Coraggiosi avventurieri di un oceano andato incontro a pietrificazione

“Terra all’orizzonte, terra!” Il grido che riecheggia sulla tolda, dalla piattaforma sulla cima dell’albero maestro. Gioia, giubilo e altre simili reazioni; la conferma molto attesa della meta finalmente prossima, al termine di un viaggio lungo e certe volte, articolato. Può sussistere del resto il caso, all’incontrario, che una simile evenienza possa dimostrarsi meno lieta? Il risveglio preoccupante di quel senso d’inquietudine, per non dire vera e propria ansia, che deriva da un qualcosa che semplicemente non può essere, se non rinunciamo alle nozioni della mera verità acquisita… Certamente! Se vogliamo usare il mero oggettivismo della logica e del resto, eccone una chiara prova. Registrata, caso vuole, a partire dal momento in cui lo yacht-catamarano ROAM presso l’isola di Vava’u a nord di Tonga nel Pacifico Meridionale, ha pubblicato alle ore 19:00 locali del 15/8/19 il proprio aggiornamento quotidiano di navigazione online: “Incontrata una distesa di rocce di pomice che ricopre completamente l’oceano, posizione: 18 55′ S 175 21′ W. La dimensione varia da quella di una biglia ad una palla da basket […]” Per poi proseguire con la descrizione di un lieve odore di zolfo nell’aria e, nel successivo aggiornamento, l’appassionante descrizione di come Michael e Larissa Hoult, dopo aver spento motore per salvaguardarlo e navigando quindi soltanto a vela, erano riusciti a dirigere la propria prua in un’altra e più sicura direzione. Una scelta saggia, ma non l’unica possibile. Come ampiamente dimostrato dal qui presente video di un’altra imbarcazione privata, quella di Shannon Lenz e Tom Whitehead, la cui registrazione video mostra chiaramente l’esperienza vissuta da chiunque, per sua scelta o mera distrazione, fosse sufficientemente “pazzo” o scientificamente interessato, da accettare a pieno l’impossibile occorrenza. O avesse voglia di veder scrostato il proprio scafo dai cirripedi, senza dover spendere un singolo dollaro presso il suo successivo porto d’approdo.
La zattera di pomice, come viene definita tradizionalmente questa tipologia d’isole galleggianti, è in effetti un evento di tipo vulcanico, generato in questo caso da un monte sottomarino precedentemente ignoto e tutt’ora privo di un nome. Causata dalla fuoriuscita di una certa quantità di magma lavico dall’alto contenuto di silicio e rioliti, rapidamente raffreddatosi alla giusta profondità. Non troppo elevata, perché le rocce conseguentemente riempitosi di gas più leggeri dell’acqua potessero riempirsi totalmente come fossero spugne, precipitando eternamente verso le più oscure profondità. E permettendogli di andare, dunque, in direzione opposta, fino alla splendente superficie che s’increspa per effetto delle onde. Una vista certamente non del tutto priva di precedenti e registrata, proprio in questo luogo in bilico sul perimetro disegnato dal celebre anello di fuoco del Pacifico, varie volte tra il 1979 e il 1874 e di nuovo nel 2006, quando l’effimera isola risultante venne battezzata per l’occasione Home Reef, prima che tornasse a scomparire nuovamente tra i flutti e dopo essere stata ampiamente documentata, anche allora, dall’equipaggio di uno yacht privato. Un caso più recente di emersione risulta nel 2012 vicino all’isola di Raoul, nord-est della Nuova Zelanda. In nessun modo grande, tuttavia, quanto l’episodio commentato questa volta anche dalla Nasa, impegnata proprio in questi giorni nel progetto di rilevazioni satellitari oceaniche condotta dal satellite Operational Land Imager (OLI) capace d’individuare i confini di uno spazio grigio quantificato con la tipica misura statunitense di “campi da football” in quantità di 20.000. Abbastanza da ospitare un campionato o due…

Tre cani di famiglia giocano sopra e dentro una zattera di pomice formatosi in un non meglio definito lago vulcanico in Argentina. Il che non dovrebbe presentare alcun tipo d’effetto negativo, potenzialmente eccezione per il Retriever rossiccio, illogicamente intenzionato fagocitare tutto ciò che lo circonda, riempiendosi lo stomaco di pietruzze abrasive.

