La nuova casa dell’Arte è l’unico edificio semovente di New York

C’è un punto, lungo il perimetro meridionale della stazione ferroviaria ormai in disuso degli Hudson Yards, dove la vecchia sopraelevata del trenino High Line si presenta al pubblico con un aspetto decisamente insolito: appesantita da uno strato sufficientemente spesso di terriccio, affinché sopra possa crescervi l’erba, tra delicate aiuole floreali e l’occasionale panchina, sospesa a circa 20 metri dal livello della strada. Parapetti sono stati aggiunti ai margini, mentre l’occasionale gruppo di persone, con bambini e/o cani, passeggia lentamente per godersi il panorama. Fino un punto specifico dei 2,33 Km del viadotto trasformata in parco, all’ombra di un’intera serie di grattacieli tra i 50 e i 60 metri, non particolarmente alti per la media dell’isola più densamente popolata dell’intero territorio nordamericano. Dove lo sguardo non può fare a meno di spostarsi verso un paio di nuove aggiunte alla già ricca dotazione di curiosità architettoniche newyorkese: la prima, già trattata in questa sede precedentemente, è The Vessel (il recipiente) la bizzarra scultura stratificata composta da scalinate e passerelle fino all’altezza di 46 metri, opera dell’architetto londinese Thomas Heatherwick . E in aggiunta a una tale cosa, il recentemente completato The Shed, alias Bloomberg Building di cinque piani, un centro culturale destinato ad una folgorante inaugurazione proprio in questo inizio di aprile, in grado di presentarsi con caratteristiche estetiche e funzionali molto al di fuori della normalità. Particolarmente nell’attimo saliente, previsto prima di ogni show che si rispetti, in cui l’intera copertura esterna dell’edificio, una struttura reticolare di metallo posta a sostenere il colossale telo in plastica ultra-resistente ETFE, inizia lentamente a scivolare di lato, coprendo in maniera pressoché completa l’antistante piazza che si affaccia sulla 30° strada. Grazie all’impiego di sei ruote, quattro equidistanti ed una doppia coppia sui montanti all’estremità, sostanzialmente non dissimili da quelle di una gru portuale. Eppure non c’è proprio nulla d’industriale e privo d’anima, nella serie di linee intersecantisi tra loro di the Shed (la Capanna) previste dallo studio di architetti Diller Scofidio + Renfro, interrogati tra i molti altri per partecipare, con il loro contributo progettuale, a quello che costituisce ad oggi il più importante progetto di sviluppo di un intero quartiere da parte di una singola compagnia privata (la Related Companies L.P.) in corso negli Stati Uniti e assai probabilmente, l’intero mondo occidentale. Portando questo edificio a costituire, nei fatti, un diretto omaggio alla struttura teorica che fortemente avrebbe voluto l’architetto Cedric Price per la sua Londra negli anni ’60 dello scorso secolo, il cosiddetto Palazzo del Divertimento costruito come una struttura mobile e volatile, da configurare sulla base dei bisogni, oppur l’ispirazione di ciascun momento. Un proposito di certo non facile, all’interno del contesto di una città moderna e contemporanea, già inerentemente sottoposta ad una serie di trasformazioni destabilizzanti su base pressoché quotidiana, benché al fine di raggiungerlo, possa giungere ad assisterci la tecnologia. Sapevate, ad esempio, che per portare a termine la principale trasformazione di quest’insolita e svettante Capanna in un tempo massimo di 15 minuti, tutto ciò che serve è l’energia prodotta da un motore elettrico di circa una sessantina di cavalli? Praticamente, lo stesso installato sotto il cofano di una Prius. Ma di miracoli dell’ottimizzazione in alcun modo a discapito della forma, questo teatro/sala delle esposizioni/centro conferenze (etc.) può farne parecchi altri…

Durante le lunghe notti della Grande Mela, è stata anche prevista la possibilità di proiettare sequenze video sulla facciata antistante dell’edificio, in uno spazio destinato ad essere aperto agli elementi, oppur coperto e climaticamente controllato, a seconda della necessità climatica di ciascun caso.

