Il fulmineo balzo del Me 163, l’aereo più estremo della seconda guerra mondiale

Il maggiore Wolfgang Späte, capo dell’unità top-secret EKdo 16, si era calato nella stretta cabina del suo minuscolo aeromobile rosso fuoco verso la metà di una mattina di sole del 1944, presso l’aeroporto di Brandis, vicino Lipsia. Quella primavera d’altra parte, più e più volte gli impianti di trasferimento del gasolio sintetico di Leuna erano stati attaccati dai bombardieri americani, causando ulteriori danni alla macchina bellica già stanca della grande Germania, non più invincibile come un tempo. Pressoché immobile per circa due ore, salvo l’occasionale movimento per sporgersi al fine di ricevere gli ultimi aggiornamenti dai suoi sottoposti, aveva quindi osservato con aspettativa il cielo, in attesa del primo remoto segno di un nemico. Pensando alla patria, agli amici, alle sue 72 vittorie confermate in diversi teatri di guerra grazie all’impiego di diverse versioni dell’iconico caccia Me 262, al fine di allontanare il caldo ed il senso d’inquietudine latente. Proprio mentre ripercorreva nella mente l’epico culmine dell’ennesima opera wagneriana, quindi, udì un grido dall’altra parte della pista “Achtung, Bomber kommen!” Ci siamo! Pensò. Con un solo fluido movimento chiuse la bolla protettiva della cabina, afferrando con entrambe le mani i controlli. Esattamente mentre premeva il pulsante d’accensione del suo motore a razzo Walter R-1-203, udì gli altri membri dello stormo di cinque aerei fare lo stesso qualche metro più indietro. E con gesto sicuro, premette innanzi la manopola del Me 163 che aveva ricevuto l’onore, e il dovere, di pilotare. Ora normalmente l’accelerazione di un velivolo avviene in maniera incrementale: dapprima con la velocità di un rubinetto d’acqua, quindi quella di un fiume ed infine una cascata in piena. Ma in questo specifico caso, avrebbe piuttosto potuto ricordare il getto di un possente idrante industriale, che aperto al 100%, da lì continuava ad aumentare. Dopo circa 15 secondi di rullaggio, la pista si stava già allontanando sotto di lui ed iniziò a tirare verso di se la cloche; il cielo riempì lo sostituì lo stretto ritaglio di panorama visibile al di sotto dello stretto campo visivo offerto alla sua postazione di comando. E fu allora che li vide, giusto mentre premendo un pulsante ad attivazione elettrica, rilasciava il carrello di decollo, scaraventandolo da qualche parte tra i campi della Sassonia: una formazione di sei fortezze volanti B-25, seguite dal classico gruppo di P-51 Mustang, il caccia americano che tanti problemi aveva causato nell’ultimo anno ai propri connazionali. Egli sapeva, tuttavia, che in quel giorno non ci sarebbe stato alcun combattimento. Soltanto l’ora di pranzo, da parte di un gruppo di falchi veloci come il fulmine e dotati d’un incomparabile potere distruttivo. 10.000, 11.000, 12.000 metri. Inviando segnalazioni sulle tempistiche d’attacco ai membri del gruppo d’attacco, Wolfgang si preparò quindi ad attaccare i bombardieri, con una singola raffica dei sui due cannoni da 30 mm MK 108. Il nemico, lo sapeva bene, non avrebbe neppure avuto tempo di comprendere che cosa lo avesse colpito.
Il Me 163, primo aereo della storia ad entrare il servizio con l’effettivo motore di un razzo verso la fine della guerra in Germania, diventò istantaneamente il caccia più veloce che avesse mai preso il volo, grazie alla sua velocità massima confermata di 1.004,5 km/h, misurata durante le prove tecniche ad opera del pilota sperimentale Heini Dittmar. Una volta completato il suo processo d’attacco, d’altra parte, diventava istantaneamente anche l’aliante più assurdo dei cieli; con i suoi appena 7 minuti di carburante, infatti, il pilota non poteva far altro che spegnere il motore (una scelta in effetti obbligata) ed usare l’ingente spinta residua per planare di nuovo verso la base di partenza, nella speranza che i P-51, P-47 o altri membri della scorta statunitense non riuscissero ad intercettarli sulla via del ritorno. Egli aveva, quindi, una singola possibilità per riuscire nel mettere a terra il velivolo, prima che l’esaurimento della spinta inerziale lo portasse ad uno stallo dalle conseguenze particolarmente orribili, data l’alta volatilità di entrambi i tipi di carburante contenuti al suo interno, situati a pochi letterali centimetri dai comandi di volo. Ma chi dovesse pensare che l’assurda follia di un simile aeromobile si esaurisca in questa descrizione, dopo un mero approfondimento, potrebbe facilmente restare del tutto basito…

