L’eccellenza italiana del treno che credeva di essere una moto

All’avvicinarsi della terza curva che consentiva d’immettersi sulla strada di scorrimento urbana, verso il tragitto che portava a scuola, ebbi un’improvvisa realizzazione: il fatto che ad analizzare con il senso critico l’intera faccenda, il modo più sicuro per immettersi non fosse dopo tutto, fermare il motorino in mezzo alla corsia, come fatto fino ad ora. Bensì limitarsi ad una breve decelerazione, anticipando con i gesti il movimento in grado di modificare il vettore di movimento nel senso della marcia, procedendo con certezza verso l’obiettivo finale. Fu quello il singolo momento in cui ogni aspirante centauro, attraverso l’inclinazione del suo punto di vista, sperimenta per la prima volta l’effetto della forza centrifuga alla guida. Sensazione strana ed inebriante, in grado di aumentare al tempo stesso la percezione gravitazionale che ti spinge nel senso contrario al cambiamento desiderato, eppur toglie momentaneamente ogni consapevolezza della propria singolare transitorietà. Quando smetti di essere una mente in viaggio, trasformandoti nel corpo spinto innanzi dalle circostanze, secondo i crismi di una macchina che avrebbe senso definire “Moto (non più) lineare ed uniforme”.
Ed è così che nacque, assai probabilmente, la cognizione assai diffusa nei primi anni ’70 e particolarmente in Europa, che dovesse esistere un modo migliore per spostare le persone, come il singolo, così la moltitudine, attraverso l’invenzione rinnovata di cosa fosse, e la maniera in cui dovesse comportarsi, un treno. Giusto mentre due nazioni, in modo particolare, investivano copiose risorse finanziarie nella costruzione di un diverso binari, ragionevolmente rettilinei nonché conformi a standard produttivi più elevati, capaci di permettere una marcia a un ritmo di plurime centinaia di chilometri orari: la Francia, con i suoi lignes à grande vitesse (LGV) ed il Giappone degli iconici 新幹線 (Shinkansen, nuovi tronchi ferroviari). E che dire invece di tutti quei paesi che, avendo recentemente investito copiose risorse nel potenziamento delle proprie reti, a quel punto non potevano, o volevano cambiarle nuovamente per accomodare gli ultimi progressi in materia di motori, pena spese ancor maggiori e difficili da sobbarcarsi… Luoghi come la Spagna, l’Inghilterra, la Svizzera, la Svezia e perché no, l’Italia, il cui primato tecnologico-industriale grazie a grandi aziende nazionali come la FIAT, a quei tempi, non era ancora stato messo in dubbio da nessuno. E fu quindi proprio quest’ultima, grazie a un progetto collaborativo tra la Ferrovie di Stato e la sua Sezione Materiale Ferroviario di Torino, a percorrere per prima la strada che avrebbe potuto condurre alla domanda maggiormente risolutiva, che riporterò a seguire. Se non è possibile cambiare il percorso ferroviario per favorire l’impiego delle nuove locomotive, perché non modificare il funzionamento dei vagoni? Sfruttando quel concetto largamente noto secondo cui non sono le macchine trasportatrici, intese come attrezzatura tecnologica capace di svolgere una funzione, a presentare il limite ultimo di quale metodo possa servire allo scopo. Bensì coloro che le usano, ovvero i limitati, problematici, esigenti umani. Persone come i passeggeri, che salendo a bordo di un convoglio perfettamente in grado di raggiungere i 200 Km/h in tratte serpeggianti come Roma-Napoli, Roma-Ancona o quella pressoché leggendaria tra Trofarello ed Asti, pretendevano persino di non ritrovarsi disorientati, mentre l’oggetto perfezionato al fine di rispondere a una simile esigenza, voltava e poi voltava ancora il suo senso di marcia, con precisione millimetrica seguendo le precise indicazioni dei binari. Almeno finché nel 1971, sotto gli occhi della commissione deputata, fece il suo debutto l’innovativo prototipo del FIAT V 0160, primo treno “ad assetto variabile attivo” (mediante l’impiego di pistoni idraulici) nella storia di questo particolare modo di spostarsi da un punto A a B. La cui caratteristica del tutto inusitata, per riprendere il discorso motociclistico d’apertura, era quella d’inclinarsi letteralmente fino a una pendenza di 35-40 gradi, nel preciso istante in cui il suo prezioso e vociante carico si ritrovava ad affrontare una curva, in direzione opposta ad essa, mediante i dati raccolti da una serie di sensori elettronici. Il che permetteva di ridurre, in modo apprezzabile, le forze soggettivamente sperimentate da costoro, con conseguente ritorno ad un disagio tollerabile, per non dire appena apprezzabile, persino sulle succitate tratte dal tenore più rallistico e insicuro. E fu quello l’inizio della storia dell’indimenticato Pendolino, primo concetto di un treno super-veloce letteralmente adatto a “tutti i terreni” (o per meglio dire, anzianità dei tragitti d’impiego) lasciando un segno indelebile nella storia delle ferrovie europee. Al punto che non pochi altri paesi tra quelli citati, in epoca coéva, tentarono di riprodurre le sue prestazioni senza pari…

La Talgo, come azienda fondata nel 1942, sfruttò un sistema maggiormente semplice e diretto per risolvere il problema dell’inclinazione dei treni. Il suo successo ultimo nel fine di partenza, tuttavia, sarebbe risultato discutibile.

