Scheletri di bambù: la Grande Onda nel bosco di Chikuunsai

Diecimila anni dopo l’abbandono del Met di New York, ogni traccia di vita scomparsa dalle ombrose sale, una minuscola radice inizia ad insinuarsi sotto lo stipite della finestra principale, quindi cresce a dismisura tra gli altri muri ricoperti di muffa e crepe. Un poco alla volta, così facendo, la natura preme e insiste, penetra e riconquista, mentre ritorcendo questo strale su se stesso, come un bruco, esso traccia una figura che definisce e riqualifica lo spazio, donandogli, ancora una volta, la vita. Ma la storia non finisce (e inizia) certo in questo modo: poiché come per la luce di un potente flash fotografico o abbagliante lampo generazionale, ogni traccia di verde sembra scomparire all’improvviso, lasciando il posto alla struttura simile a un intreccio di rami secchi. I quali, se soltanto qui ci fosse ancora una persona in grado di osservarli, verrebbero descritti sulla base della loro più realistica natura: nient’altro che strisce di bambù, attentamente tagliate e ripiegate con l’impiego del calore di una singola candela, dalle sapienti mani dell’artista che non sembra possedere un tempo, un luogo ed un contesto definiti.
Tanabe Chikuunsai, quarto del suo nome, al secolo Shochiku, da cinque anni ormai l’erede della storica famiglia d’artisti della città di Sakai in prossimità di Osaka, che tante meraviglie hanno saputo costruire con l’ipertrofico e svettante filo d’erba tanto rappresentativo delle foreste d’Asia. Circa 600 delle 1200 specie appartenenti alla famiglia tassonomica Bambuseae crescono in Giappone, ed è soltanto una quella che lui impiega, ormai da molti, per la produzione della sua espressione artistica più famosa: si tratta dello scuro e tratteggiato Phyllostachys nigra f. punctata, anche detto torachiku o “bambù della tigre” che cresce unicamente su una singola montagna della prefettura di Kōchi, nella parte meridionale dell’isola di Shikoku. Il che costituisce una scelta pratica ma anche funzionale, data l’elevata resistenza del materiale unita alla natura dei suoi lavori, imponenti installazioni specifiche e temporanee costruite presso i siti di alcuni dei musei e mostre più importanti del mondo. Che lui assembla, assieme ai suoi assistenti, con le stesse metodologie praticate da secoli nel campo estremamente rigido e codificato del takezaiku (竹細工) o tecnica giapponese di lavorazione del bambù. Con il risultato di presentare ai visitatori questi organici ed all’apparenza quasi naturali arredi, che sembrano fluire in modo straordinariamente libero all’interno di ambienti artificiali, integrando in essi l’imprevedibile sentimento del mare in tempesta. E condividendo con esso la natura fondamentalmente non duratura, data l’evidente necessità di provvedere allo smontaggio dell’opera al termine di ciascun evento, operazione compiuta con la stessa perizia da parte dell’equipe dell’artista, allo scopo di poter riutilizzare almeno in parte quelle strisce di prezioso materiale ligneo proveniente dai boschi del natìo Giappone. Esatto: questa è la favola del legno alla deriva. Che continuando il proprio viaggio oltre i confini delle nazioni, costruisce un filo ininterrotto tra uomo e natura…

Osservando il maestro all’opera non si può fare a meno di notare un aspetto singolare: la capacità di maneggiare il tagliente legno di bambù senza dover portare guanti o altre protezioni per le mani. Qualcosa di molto insolito, nel razionale e ragionevole mondo delle sicurezza procedurale dei nostri tempi.

