarla alla sua portata. Rischiando di aver trovato per sua sfortuna uno dei cattivi gamberi scheletrici… O fantasma. Non tutte le specie, dopo tutto, sono inclini a fare questo, prendere una cosa viva e trasformarla in cibo, essendo la stragrande maggioranza delle specie per lo più detritivore, agendo come veri e propri spazzini dei mari. Per non parlare di quelle, ecologicamente ancor più rilevanti, che si nutrono esclusivamente di diatomee, piccole alghe unicellulari dal resistente involucro gelatinoso, favorendo il passaggio delle loro preziosissime sostanze nutritive a punti più elevanti della catena alimentare. Una tendenza che difficilmente può prescindere, da qualsiasi abitante delle letterali giungle dove raramente giunge a pieno titolo la luce della nostra (Buona) stella…

Indubbiamente malefica nell’aspetto, naturale ispiratrice di un migliaio di copertine d’album Heavy Metal e boss dei videogiochi sparatutto. Tra le bolle scintillanti, che conducono a una fama imperitura.

Tralasciando termini di paragone xenomorfi (ma QUANTI esseri, esattamente, furono l’ispirazione di quel mostro!) una certa convergenza di fattori può essere individuata tra i caprellidi ed il cavalluccio marino (gen. Hippocampus) la cui coda prensile simile a quella di una scimmia viene qui rimpiazzata da una pluralità di artigli, la cui funzione ecologica risulta essere del tutto identica: trovare una letterale autostrada dettata dal flusso delle correnti, dove venga naturalmente trasportata ogni fonte di cibo. E lì restare stabili per servirsi liberalmente, in base al proprio famelico bisogno di nutrirsi. Cosa più facile a dirsi che a farsi, quando si ha il peso inferiore a quello di una foglia autunnale. Senza contare l’aspetto naturalmente appetitoso, per una vasta quantità di possibili predatori. Il che rappresenta la ragione, tra l’altro, per cui il gambero scheletrico può presentare innumerevoli livree e colorazioni differenti, in base alla maggiore quantità di forme di vita vegetative che si trovano nel suo specifico ambiente d’appartenenza. Tali da permettergli di scomparire, per quanto possibile, nel mezzo delle multiple diramazioni che conseguono dalle ambientali circostanze. Tali esseri non risultano essere affatto, d’altra parte, dei provetti nuotatori potendo riuscire a sollevarsi nella colonna acquatica soltanto flettendo ritmicamente l’intero estendersi del proprio corpo, in una sorta di danza ubriaca che risulta comica quanto poco efficiente. Il che offre ben poche possibilità di riuscire a mettersi in salvo, al palesarsi di uno dei suoi ben noti nemici naturali. Tra cui figurano principalmente specie carnivore di nudibranchi, le variopinte lumache di mare, ma anche gamberi, pesci e meduse di varia natura. Confermando una posizione intermedia nella concatenazione dei pericoli che si riflette a pieno titolo in quella della nostra ben più familiare amica, la mantide terrestre. Completamente diversa risulta essere, di contro, la procedura riproduttiva che consiste nell’accoppiamento tra esemplari rigorosamente sessuati, ed in tal senso facilmente distinguibili data la dimensione superiore del maschio, possibile soltanto nel momento in cui la femmina sta effettuando la muta del proprio esoscheletro corazzato, normalmente impenetrabile a qualsiasi trasferimento di materiale genetico. Un evento preceduto da feroci sfide tra gli aspiranti partner, capaci di combattere mediante l’uso delle proprie chele proprio come fossero guanti da pugilato, con conseguenze tuttavia capaci di risultare molto più crudeli, se non addirittura letali. Rilevante, a tal proposito, la possibile presenza mai scientificamente confermata di un aculeo velenoso sopra gli arti appositi, già di per se capaci di fare a pezzi e uccidere un membro della stessa specie. Una volta mandati via o fisicamente eliminati i rivali, dunque, il consorte eletto tasterà attentamente la sua lei, nel tentativo di determinare l’attimo in cui potrà procedere nella saliente operazione. A seguito della quale, trascorsi alcuni giorni, la femmina deporrà fino a 40 uova all’interno delle sacche apposite, facenti parte dei segmenti del proprio corpo angolare. Dando inizio ad un periodo di aggressiva e implacabile cura nei confronti della prole che continuerà anche dopo la nascita dei piccoli, che verranno al mondo senza passare per uno stato larvale planktonico, risultando per questo una letterale versione su scala ridotta dei loro stessi genitori. Ed in tale guisa resteranno attaccati al corpo di lei, per un periodo di svariate settimane e fino al raggiungimento dell’indipendenza e conseguente età riproduttiva, affinché il ciclo possa cominciare nuovamente da capo al volgere di un’alba carica di nuove speranze. La durata della vita di tali creature, variabile in base alla specie, raramente supera d’altronde gli 80-90 giorni, sebbene esistano casi osservati di esemplari che hanno agevolmente raggiunto il singolo anno d’età, rafforzando in ciascun caso l’essenziale percezione dell’impermanenza di ogni essere tra le regioni variegate di questo mondo. Da cui consegue la necessità di agire con perizia e precisione, affinché possa svolgersi il proprio ereditario ruolo biologico tra le pieghe multiformi dell’Esistenza. E quale può essere lo scopo ultimo di un fantasma, o di uno scheletro, se non creare altri fantasmi, o scheletri? L’unica speranza è continuare a riprodursi, per spezzare la condanna di una forma (relativamente) stabile. E tornare, nuovamente, a perseguire i mistici sentieri sottomarini dell’evoluzione…

Ricoperta dai suoi piccoli, la madre gambero finisce per assomigliare a un piccolo e vibrante albero di Natale. Dev’essere, senz’altro, lo spirito della stagione che avanza…

Esteriormente spaventosi , soprattutto quando compaiono in affollate colonie nelle sentine delle navi o presso il fondo dei bacini di carenaggio, i gamberi caprellidi tendono tuttavia a concentrarsi nella maggior parte dei casi lontano dagli spazi a noi più familiari. Concentrandosi presso il fondale della zona meso- ed infralitorale, a profondità di 80 metri ed oltre, dove a ben pochi potrebbe mai venire il vezzo di andare a disturbarli. Un’eventualità ancor più remota per tutte quelle specie che si trovano oltre il piano dell’oceano più profondo o afitale, con colonie ed esemplari rilevati sporadicamente anche a svariate migliaia di metri dalla distante superficie marina. Il che non ha del resto prevenuto la loro totale salvaguardia dall’inarrestabile marcia dell’entropia biologica, soprattutto in forza del mutamento climatico, che alcuni studi hanno determinato essere di certo rilevante per la conservazione della loro biodiversità prossima e remota. Poiché non c’è una vera ragione, se osserviamo la questione con sguardo spassionato e del tutto razionale, per temere un gambero mostruoso quando siamo noi, i veri dominatori incontrastati e imprescindibili signori della Terra. Coloro che determinano il tema della sinfonia. E purtroppo, anche il suo ritmo sempre più frenetico e autodistruttivo. Per cui non c’è dito accusatore che tenga, né chela abbastanza grande da deviare il corso del grande fiume. A meno che il cambiamento possa provenire… Da molto, molto lontano.

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