Mentre già l’elettrotreno FS ETR 400, primo “pezzo unico” prodotto sulla base delle innovazioni sperimentali dello 0160 entrava in servizio regolare tra Roma ed Ancona il 2 luglio del 1976, con un ottimo successo di pubblico in funzione dei suoi tempi brevi di percorrenza e il ragionevole comfort di viaggio benché i possibili finanziatori tardassero a notare i meriti di un qualcosa di tanto innovativo, un’azienda spagnola stava raggiungendo le ultime fasi di prototipazione del suo personale approccio al problema, fondamentalmente basato su una soluzione in assoluta contrapposizione funzionale.
Quella di un sistema passivo di sospensioni particolarmente alte, a forma di A e basate su estrusioni colonnari capaci di raggiungere la parte superiore della scocca dei vagoni, permettendogli di “dondolare” in maniera del tutto naturale indotta dalla fisica, ogni qualvolta il treno si apprestava ad affrontare una curva. Ora il sistema, benché economico e ragionevolmente efficiente, presentava tuttavia una serie di problemi: in primo luogo il tempo d’intervento piuttosto ritardato rispetto al sistema del Pendolino italiano, soprattutto nel momento in cui il convoglio si trovasse ad affrontare un tratto di curve in contrapposizione rapida, per cui l’inerzia in senso contrario dovesse essere contrastata prima che ciascun vagone si trovasse nella posizione desiderata. Il che dimostrò, a partire dalla successiva messa in opera di svariate linee operanti su questo principio in Spagna e negli Stati Uniti verso l’inizio degli anni ’80, come “abbastanza bene” non fosse sempre una soluzione idonea al problema di soddisfare i più esigenti critici, ovvero coloro che senza interessarsi necessariamente all’ingegneria, volevano soltanto raggiungere l’altro capo dei binari senza che il senso di nausea prendesse il sopravvento. Così nel periodo in cui trovava finalmente realizzazione il tardivo benché chiaro successo commerciale del prodotto FIAT, che sarebbe poi giunto entro il 1985 alla versione prodotta in serie del notevole ETR 450 prodotto in 15 esemplari ed esportato anche all’estero, venne anche il turno della Gran Bretagna con la proposta dell’Advanced Passenger Train (APT) progetto gestito dalla British Rail e British Rail Division, con il fine d’implementare una nuova e maggiormente risolutiva soluzione di spostamento sugli attempati binari di quel paese. Dopo una lunga fase sperimentale (durata, secondo molti, non abbastanza) il mezzo fece quindi il proprio viaggio inaugurale nel 1981 tra Glasgow e Londra. Ottenendo una serie di risultati che potremmo definire, nonostante le aspettative comuni, alquanto…

L’APT, lungi dall’essere soltanto “un treno che s’inclina” mostrava l’implementazione di numerose soluzioni tecniche innovative, tra cui la propulsione fornita da una serie di carrozze elettrificate nella parte centrale del convoglio. Ciò non lo aiutò, purtroppo, a tirarsi fuori dai guai.

Il problema, rispetto alla soluzione spagnola, era stato quello di voler seguire molto più da vicino l’invenzione italiana, senza coglierne il fondamentale ed assoluto colpo di genio. Trattandosi di un sistema di variazione d’assetto attivo, anch’esso basato su una serie di pistoni idraulici capaci d’inclinare i vagoni, anche l’APT aveva bisogno di una serie comparabile di sensori, esigenza alla quale soltanto in parte il team di progettazione britannico si preoccupò di dare soddisfazione. Laddove il Pendolino possedeva infatti sia un giroscopio, capace di rilevare il sollevamento del binario esterno in fase d’entrata in curva, oltre a una serie di accelerometri capaci di contrastare la forza centrifuga con adeguata inclinazione, l’alternativa inglese aveva soltanto questi ultimi, causando un inizio ritardato della fondamentale flessione, con conseguente disagio dei passeggeri. A peggiorare ulteriormente la faccenda, o almeno così riportano le cronache, il fatto che ai giornalisti invitati per l’evento furono offerte copiose quantità di bevande alcoliche, con conseguente aumento del senso di nausea collettivo. Ulteriori problemi ai freni, dovuti ad errori progettuali, costrinsero ben presto la compagnia ferroviaria nazionale a ritirare i treni dal servizio, vendendo almeno una parte dei propri brevetti proprio alla Sezione Materiale Ferroviario della Fiat di Torino, che li usò per migliorare ulteriormente il Pendolino portandolo alla versione ETR 460 (1994) con tanto di design estetico del rinomato Giugiaro, destinato a rimanere in servizio fino ai nostri giorni, assieme alle ulteriori proposte in questa popolare linea di treni super-veloci.
Oggi non più formalmente e completamente italiana, dopo l’acquisto da parte del consorzio francese GEC-Alsthom nel 2000, l’azienda capace di cambiare quali fossero le aspettative lecite nei confronti di ciò che potesse fare un treno continua imperterrita la sua marcia, capace di condurre alla creazione dei modelli 470, per l’esportazione svizzera, ed il 480 per Trenitalia. Ma come per tutte le cose, nessuno potrà mai dimenticare la sensazione di quella prima piega in curva, alterazione fondamentale delle regole che tutti, fino a quel momento, avevano dato per scontato.
Perché tutti possiamo scegliere di essere come Valentino Rossi, almeno per qualche attimo d’ebrezza remotamente riconducibile alla gioia delle due ruote. Mentre l’eccellenza industriale del nostro paese, in molti campi oltre a quello sportivo, siamo proprio noi a dimenticarla, più di chiunque altro e per (largamente) incerte ragioni. Possibile che tali cognizioni si nascondano nel singolo momento d’illuminazione, il brivido di quella curva che parrebbe non finire mai?

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