L’Aquila Mercedes che si posò con ali nere, per risorgere d’argento

“Che cosa intendi, 751 Kg?” Notte carica d’aspettativa, quella del 3 giugno 1934, presso le campagne tedesche dove ancora oggi scorre la sottile striscia d’asfalto definita, con considerevole ottimismo, l’ormai leggendario circuito del Nürburgring Nordschleife: oltre 22 Km di “anello settentrionale” all’ombra dell’omonimo castello, dove illuminato dalla luna, il direttore sportivo della Mercedes-Benz Alfred Neubauer si accarezzava pensieroso il mento, rispondendo al capo meccanico della sua scuderia: “Non è possibile che Herr Nibel abbia sbagliato i conti. Se così fosse, all’alba saremo squalificati!” I due scambiarono uno sguardo carico di sottintesi. Era l’apice di un anno estremamente combattuto, primariamente con la grande scuderia rivale della Auto Union, conglomerato dai quattro anelli che un giorno (ma questo, loro non potevano saperlo) avrebbe finito per passare in eredità al singolo membro della August Horch Automobilwerke GmbH, oggi nota più semplicemente come Audi. In tal modo i principali antagonisti di una tale possibilità, a quell’ora tarda di quello specifico momento in bilico tra le due guerre, si affrettarono a pesare nuovamente la vettura, fiammante ancorché convenzionale monoposto W25 dall’iconica colorazione bianca. A quei tempi per lo più privi di sponsor, naturalmente, il colore aveva un’importanza primaria nelle corse d’automobili, con ciascun paese associato, convenzionalmente, a una specifica tonalità: l’Italia rossa, l’Inghilterra verde, la Francia blu e la Germania, per l’appunto, candida come la neve dei monti Wetterstein, nell’area delle Alpi Calcaree Nordtirolesi. Almeno, così recita l’aneddoto, fino a quella notte fatale. Quando Neubauer, privo di altre idee, diede l’epocale ordine: “C’è una sola possibilità: prendete i raschietti e togliete attentamente la vernice, fino all’ultimo dettaglio delle cromature. In verità vi dico: all’alba questa macchina verrà scoccata dalla corda del nostro arco. A costo di venire soprannominata la Freccia d’Argento”
Quasi un secolo dopo, c’è una stanza nell’avveniristica struttura del museo sulla storia della Mercedes a Stoccarda, in cui una serie d’automobili sono montate su una curva parabolica, piuttosto che orizzontalmente. Proprio qui figura quella stessa W25, o una identica, assieme ad una serie di veicoli, tutti dello stesso identico colore. Con alla testa di una tale straordinaria carovana, qualcosa che non sembra neanche appartenere a questo mondo: uno strano veicolo a sei ruote, altrimenti descrivibile come l’ibridazione tra un pesce ed un aereo, con doppia coda aerodinamica, un corpo lungo e flessuoso e addirittura un paio di piccole ali. Fu perciò con chiaro piglio metaforico, che all’epoca Adolf Hitler in persona ebbe l’idea di definirla Schwarzer Vogel, o Uccello Nero. Ma forse sarà meglio cominciare dal principio. Ovvero dalla raramente citata battuta di caccia, risalente al più che mai remoto 1925, in occasione della quale il giovane politico e futuro führer della Germania venne presentato dal suo autista ad un vecchio amico di nome Hans Stuck von Villiez, abile con il fucile almeno quanto al volante del suo furgone, con cui effettuava le consegne a tempo record del latte dalla propria stessa fattoria presso Monaco di Baviera, emulando nella propria fantasia le imprese dei contrabbandieri di alcolici nei distanti Stati Uniti, poco prima di farne una professione. E proprio questo fu l’inizio di una lunga e solida amicizia, tanto che nel 1933, con Hitler cancellerie e Stuck ormai diventato un pilota di una certa fama grazie ai successi motoristici conseguiti al volante della Mercedes SSK (W06) il primo si ricordò del secondo, affrettandosi a presentarlo per quello che sarebbe rimasto, anche negli anni del successivo conflitto globale, il suo principale referente in materia di motori e tecnologia: nientemeno che il controverso, ammirato e spesso discusso Ferdinand Porsche. Perciò e soltanto naturale che dall’unione tra la mente di un pilota ambiziosa e quella di un leggendario ingegnere, potesse nascere qualcosa di assolutamente straordinario. Soprattutto quando si considera la massima aspirazione del terzo personaggio di questa storia, che in un modo o nell’altro sarebbe rimasta al centro dei suoi pensieri per l’intero ventennio successivo: mettere “al primo posto”, come si usa dire anche oggi, la sua “beneamata” Germania. In tutti i campi, incluso quello tecnologico e motoristico e in un particolare campo sopra qualsiasi altro: la massima velocità che fosse mai stata raggiunta da un’automobile su strada. E quale favolosa strada, questo strano triumvirato avrebbe scelto d’impiegare…

In questo filmato di repertorio è possibile osservare il pilota di origini italiane Caracciola mentre si prepara ad infrangere ancora il record di velocità un anno dopo la vicenda dell’AVUS, a bordo di una differente auto aerodinamica di Mercedes. La velocità raggiunta sarebbe stata di 432 Km/h.