L’idea per the Shed nasce, secondo alcune interviste rilasciate dai due progettisti principali Elizabeth Diller e Ricardo Scofidio, circa una decina di anni fa, momento in cui “la strana coppia dell’architettura”, come sono stati chiamati online dalla rivista di settore AdPro, in qualità di ulteriore coronamento degli svariati progetti collaborativi dal significativo peso storico, tra cui una piattaforma d’osservazione sulle Twin Towers completata solamente pochi giorni prima della loro completa distruzione. Quasi coetanei (lei 64, lui 63 anni) ma molto diversi, spiega l’articolo, nel preferire rispettivamente un aspetto cerebrale e misurato delle soluzioni tecniche selezionate, con la controparte maggiormente incline a seguire l’estro creativo e il suo istinto d’artista. Un duplice aspetto, questo, estremamente preminente nella pratica del loro studio, più volte dimostratosi capace di dedicarsi ad allestimenti prettamente artistici, come scenografie o allestimenti teatrali. Esperienza in grado di trovare applicazione, senza la benché minima ombra di dubbio, in questa loro ultima fatica, composta da 3.700 metri quadri di spazi espositivi su più livelli, affiancati dal grande spazio vuoto del tetto scorrevole, dove portare a compimento un’ampia gamma di spettacoli, concerti ed altri simili eventi. Possibilità intrigante, inoltre, offerta dalla natura essenzialmente gruistica dell’intero edificio, è rappresentata dall’apertura dell’intera facciata anteriore, al fine di caricare attraverso cavi connessi alle componenti metalliche della parte mobile grandi sculture o altri ponderosi elementi di arredo, a seconda delle necessità della mostra correntemente in corso nei piani sopraelevati. Al terzo livello, nel frattempo, è stato prevista un’altra sala-auditorium, dove poter condurre un secondo spettacolo o altra esibizione di qualsivoglia tipo. Nella più totale osservanza e ricerca continuativa di quella che avrebbe dovuto costituire, fin dal primissimo momento, la parola chiave dell’edificio: flessibilità.
Detto questo, l’edificio che avrebbe dovuto chiamarsi originariamente The Culture Shed (“Ma anche il nome commerciale della Apple ha visto eliminato quel termine ridondante di Computer!” Viene riportata aver detto l’artista serba naturalizzata statunitense Marina Abramovic) appartiene a quella classe di visioni altamente innovative capaci di suscitare forti proteste nella popolazione locale. Così quelle stesse persone che combatterono, originariamente, per bloccare la demolizione della High Line ferroviaria e promuovere la sua trasformazione in zona verde, si recarono dall’allora sindaco Bloomberg verso la fine del suo mandato nel 2013, per esporre tutta la loro visione negativa di un edificio “privo di una funzione chiara” e che avrebbe “sottratto spazio pubblico nel momento in cui scorre il tetto”. Ottenendo soltanto da quest’ultimo, grande fautore del progetto, l’investimento di ben 75 milioni di dollari di tasca propria, sugli oltre 475 necessari al completamento della Capanna, ragion per cui successivamente esso avrebbe aggiunto il suo nome come secondo appellativo non propriamente “ufficiale”. Quello che tutti capirono in quella sede, ad ogni modo, è che lo spazio degli Hudson Yards, proposto originariamente per le Olimpiadi newyorkesi del 2012 (che finirono, invece, per tenersi in quel di Londra) sarebbe ben presto diventato un regalo alla città di New York, secondo la personale visione dei ricchi e potenti di quello che la città di New York, avrebbe dovuto desiderare. Fortuna volle, almeno nel presente caso, che le recensioni e le trattazioni in merito a The Shed avrebbero sperimentato una deriva positiva. Contrariamente a quanto debba ancora succedere, oserei aggiungere purtroppo, per l’ancor più dirompente ed incomprensibile The Vessel, il camminamento sopraelevato del collega Heatherwick.

I rendering e gli spaccati architettonici degli edifici hanno questa abitudine di mostrarsi animati al fine di valorizzare ciascun aspetto del loro soggetto principale. Qui possiamo sperimentare l’unico caso, tuttavia, in cui il movimento delle pareti non risulta in alcun modo simulato.

Perché l’arte, in ultima analisi, non può prescindere dal contesto in cui viene messa in opera, sia che si tratti di produzioni passive da osservare con interesse, piuttosto che il caso soggettivamente dinamico di una vera e propria esibizione personale. Questa è l’idea fondante alla base dell’esperimento, dunque. Di una letterale tela mobile e trasformabile, riconfigurabile per sua massima prerogativa (ma non è forse questa la natura, in se stesso imprescindibile, di un qualunque ottimo museo?) affiancata da una letterale cavea a cielo aperto, non dissimile concettualmente da quelle impiegate ai tempi della drammaturgia primordiale, all’epoca degli antichi greci e latini. Ma non c’è Sofocle, Ectanide o Agatone che tenga: qui, andrà in scena primariamente il ritmo e la ripida sequenza della più assoluta modernità, al servizio di quelle perle di sapienza più fortemente sentite dalla cultura popolare.
Come esemplificato dal tipo di spettacolo scelto dal direttore generale artistico Alex Poots per questa sera dell’inaugurazione, il 5 aprile 2019: la rappresentazione non cronologicamente sequenziale della storia della musica afroamericana fin dai tempi della schiavitù ad oggi, allestita da niente meno che il regista Steve McQueen, autore nel 2013 del film 12 Years a Slave. Destinata ad essere trasmessa in diretta streaming sulla pagina Facebook della neonata istituzione, alle ore 20:00 EDT, praticamente, le due di notte di domani dal momento in cui questo articolo è stato pubblicato online. Un’occasione che potrebbe anche valere, arriverei a dire, una notte insonne trascorsa dinnanzi allo schermo fluorescente dei nostri PC…

Lascia un commento