Chiunque tenti di approcciarsi in maniera razionale all’opera di Tanabe Chikuunsai IV, per il tramite delle poche informazioni reperibili online, potrà comunque inquadrarlo chiaramente come ultimo depositario, ed allo stesso tempo personaggio di disturbo, nella continuazione ininterrotta dell’arte del bambù giapponese. Che assume i suo più notevoli tratti distintivi dalle tradizioni ereditarie cinese e coreana attorno all’epoca di Sen no Rikyū (1522 – 1591) monaco buddhista e primo gran maestro della cerimonia del tè. Un’esperienza mistica situata al punto d’incontro tra religione, meditazione e capacità di apprezzare l’arte, in cui ogni elemento collaterale di un singolo momento diviene propedeutico all’elaborazione di uno stato superiore di coscienza, ivi inclusi arredi, quadri alle pareti e sopratutto, l’immancabile composizione floreale ikebana (生け花) che dovrà necessariamente essere contenuta da un “qualcosa”. E quel qualcosa è sempre stato, nelle condizioni considerate ideali, un ricercato e interessante vaso creato dall’intreccio di sottili strisce di bambù.
Col trascorrere degli anni quindi l’arte profondamente stimata del takezaiku assunse le caratteristiche di un vero e proprio strumento quotidiano per le più diverse necessità relative a cestini, recipienti e contenitori d’uso comune. Mentre il lavoro delle più famose famiglie operanti in questo settore, propense a trasmettere i propri segreti di padre in figlio come è sempre stata l’usanza dell’arcipelago, veniva eretta sul piedistallo fisico e metaforico del tokonoma (床の間 – nicchia domestica) di tutti noi. Particolarmente nell’area meridionale del Kantō inclusa Osaka e giù, verso la città del Kyūshū di Beppu, nacquero quindi tradizioni estremamente sofisticate e distinte, ciascuna studiata in maniera puntuale dal giovane Tanabe, come fatto da suo padre e suo nonno prima di lui. Questo perché è sempre stata loro usanza familiare, attentamente conservata attraverso le generazioni, che ciascun depositario del prestigioso nome offrisse un contributo imperituro nel campo della sua arte, come l’attenzione riservata nell’impiego di pezzi piccoli e traforati da parte di Chikuunsai II, o le complesse geometrie non parallele di Chikuunsai III. Laddove l’espressione su scala maggiorata di questo moderno continuatore della loro opera non può che essere descritta come talmente dirompente, così diversa dalle aspettative ereditarie, da alterare la cognizione stessa di cosa possa rappresentare il bambù intrecciato per l’arte contemporanea dell’intero Giappone.

Chissà quale sentimento, o stato d’animo, attraversa la mente dell’artista quando trova “il pezzo giusto” all’interno di una vasta foresta nell’area della sua nativa Sakai. Possibile che la pianta gli parli, o sembri assumere attraverso i suoi occhi la forma nascosta al termine del suo complesso processo trasformativo?

La profusione di forme astratte, significati e possibili interpretazioni, che ricompaiono ad ogni spostamento e successiva ricollocazione della “foresta” sembrano quindi parlarci al tempo stesso da un pregno e significativo passato, così come dal più remoto ed ignoto futuro. E nessuno può veramente dire quando, finalmente, il marrone bruco potrà chiudersi nel bozzolo invalicabile delle più occulte circostanze, né quale splendente creatura, finalmente, potrà riemergere dalle sue imperscrutabili profondità. Ciò che possiamo affermare con ragionevole certezza, tuttavia, è che costui continuerà a praticare la sua arte finché le verdi foreste dell’isola di Shikoku continueranno a produrre la propria mistica e legnosa argilla della Creazione. Per poter dire anche lui, al distante concludersi della lunga carriera: “Se soltanto avessi potuto continuare per altri 5 anni, ne sono certo, avrei raggiunto la perfezione”.
Ma l’insistente risacca della baia di Kanagawa, come è noto, non può fermare il continuo ciclo di rinnovamento del vasto mare. Mentre tutto quello che noi umani possiamo fare, è tapparci il naso, prima di tuffarci nuotando in cerca dell’ultima perla nascosta nei tenebrosi fondali.

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