La pomice è una pietra che potremmo definire, sin dall’epoca del suo primo utilizzo filologicamente accertato attorno al 2.000 a.C. in Cina, come un’alleata naturale degli umani. Chiamata in lingua latina spuma maris, poiché si riteneva fosse la versione solidificata, a seguito di un processo misterioso, della candida trasformazione dell’acqua giunta sino a riva, trovò ancor prima ampio utilizzo nella medicina tradizionale d’Oriente, come calmante e agente di purificazione del sangue nonché in Egitto, dove sappiamo esserne praticato l’impiego al fine di abradere unghie o calli indesiderati. Nel campo dell’agricoltura, questo minerale seppe dimostrarsi nel frattempo valido a migliorare le qualità del suolo rendendolo poroso e senza renderlo ospitale, a causa della propria natura inorganica, per muffe, funghi o altre infiorescenze di natura parassitaria. In epoca moderna, d’altra parte, l’impiego principale risulta essere quello in campo edilizio, per le ottime caratteristiche d’isolamento termico ed acustico di questo materiale. Ma la maggiore importanza misurabile in natura della pomice, se vogliamo, è proprio quella dimostrata da simili zattere che periodicamente tornano ad ostruire le oceaniche vie di navigazione: proprio perché permettono a una vasta serie di appartenenti al regno animale di spostarsi lungo simili sentieri, fino a destinazioni precedentemente irraggiungibili per loro. Analisi condotte in precedenza su tali eventi, a tal proposito, hanno dimostrato come la natura spoglia e priva di vita degli infiniti sassi che compongono la zattera non sia effettivamente destinata a durare, con la copertura sistematica da parte di molluschi, larve polipoidi ed altre simili creature, successivamente trasportate verso nuove mete dalle correnti oceaniche e dal vento. Al punto che esistono persino ipotesi, in campo accademico, di momenti pregressi in cui particolari specie di terra ebbero l’occasione, subito sfruttata, di spostarsi a bordo di simili rari battelli. Una delle poche possibili spiegazioni per la somiglianza biologica di isole disabitate posizionate in luoghi tanto distanti tra loro.
Per quanto concerne la nuova zattera a largo di Vava’u, attualmente sorvegliata da ogni possibile angolazione, è stata realizzata una proiezione che la vedrebbe diretta entro alcune settimane fino alle coste del Queensland australiano dove, si spera, dovrebbe finire per affondare in prossimità della barriera corallina locale. Portando ad essa una preziosa quantità di materiale di rinforzo, oltre a prezioso materiale biologico capace d’incrementare la già notevole varietà di esseri pronti a dargli un caloroso benvenuto. Dimostrando come anche gli eventi apparentemente più distruttivi e privi di lati positivi come un’eruzione sommersa abbiano in natura, molto spesso, una funzione utile a perpetrare e incrementare i presupposti di rinnovamento e rigenerazione dell’ecologia vivente.

Famosa in Grecia è la vicenda dell’isola di Nisyros, storica cava di pomice e altre pietre vulcaniche capace di sostenere per secoli o millenni l’economia della sua intera regione. Finché con la grave crisi del 2008, non fu più possibile garantire un adeguato contrasto all’erosione delle sue coste e altre fondamentali operazioni di mantenimento, portando al progressivo abbandono della miniera.

Una volta postate online le foto della zattera e suscitato l’interesse dei principali quotidiani online, quindi, i navigatori di una simile distesa senza precedenti di una pari dimensione non hanno tardato a ricevere alcune mansioni da esponenti della comunità scientifica, ansiosi di ottenere utili informazioni sulla natura del vulcano sconosciuto. Michael e Larissa Hoult della ROAM, in particolare, sono stati contattati direttamente da geologi dell’Università del Queensland, che si sono prenotati per la catalogazione fotografica e raccolta di un certo numero di pietre, da sottoporre ad attenta analisi entro le prossime settimane. Non senza mancare di mettere in guardia la coppia dai potenziali pericoli di una simile operazione: pomici oceaniche ritrovate in precedenza, del resto, sono state misurate con un diametro di fino a 7-8 metri, costituendo dei veri e propri rock-berg capaci di arrecare danni tutt’altro che indifferenti ad un piccolo scafo a vela.
Senza neppure menzionare il pericolo tutt’altro che leggendario del finire per inabissarsi improvvisamente e senza preavviso, come capitato nel 1952 durante il tristemente celebre incidente della nave oceanografica giapponese Kaiyo Maru No. 5 sopravvissuta alla seconda guerra mondiale soltanto per scoprire l’effetto che bolle d’aria provenienti da un vulcano potevano avere sulle capacità di galleggiamento di una nave. 31 morti e nessun tipo di aneddoto da raccontare al mondo, fatta eccezione per un nuovo e inconcepibile tipo di orrore. Perché non importa quanto possa essere estesa o meno una zattera di pomice: nessuno può realmente sapere, a posteriori, dove si trovi il cono vulcanico che l’ha generata. Né se il silenzio sia tornato finalmente a governare gli spazi umidi, tra i frastagliati confini della sua ombra mai osservata da occhi umani.

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