L’isola sopravvissuta secoli nutrendosi di palme velenose

L’anno era il quattordicesimo dell’era Keicho (1609 d.C.) non troppo dopo l’inizio del regno dell’Imperatore Katahito e a seguito dell’epocale battaglia sulla piana di Sekigahara, costata la vita alla parte significativa di un’intera generazione di nobili e popolani. Ancora una volta Tamaki guardò fuori dalla finestra della sua nuchijaa in legno con tegole di terracotta, avendo cura di non affacciarsi in maniera troppo evidente per i sorveglianti con le due spade. Mentre accarezzava pensierosamente il bastone con l’anima di ferro, arma ereditaria della sua famiglia, si rivolse quindi alla propria consorte Beniko “Puah, samurai! Non riesco ad immaginarmi nulla di meno giapponese” Smettendo per un attimo di percuotere con enfasi il mochi dalla strana consistenza che stava preparando in un pentolone, lei ebbe appena il tempo di rivolgergli uno sguardo preoccupato, prima che i ricordi sopraffacessero entrambi. Di un epoca capace di sembrare lontana di anni ed anni, prima che le navi dai vessilli verdi del clan Shimazu sbarcassero sulla verdeggiante isola di Amami, permettendo ai loro occupanti di dichiarare le terre emerse del sub-arcipelago delle Ryukyu come un proprio territorio per il concetto quasi-universale del destino manifesto, sopra cui imporre la dura legge e tassazione di un distante daymyo nel suo castello, circondato da tesori dell’arte e incalcolabili ricchezze della nostra Era. “Marito, metti via l’hanbō per favore. Sai cosa è successo al nonno e se soltanto l’uomo là fuori dovesse sospettare un intento di ribellione da parte nostra, ordinerà di nuovo ai suoi sottoposti di erigere i pali. Se dovessi finire crocifisso, non sopravviverei…” Parole tremule, ma un’espressione risoluta. Di guerrieri, navigatori, ecclesiastici disallineati. Per lunghe generazioni, all’insaputa dei sedicenti Shōgun di Heian-kyō (Kyoto) prima e i signori della guerra della guerra civile, la gente di Amami aveva commerciato e conversato con i mercanti provenienti dalla Corea, Cina e altre terre lontane, apprendendo norme della tecnica e della scienza precedentemente inusitate. Assieme alle storie di un uomo vissuto, morto e resuscitato oltre un millennio e mezzo fa in Galilea. Ed era proprio in suo nome che adesso, esisteva una simile possibilità: “Vorresti dirmi che non abbiamo altra scelta? Dare via il nostro raccolto e soffrire, per l’ennesima volta, il tormento del sotetsu jigoku?” Fu allora che un suono distante sembrò risuonare nel loro giardino: era la Shishi-odoshi, canna di bambù dondolante che colpiva la pietra sonora posta alla sua estremità. “Niente affatto, mio caro. Ti sto consigliando di assaporarlo, preparandoti a un’ora della riscossa che potrebbe anche non giungere mai!”
Sotetsu (ソテツ in alfabeto sillabico, non esistono kanji per definirla) è una “palma” del gruppo delle cicadofite, in realtà parte di quell’antichissima gruppo di gimnosperme (piante dal seme nudo) che da oltre 300 milioni di anni sopravvivono e si propagano a dismisura, nella maggior parte dei biomi tropicali e non solo. Mentre jigoku (地獄) significa, letteralmente, inferno. Un’associazione o metafora, questa, quanto mai appropriata soprattutto all’epoca, per definire l’ultima risorsa disperata di un intero popolo isolano costretto più volte a fare la fame, prima per l’occasionale verificarsi di periodi di magra e catastrofi naturali, quindi per le dinamiche sociali imposte da un crudele corso della storia. E più volte viene narrato, nella letteratura locale, di quanto terribile fosse, in origine, consumare i frutti, le foglie e persino il tronco specie locale della Cycas revoluta, basso e tarchiato arbusto dalle foglie lanceolate, naturalmente in grado di produrre la cicasina, una sostanza a base di glucosio capace di causare conati, nausea, diarrea e gravi conseguenze sull’integrità dei reni e del fegato umano. Questo almeno finché la gente dell’isola di Ashima non scoprì, forse accidentalmente, che lo stesso fungo impiegato per trattare la soia allo scopo di farla fermentare nella preparazione del miso, l’Aspergillus oryzae o più semplicemente koji (麹) poteva sortire un effetto quasi mistico sulla polpa ridotta in polvere dell’amata-odiata pietanza vegetale. Separando il principio attivo dalla parte commestibile durante la fermentazione in maniera sufficiente perché fosse possibile, a quel punto, passare alla fase successiva di una complessa e importantissima procedura…

In questa visita dell’esperto Botany Boy, la questione delle cicas commestibili dell’isola di Amami viene accuratamente sottoposta a una disanima di tipo scientifico, ancor prima che storico e sociale. Si tratta dell’occasione perfetta per rendersi conto di quanto prolifica ed omni-pervasiva possa rivelarsi una tale pianta, nella sostanziale mancanza di predatori naturali.

