Serie MQ-8: il valore tattico di un elicottero rimasto privo del suo pilota

Attraverso l’evoluzione della loro lunga e articolata storia bellica, la dottrina bellica degli Stati Uniti ha sempre trovato un metodo nell’applicazione pratica del principio secondo cui “di più è meglio”. Particolarmente negli scenari di tipo marittimo e oceanico di epoca contemporanea, dove terminato l’epocale conflitto contro la marina giapponese, i vertici dello stato maggiore sembrarono acquisire per osmosi da quest’ultima l’approccio costruttivo di un minor numero di navi, ma più grandi, armate e potenti. Soprattutto nel campo maggiormente rilevante in epoca corrente, di un battello in grado di portare sulla scena e rendere operativo un numero considerevole di aeromobili, con ruoli e funzionalità chiaramente definiti. Dover proteggere le coste di un territorio ampio come quello nord-americano, tuttavia, può giungere a richiedere un certo grado di flessibilità e snellezza tattica, che assai difficilmente le gigantesche portaerei di classe Nimitz con i loro incrociatori di scorta potrebbero arrivare a garantire. Ecco quindi l’origine, a partire dagli anni 2000, del progetto teorico per l’implementazione di una nuova classe denominata Littoral Combat Ship / LCS, sostanzialmente creata per colmare il grande vuoto tra le dimensioni un pattugliatore Cyclone della guardia costiera (328 tonnellate) e una fregata di classe Oliver Hazard Perry (4100 tonnellate) pur disponendo di un potenziale bellico capace di rivaleggiare con quest’ultima, particolarmente a distanza ravvicinata. Ciò poneva tuttavia un problema da risolvere: quale sarebbe stato il tipo di aeromobile, sin da principio concepito come un drone a decollo verticale, capace di allargare l’area di efficacia e rilevamento di un simile vascello? Dopo tutto, l’affidabile AAI RQ-2 Pioneer usato dalla Marina a partire dal 1986 cominciava a mostrare i suoi anni e i nuovi modelli, più grandi ed esigenti in termini di spazio di decollo, difficilmente avrebbero trovato una collocazione operativa sul ponte di volo ridotto di queste navi. Ben prima del varo delle prime due LCS, Freedom e Indipendence, avvenuto rispettivamente nel 2008 e 2012, il think-tank responsabile di questa evoluzione fece in modo che venisse indotto un concorso per un aeromobile comandato a distanza di tipo VTOL che fosse in grado di sollevare un carico di almeno 90 Kg, avesse un raggio di 200 Km a un’altezza massima di 6,1 Km e potesse atterrare in maniera affidabile su una nave soggetta a venti di fino a 46 Km orari. Propositi non facili da perseguire, a meno che il velivolo a comando remoto in questione non fosse basato sul più alto standard produttivo e di funzionamento, quello concepito, per l’appunto, al fine di trasportare esseri umani. E non è certo un caso, quindi, se l’appalto venne infine aggiudicato nella primavera dell’anno 2000 proprio a una joint-venture delle aziende Teledyne Ryan e Schweizer Aircraft, intenzionata a riprogettare il popolare elicottero a tre passeggeri della Sikorsky, modello S-333, frequentemente usato dalle autorità civili e costiere di una significativa percentuale degli Stati Uniti. A partire dalla prima ed essenziale tappa di un simile percorso: rimuovere sedili, quadro di comando ed ogni tipo di finestra per guardare fuori. Non più necessari o utili allo scopo, di quello che sarebbe diventato a partire da quel momento, famoso con il nome di MQ-8 Fire Scout…

Il primo atterraggio a scopo dimostrativo di un VTOL-UAV su una nave della Marina Militare avvenne nel gennaio del 2006, presso il ponte del trasporto truppe USS Nashville. Simili test “sulle onde” avrebbero continuato per molti anni a seguire, come in questo caso ripreso nel 2014 dal ponte della USCGC Bertholf.