Nota: l’unico esemplare volante del Me 163, probabilmente almeno in parte una replica, si esibisce nel video di apertura in un breve volo durante un airshow organizzato dalla EADS, destinata dal 2013 a diventare il gruppo Airbus SE.

La straordinaria traiettoria d’intercettazione del Komet, unita al suo limitato successo in battaglia, è la chiara dimostrazione di come un singolo fattore al di fuori qualsiasi parametro non basti, nella maggior parte dei casi, a fare di un aereo da combattimento un successo.

Lo stesso fatto che il surreale Komet, costruito in legno e duralluminio con un peso complessivo inferiore alle due tonnellate fosse stato prodotto, al termine della guerra, in ben 300 esemplari la dice lunga sulla fiducia spesso mal riposta delle massime autorità militari tedesche nei confronti delle impressionanti wunderwaffe, “armi fantastiche” e veri e propri elementi fuori dal contesto, presumibilmente più adatte a film del genere diesel/steampunk che effettive situazioni di una guerra ormai già durata fin troppo a lungo. Nato dalla penna e la creatività del grande ingegnere Alexander Lippisch, destinato ad emigrare dopo la guerra assieme a molti suoi colleghi negli Stati Uniti, dove venne accolto a braccia aperte nel contesto del programma dal nome in codice Paperclip, questo era un aereo capace d’incorporare in modo particolarmente chiaro le sue esperienze pregresse nel mondo del design aeronautico. Essendo nient’altro un’evoluzione, per l’appunto, del precedente Lippisch Delta IV, leggiadro esperimento d’aerodinamica creato entro i confini del Deutsche Forschungsanstalt für Segelflug (DFS – Istituto Tedesco per il Volo con Alianti) al quale veniva aggiunto, per la prima volta, un sistema di propulsione assolutamente terrificante. Il Walter R-1-203 usato nella prima iterazione prodotta in serie del Komet non avrebbe, d’altra parte, sfigurato in un moderno missile a ricerca terra aria; alimentato, per inciso, con la benzina C-Stoff a idrazina-metanolo ed il catalizzatore T-Stoff, praticamente del puro perossido d’idrogeno, entrambi liquidi tossici, trasparenti, incolori e corrosivi, la cui combinazione accidentale avrebbe portato ad un’immediata deflagrazione subito seguita da incendio, eventualità costata la vita ad una buona parte dei sedici piloti (o più) che purtroppo persero la vita durante le prove tecniche ed il successivo impiego operativo dell’ala volante. Una volta in aria tuttavia il velivolo, con la sua particolare configurazione priva di coda e straordinariamente compatta, risultata sorprendentemente stabile e facile da pilotare, a patto che l’uomo a bordo si ricordasse di tenere il timone centrato alle basse velocità, data la maniera in cui entrava nell’equazione soltanto una volta raggiunte le accelerazioni superiori. Le prestazioni del tutto prive di precedenti, tuttavia, non bastarono a fare di questo insolito aereo un successo. La cadenza di fuoco relativamente ridotta dei cannoni montati sulle ali, originariamente una coppia di 20 mm poi sostituiti dal succitato MK 108, potevano far fuoco soltanto un numero limitato di volte durante gli appena 2,5 secondi in cui il caccia ultrarapido stava per sorpassare il lento bombardiere, mentre il carburante limitato gli consentiva un massimo di due passaggi. Il sogno di costruire una rete protettiva di questi straordinari implementi, perennemente pronti al decollo in prossimità dei più importanti obiettivi di guerra nel territorio tedesco finì inoltre per naufragare, proprio a causa della difficoltà di reperire le sostanze chimiche per la produzione del carburante di questi ultimi verso gli ultimi capitoli della guerra. Ma le problematiche non finivano certo qui: lo stesso concetto del Komet, in quanto tale, risultò pieno d’implicazioni nefaste. La prima versione dell’aereo, il Me 163A, aveva ad esempio un problema con il carrello sganciabile, le cui ruote ammortizzate tendevano a rimbalzare verso l’alto, colpendo occasionalmente la carlinga nel corso del decollo. Mentre la versione successiva Me 163B, era dotata di una versione diversa dello “sci” di atterraggio (evidente retaggio del precedente aliante Delta IV) il cui ammortizzatore idraulico tendeva a guastarsi, con conseguenze altamente problematiche per la schiena del pilota. L’intero impianto elettrico dell’aereo, inclusi i flap d’atterraggio e la radio, era alimentato inoltre da una singola batteria dalla capienza estremamente limitata al fine di ridurre il peso, aiutata da una dinamo rotativa connessa all’elica sulla punta dell’aereo. Ma anche questo sistema non era al 100% affidabile, causando più di un transitorio grattacapo ai coraggiosi, o spericolati utilizzatori. Nonostante le leggendarie imprese dello squadrone EKdo 16 al comando di Wolfgang Späte dunque, al termine della guerra i Komet avevano abbattuto tra i 9 e i 18 bombardieri alleati, contro una perdita di 10 caccia intercettori; senza contare quelli che si erano autodistrutti per qualche problema ai controlli o la deflagrazione del carburante. Ma soltanto al costo di un severo e costoso addestramento per gli aspiranti piloti, inclusivo, tra le altre cose, di una dieta particolare a base di fibre per ridurre il rischio di svenimenti alle alte quote raggiunte dall’aeromobile durante l’uso, al confine della stratosfera.