Ne parla brevemente il documentario mostrato in apertura, della sempre puntuale serie Great Big Story, mentre una descrizione più approfondita a partire da una visita effettuata negli anni ’50 compare nel testo “Le isole di Kagoshima” ad opera di Hayward e Kuwahara (2013 – Università di Kagai). Dopo la rimozione della dura scorza esterna, lo stelo della “palma” viene tagliato in piccoli pezzi di 7-15 cm al massimo, prima di essere disposto su un telo e ricoperto interamente dalle spore del fungo koji. Tale mistura, quindi, viene tenuta in un luogo freddo e umido per un periodo variabile ma non inferiore ai 3-4 giorni, prima di essere attentamente lavata e poi fatta a pezzi, con l’equivalente locale di un mortaio e pestello. Un trattamento simile risulta altrettanto efficace nel rendere commestibile il frutto rosso acceso della pianta, dal sapore apparentemente abbastanza gradevole da giustificare il verso di una canzone popolare della metà del XX secolo, che recita: “Il rosso frutto della palma sotetsu è magnifico, come il colore del cuore della mia amata.”
Detto ciò sarebbe quanto mai ingenuo immaginarsi una progressione del tipo a noi più familiare o riconducibile a quella delle più comunemente consumate mele o pere. Giacché tutte le gimnosperme, e in modo particolare le cicas, possiedono l’abitudine di fare le cose in un modo antico e dimenticato e la C. revoluta non fa di certo in questo eccezione. Pianta dioica, ovvero dotata di due sessi estremamente distinti tra loro, essa prevede infatti che l’esemplare maschio affidi il proprio intento riproduttivo alla notevole produzione vegetale dello strobilo, costruito come una pigna ricurva ricoperta di polline, mentre la sua partner in solenne attesa espone un qualcosa di riconducibile molto da vicino al bordo piumato del ventaglio di una facoltosa dama in una corte europea. All’incontro tra il prodotto del primo e il ricettacolo della seconda, generalmente grazie a specifiche tipologie d’insetti o uccelli locali, ella comincerà quindi a figliare, ma senza far ricorso a particolari metodi per inviare lontano i propri semi. Che caduti a terra con l’intero frutto incommestibile, inizieranno a germogliare a una distanza irrisoria dalla sua ombra. Il che è l’origine dell’eccezionale rigoglio e capacità di concentrazione di macchie di questi vegetali dalla crescita comunque lenta, capaci di ricoprire attraverso i secoli interi versanti di verdeggianti colline, finché tutto diventi cycas, salvo l’eccezione dell’occasionale ficus del tutto incapace di scapparsene via.

La Cycas Revoluta, stimata per l’eccezionale simmetria dei suoi rami, costituisce ad oggi una delle varietà più coltivate a scopo ornamentale, per la capacità di resistere anche a climi piuttosto freddi e le poche esigenze in termini d’intervento diretto da parte del giardiniere umano. Ciò sembrerebbe aver aiutato, a più riprese, anche l’economia di Amami.

Negli ultimi anni, per l’effetto della tendenza tipicamente giapponese a mantenere vive le antiche tradizioni, si sta vivendo una sorta di revival del miso e le altre pietanze preparate con la polpa e i frutti della cicas, che possono includere dolci, biscotti e una sorta d’informe pappone, consumato al posto del riso come contorno ad una vasta serie di alimenti. Questo perché, nonostante l’abbondanza e i commerci moderni abbiano salvato gli abitanti dell’isola dal dover sprofondare ancora una volta nelle torturanti profondità del sotetsu jigoku, allo stesso tempo l’applicazione della tecnologia moderna ha eliminato del tutto l’eventualità che la preparazione dei piatti possa essere condotta in maniera inappropriata, causando lo sconveniente avvelenamento dei locali o eventuali turisti che dovessero sentirsi più coraggiosi.
Ma di una simile rivalsa nel proprio futuro, il popolo sottomesso, incatenato e schiavizzato dai temibili arcieri e spadaccini del clan Shimazu (il cui specifico Mon, o emblema, è accidentalmente del tutto identico alla croce celtica delle nostre parti) ben poco potevano immaginare. Fu così che il nostro rabbioso Tamaki ascoltò per un’ultima volta la moglie Beniko, unica nipote del sacerdote cristiano nonché precedente capo del villaggio settentrionale di Setouchi. E messe da parte le armi, assieme ai suoi compagni delle molte battaglie combattute un tempo, mandò giù l’amaro miso della sottomissione. Mentre già in gran segreto, conversando con gli agenti di quell’entità informe che iniziava a prendere forma come il nascente nazionalismo giapponese, tramava contro il signore nel suo castello al di sopra dei monti di Satsuma, al di là di un corto ma importante braccio di mare. Contribuendo in maniera piccola, ma significativa, a porre le basi di quella che un giorno lontano due secoli, sarebbe stata una diversa ed ancor più sanguinosa Restaurazione…

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