La scommessa che ha permesso di arrivare a catturare una cometa

Effettuando una ricerca su Google del termine “Aerogel” si ottengono dei risultati nella maggior parte interconnessi all’area d’interesse finanziaria, che trattano della significativa crescita sperimentata negli ultimi anni dal mercato di un così importante materiale, le cui applicazioni vanno dalle più elevate circostanze della ricerca scientifica, alla produzione dell’elettronica, l’isolamento termico in architettura e persino la risposta a significativi disastri naturali. Non può che risultare quindi sorprendente, il fatto che le cronache ufficiali abbiano dimenticato, in larga parte, chi fosse effettivamente Charles Learned, l’uomo che pur non essendo direttamente coinvolto nell’effettiva creazione della sostanza, né fu la causa scatenante, ovvero singola effettiva raison d’être, durante quel fatidico 1931 presso l’Università dell’Illinois. Collega? Forse uno studente? Oppure solo un amico di vecchia data… Ritrovato dopo il trasferimento accademico da parte dello scienziato ed ingegnere chimico Samuel Stephens Kistler, colui che pur di vincere una sfida, era disposto a spremere le sue meningi fino all’ultima brillante goccia d’ispirazione. Trovando in modo quasi accidentale la risposta alla questione tutt’altro che insignificante, di come fosse possibile: “Rimuovere la parte liquida da un gel, sostituendola con un gas (ad esempio, l’aria)”. Quesito certamente subdolo da porre nel complesso, posto dall’ignota controparte, che di certo già pensava di aver messo in tasca i soldi/il premio/il conto della pausa pranzo. Poiché nella definizione stessa di un simile categoria di sostanze, composte da un liquido disperso ed inglobato nella fase solida, è implicato il ruolo distruttivo dell’asciugatura, che letteralmente svuota la struttura di molecole, causando l’immediato collasso e sgretolamento dell’intero insieme. Se non che al Prof Kistler, che non era certo il tipo da perdersi d’animo (per darla vinta a conoscenti pretenziosi) chiuso per qualche ora all’interno del suo laboratorio iniziò a percepire nel profondo il germe risolutivo di un’idea. E se il fluido fosse condotto ad evaporazione in condizioni supercritiche, nella sussistenza delle quali e per cognizione largamente acquisita, sappiamo che le leggi della fisica non valgono nel modo a noi più familiare… Il che implicava, nella fattispecie, l’impiego di una mini-camera iperbalica riempita di CO2 (roba da nulla per l’Università dell’Illinois) e capace di raggiungere temperature sufficientemente elevate, affinché il collasso del gel oggetto di tante attenzioni avvenisse in modo veramente utile allo scopo. E che potesse corrispondere, in maniera certamente inaspettata, all’obiettivo posto in essere dal suo avversario di un problema tanto irrisolvibile, soltanto in teoria…

Come possiamo apprendere da questa sequenza come sempre assai chiara del programma “Come è Fatto” la creazione di un moderno aerogel deriva da una serie molto complessa di operazioni, esulando largamente dalla produzione possibile in contesti domestici o casalinghi. Il che tende a farne, d’altra parte, una sostanza costosa, sopratutto nella forma monolitica di vere e proprie mattonelle o blocchi dall’impiego non propriamente definito.