La famosa aviatrice della Luftwaffe Heini Dittmar, leggendaria pilota sperimentale, racconta con straordinaria enfasi della sua esperienza a bordo di un Komet che si era guastato durante i test, non riuscendo a sganciare il carrello dopo l’avvenuto decollo né a comunicare più in alcun modo con l’aereo che lo stava trainando. Esperienza conclusasi, per sua fortuna, con l’unica conseguenza di lesioni al volto seguite al contraccolpo di un difficoltoso atterraggio.

Completato il secondo e più feroce passaggio, Wolfgang si voltò quindi a osservare l’effetto del suo cannoneggiamento: il B-25, non c’erano dubbi, aveva riportato danni a motori multipli e sarebbe precipitato di lì a poco in pieno territorio tedesco. Un altro giorno, un’altra vittoria: la fabbrica era salva? Osservando la scena al di sopra della sua ala vermiglia, vanitosa richiesta specifica al personale di terra che riprendeva il Fokker del grande barone Manfred von Richthofen, egli vide i membri del suo stormo manovrare per l’ultima curva, dopo aver colpito senza effetti il resto della formazione. “Verdammt, di nuovo! Possibile che io sia l’unico pilota COMPETENTE rimasto in Germania?” Così ebbe modo, per l’ennesima volta, d’imprecare.
E ciononostante soddisfatto; di se stesso se non dell’effettivo traguardo conseguito, l’asso completò l’arcuato tragitto di ritorno senza nessun tipo di problema ai controlli. Per poi lasciare l’aereo ad adagiarsi a terra sulla pista in posizione obliqua, causa il semplice effetto della gravità. E sapeva bene che a quel punto, soltanto lo speciale mezzo di recupero Scheuch-Schlepper, un trattore dotato di airbag gonfiabili di sollevamento, avrebbe potuto riportarlo all’interno dell’aria di parcheggio, possibilmente prima che i Mustang nemici giungessero fin lì a vendicarsi sulla via del ritorno. Così aveva inizio, dunque, un’ulteriore stagione della sua infinita & non particolarmente teutonica geduld (pazienza…)

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