Il circuito AVUS (Automobil Verkehrs und Übungs-Straße) presso Berlino costituiva ancora, all’inizio del 1938, il primo ed uno dei pochi tratti d’autostrada in Europa e nel mondo. Una struttura composta da due lunghi rettilinei con curve paraboliche all’estremità, una delle quali, costruita in mattoni con l’inclinazione di 43° era a quanto sembra tanto alta da guadagnarsi il soprannome di Muro della Morte, come ciliegina finale sul singolo luogo in cui, statistiche alla mano, un veicolo potesse raggiungere la velocità maggiore. Qui riuniti a questo punto della vicenda non troviamo quindi (ancora) Stuck e Porsche, ancora impegnati nella creazione del loro più singolare capolavoro, bensì un diverso agglomerato di notevoli personaggi nella storia dei motori, sotto l’attento sguardo del cancelliere Adolf in persona. Tra cui due, sopra ogni altro: il pilota tedesco di origini napoletane Rudolf Caracciola e Bernd Rosemeyer, impegnati rispettivamente per le scuderie storiche di Mercedes e Auto Union. Il primo dei quali, in modo particolare, era sicuro di poter conseguire gli allori della vittoria a bordo della propria Streamliner Mercedes-Benz W125 Rekordwagen, che potete vedere per l’appunto nell’inquadratura della sopracitata stanza del museo di Stoccarda, montata dietro l’eccezionale Uccello Nero. Ed in effetti così sarebbe stato, se nonché una simile vittoria, purtroppo, sarebbe stata oscurata da un fatto grave: la triste fine del collega Rosemeyer, finito per schiantarsi in circostanze non chiare a bordo del suo prototipo della Auto Union, concludendo allo stesso tempo la sua vita e una brillante carriera al volante.
Ma la storia, ovviamente, non sarebbe finita così: il record del mondo restava infatti ancora in mani britanniche, ed Hitler continuava a chiedere soddisfazione. Così Porsche in persona approvò finalmente la produzione, negli anni immediatamente successivi, di quel pezzo unico che sarebbe passato alla storia come Mercedes T80, ovvero l’incredibile “uccello” mostrato in apertura. Tale veicolo, lungo ben 8 metri di cui oltre un terzo composto dalla carrozzeria aerodinamica portata ad estendersi oltre la scocca sottostante, presentava alcuni tratti distintivi assolutamente degni di nota rispetto a qualsiasi altra automobile venuta prima. Tanto per cominciare, montava infatti il motore di un aereo e per essere più precisi il mostruoso DB-601, famoso in quegli anni come cuore del potente caccia Messerschmitt Bf 109 (potenza in condizioni ideali: non meno di 3.000 hp.) Proprio per questo, l’orientamento dei pistoni era capovolto, allo scopo di permettere a un’elica inesistente di trovare collocazione a distanza maggiore dal suolo! Il che aveva richiesto l’impiego di un sistema di trasmissione estremamente insolito, dotato tra l’altro del primo accenno di controllo automatico della trazione: una serie d’ingranaggi capaci di ridurre automaticamente l’immissione di benzina nel momento in cui le ruote motrici cominciavano a slittare. Le 2,8 tonnellate del “mostro” da tre semiassi, inoltre, trovavano il potenziale aerodinamico di una forma totalmente inusitata e quasi mostruosa opera del carrozziere Josef Mikcl, che avremmo significative difficoltà a descrivere senza ricorrere a termini d’analogia appartenenti al regno ittico e/o volatile, proprio per questo valido a fornirgli un coefficiente aerodinamico di 0,18, superiore persino a quello di molti veicoli da corsa dei nostri tempi.

La Recordwagen di Caracciola, per quanto notevole e certamente dotata di forme fuori dal comune, non raggiunse mai le vette visionarie della T80. Detto ciò, possiede almeno un vantaggio storico su quest’ultima: quello di aver effettivamente raggiunto la pista.

Hitler fu profondamente colpito dal prototipo della T80, al punto di onorare la coppia Stuck/Porsche della possibilità di ornarla con le effigi rappresentative del suo partito, tra cui una livrea rigorosamente nera, diverse svastiche e persino l’Adler, o aquila che avrebbe un giorno tentato di ghermire il mondo intero. Entro la data fissata per il gennaio 1940 o RekordWoche (“settimana dei record”) l’ineccepibile veicolo avrebbe infatti tentato di raggiungere una velocità presunta di 750 Km/h, totalmente inusitata all’epoca ed in effetti ancora oggi mai raggiunta da veicoli con propulsione stradale convenzionale, ovvero privi di reattori o altri metodi di spinta non direttamente collegati alle ruote. Detto ciò, come noi purtroppo sappiamo anche troppo bene, prima di quel momento qualcosa di totalmente diverso avrebbe attirato l’attenzione del führer: la ghiotta opportunità di invadere la Polonia. Con tutte le significative conseguenze di un gesto che, in ultima analisi, si sarebbe rivelato oggettivamente un errore. E così l’aquila nera, o aquila d’argento che dir si voglia, venne relegata in un ignoto garage berlinese, senza il suo prezioso motore impiegato, piuttosto, per far volare un tutt’altro altro tipo di guerriero nei cieli in fiamme d’Europa. Finché svariati anni dopo la guerra, senza alcun tipo d’esitazione o problema, avrebbe trovato collocazione nel museo di Stoccarda dove si trova tutt’ora. A perenne ricordo di quello che avrebbe potuto essere, se soltanto le cose avessero preso una piega differente. E dell’importanza che può avere talvolta, in più di un modo, la scelta più o meno arbitraria di un colore.

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