Tra il dire e il fare, come si dice, scorre il largo fiume Oceano che circonda i Continenti. E fu così che Kistler e Learned scoprirono, l’uno direttamente e l’altro per la mano e la sapienza procedurale del suo conoscente, che un gel trattato in questo modo non possiede più le insite caratteristiche in grado di porlo a pieno titolo nella rilevante categoria. Presentandosi piuttosto come una sostanza semi-trasparente, simile alla gommapiuma al tatto ma leggermente più dura, e che una volta sottoposta a una pressione molto significativa, finisce irrimediabilmente per infrangersi come se fosse una lastra di vetro. Questo perché il suo principale componente, in aggiunta all’anidride carbonica concentrata e almeno ad asciugatura compiuta, anche l’ossigeno, è niente meno che la silice o ossido di silicio (SiO2) identica a quello che si trova all’interno delle nostre stesse finestre, monitor ed occhiali. In quantità, incredibile a pensarci di appena lo 0,2% rispetto alla massa totale, composta per il resto unicamente da una fitta rete di spazi vuoti corrispondenti ad altrettanti pori superficiali, tanto minuscoli da risultare del tutto invisibili ad occhio nudo. In altri termini, possiamo affermare che l’aerogel sia la sostanza meno densa mai creata su questo pianeta, tanto compressa che se una singola pallina del diametro di qualche centimetro venisse in qualche modo impossibile appiattita e spianata, il materiale contenuto in essa basterebbe per coprire la superficie di un intero campo da football americano.
Detto ciò ed al fine di tornare tra le applicazioni che possiamo definire realmente utili di questo fulmine in bottiglia, le doti più importanti degli aerogel moderni (che possono essere creati a partire da altri materiali oltre al silice, come il grafene, il carbonio, l’allumina…) sono essenzialmente due: capacità di assorbire ed isolamento. La prima per l’ovvia composizione strutturale di un simile agglomerato, la cui rete di spazi vuoti si è già dimostrata in svariate occasioni come la spugna perfetta, capace di rimuovere dal mare una quantità impressionante di petrolio, al verificarsi di gravi incidenti durante il trasporto dello stesso verso i suoi utilizzatori finali. Mentre altrettanto utile, un così complesso labirinto di cavità, risulta essere nel bloccare la propagazione di un qualsivoglia tipo di energia, che sia di natura elettrica o termica, garantendo l’integrità di eventuali circuiti protetti da un sufficiente strato di quello che è stato definito non a caso “fumo solido” o “ghiacciato”. Ma l’applicazione certamente più memorabile di uno spesso strato di aerogel è stata quella elaborata dal Jet Propulsion Laboratory di Cape Canaveral per conto della NASA, allo scopo di trovare un ruolo di primo piano nella missione della sonda Stardust (Povere di Stelle) lanciata nel 1999, con lo scopo d’intercettare la coda della cometa Tempel 1 dopo circa due anni di viaggio, aprendo nuove strade all’analisi astrofisica dei nostri tempi…

Portato a termine il suo compito, la coraggiosa sonda Stardust viaggia ormai senza meta in un’ampia orbita attorno al nostro Sole. E chissà che un giorno successivo alla nostra pendente autodistruzione, entità o creature provenienti da mondi lontani possano giungere ad interrogarsi su chi l’avesse effettivamente costruita, e perché.

Era il 4 febbraio del 2011, dunque, quando l’oggetto volante coi motori ormai spenti da lungo tempo raggiunse una distanza sufficientemente bassa dal suo bersaglio per iniziare la parte cruciale del piano: sollevare in senso perpendicolare una sorta di racchetta, o cucchiaio che dir si voglia, costituita da uno spesso pannello geometrico di aerogel, all’interno del quale le copiose particelle emesse dall’astro viaggiante sarebbero andate ad impattare con la velocità di 6100 metri al secondo, ovvero nove volte superiore alla pallottola sparata da un fucile. Il che, secondo i precisi calcoli ingegneristici degli ideatori della missione, sarebbe bastato ad incapsularle all’interno dei pori di un così fantastico materiale, proteggendole fino al ritorno sulla Terra mediante l’invio di una micro-capsula motorizzata scagliata con estrema precisione dai servomeccanismi della sonda. Ed effettivamente, così fu, come esemplificato dall’esistenza ancora corrente del progetto di citizen science Stardust@home, mirato ad individuare, tramite l’impiego di un vastissimo numero di volontari, le microscopiche tracce di polvere stellare all’interno del labirinto mostruosamente complesso costituito da un singolo blocco di aerogel. Obiettivo ancora lontano dall’essere completato e che per quanto ci è dato di capire, resterà tale per molti anni a venire, benché il già avvenuto ritrovamento di tracce di olivina, forsterlite, diospide e anortite abbiano aperto gli occhi agli scienziati sua alcuni aspetti precedentemente insospettati della formazione del nostro Sistema Solare.
Incredibile! E tutto a partire dal semplice bisogno di dimostrare la possibilità di un qualcosa, nella pratica ancor prima che la mera e semplice teoria. Purtroppo non conoscendo effettivamente il ruolo professionale o la qualifica di Charles Learned, ancor più difficilmente possiamo immaginare il tipo di ricompensa concessa da costui al Prof. S. Kistler alla sua memorabile vittoria nei chiari termini espressi tanti anni fa. In aggiunta, s’intende, alla copiosa quantità di soddisfazione. Anche vista l’importanza della scoperta prodotta in maniera collaterale, possiamo soltanto sperare che sia stata valida in senso cosmico, o in qualche modo gustosa, e non soltanto una tiepida tazza di caffè preparato all’americana.

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