Persiste un certo senso surreale di minaccia ultra-mondana, nel tipico aspetto di un velivolo o elicottero del tutto privo di un fattore umano, e con palese evidenza concepito la fine di operare in modo parzialmente, o totalmente automatico. Che non può che ritrovarsi ulteriormente accentuato dal puntamento in varie direzioni del suo principale occhio, la torretta sferoidale con puntatore laser in grado di misurare la distanza e un completo array di telecamere elettro-ottiche, capaci d’individuare il bersaglio in ogni possibile situazione meteorologica o nel corso delle ore notturne. L’originale MQ-8A, fornito completo di un sistema di controllo remoto con portata di 280 Km venne dunque giudicato un successo per i suoi committenti, i quali tuttavia, con somma delusione delle aziende produttrice, mancarono di stanziare i fondi per la produzione in serie, cancellando ulteriori finanziamenti a partire dal 2001. Ragion per cui Ryan & Schweizer, piuttosto che gettare la spugna, decisero di darlo in concessione alla Northrop Grumman, che avrebbe ulteriormente il progetto a spese proprie, per riproporlo infine ai generali con la speranza di ottenere un risultato migliore. Era quindi la fine del 2003 quando il nuovo modello di MQ-8 rinominato con la dicitura “B” vennero proposti sul mercato libero e privato, ottenendo in breve tempo un ordine da parte degli originali richiedenti per un gran totale di sette esemplari. I quali sarebbero stati forniti completi di alcuni significativi miglioramenti: l’aumento da tre a quattro pale del rotore, più corte, con conseguente riduzione del rumore prodotto in volo e l’aggiunta di corte ali, analoghe a quelle previste sui principali elicotteri d’attacco contemporanei, finalizzate al montaggio di effettivi sistemi d’arma potenzialmente letali. Ma soprattutto, l’inclusione di un sistema RWR (avviso di minacce radar) e il sistema di rilevamento dal peso ridotto Osprey 30, prodotto dall’italiana Leonardo e capace di fornire copertura estremamente ampia in tutte le direzioni. Il che avrebbe concesso istantaneamente, alle navi interessate a schierare il drone, un letterale occhio nei cieli capace di scrutare al di là dell’orizzonte, ben oltre il semplice contatto visivo. Ciò che colpiva maggiormente i diretti interessati, tuttavia, era il potenziale distruttivo rappresentato da simile implemento, specie qualora venisse attrezzato con la nuova classe di razzi da 70 mm basati sugli Hydra 70, rinominati APKWS (Advanced Precision Kill Weapon System) e dotati di un sistema di guida laser integrato, capace di rivaleggiare in termini di precisione con i più potenti e costosi missili Hellfire. Nel settembre del 2011 fu dunque dato inizio ad un progetto da ulteriori 17 milioni di dollari per l’inclusione di tre tubi di lancio a bordo dell’MQ-8B, la cui conclusione (in ritardo) risulta attualmente stimata attorno all’anno 2023. Momento entro il quale, a quanto ci è permesso di capire, il più performante drone a decollo verticale costruito fino a quel momento potrebbe essere già diventato obsoleto…

Talvolta l’approccio più semplice è anche quello maggiormente efficace: perché creare dal nulla un nuovo tipo di elicottero, soltanto al fine di controllarlo a distanza? Ciò che utilizziamo quotidianamente funziona già abbastanza bene. Oltre ad avere un costo di progettazione e riadattamento decisamente inferiore.

Originariamente concepito nel 2013, e dichiarato operativo giusto lo scorso 28 giugno 2019, il velivolo denominato MQ-8C rappresenta in realtà un’evoluzione ulteriore e tangenziale del concetto schierato originariamente dalla Schweizer, basato sull’abitacolo decisamente più capiente dell’elicottero a sei passeggeri Bell 407. Un approccio capace di garantire portata e velocità decisamente maggiori, benché allo stato attuale delle cose, ancora nessun tipo di armamento sia stato adattato in maniera specifica per l’impiego sotto il suo impressionante rotore. Facendo quindi onore al soprannome ereditato dai due predecessori di “Fire Scout”, letterale occhio scrutatore dei cieli.
La storia operativa dei droni-elicottero, sostanzialmente espressa per ovvie ragioni dal solo modello MQ-8B, li ha dunque visti sino ad ora schierati in numero ridotto a partire dal 2010 nel Pacifico Orientale, dove uno di loro riuscì a individuare un vascello carico di cocaina, permettendone il blocco ad opera della Guardia Costiera. Mentre nel 2011 svolsero missioni di sorveglianza in Libia, dove uno di loro finì per essere abbattuto dalle forze simpatizzanti di Gheddafi. Un altro “piccolo” incidente si era verificato invece l’anno prima, quando uno di questi velivoli aveva momentaneamente smesso di rispondere ai comandi, sconfinando nello spazio aereo ristretto sopra Washington DC. Prima che i tecnici a terra, per la fortuna di tutti, non riuscissero in tempo utile a riportarlo sano e salvo a terra. Ostacoli da nulla e in qualche modo inevitabili, verso l’evoluzione del concetto stesso di cosa possa andare in cerca di uno scopo lungo i vasti cieli di questo pianeta. Sia che operi soltanto con lo sguardo, oppure porti un carico di munizioni pronte all’uso, dietro la pressione di un pratico bottone rosso nella sala di comando. Dopo tutto, non c’è guerra senza un qualche tipo di conflitto. Ed è cosa buona e giusta, che gli esseri umani se ne mantengano a una ragionevole (rispettosa?) distanza di sicurezza.

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