Il pesce lucerna, Stregatto letale dei sette mari

La piccola e splendente aringa, momentaneamente rimasta separata dal branco dei suoi simili, osservò la miriade che si allontanava in controluce. Se fossimo degli psichiatri dei pesci, potremmo ipotizzare che voleva passare qualche minuto da sola a pensare. Se fossimo pessimisti, che una qualche specifica condizione clinica le impediva di sostenere il normale ritmo di quelle pinne agitate dall’ansioso bisogno di sopravvivere e migrare. Fu allora, mentre l’impulso elettrico di un semplice sistema nervoso rimbalzava da un lato all’altro del suo piccolo e scaglioso corpo, che il pesciolino scorse qualcosa di potenzialmente interessante: un sinuoso vermicello, intento a contorcersi, in un punto particolarmente pacifico del fondale marino: “Se chiudo la bocca sua quella cosa traendone forza, ritroverò la voglia di proseguire.” Pensò a suo modo questo feroce predatore di tutto ciò che muovendosi, si presentasse caratterizzato da un diametro inferiore a un centimetro e lunghezza in proporzione. Quindi si avvicinò pacatamente… Fino al momento in cui gli sembrò di scorgere qualcosa tra il fondo scuro del suo ambiente d’appartenenza. Una vista familiare, a suo modo: la maschera della Morte coi due occhi bulbosi e una lunga fessura ricolma di aculei, letterale foro d’ingresso per una morte immediata e liberatrice. Mentre meditava su questa spaventosa e impossibile apparizione ricoperta dai granelli di sabbia, scorse nuovamente l’anellide appetitoso che lo chiamava, mentre un movimento appena percettibile tra la sabbia riconfermava la sua appetitosa impressione. Allora l’aringa fece ciò che gli riusciva meglio: dimenticò il pericolo. E si avvicinò ancora. Ci fu una pausa momentanea, come un attimo nel montaggio di un film dell’orrore. Quindi un lampo di elettricità statica, seguìto da un colpo poderoso, paralizzò immediatamente la povera vittima inconsapevole. E fu allora che il pesce lucerna fece il suo atteso ritorno sul palcoscenico del Creato.
Ora, se io vi dicessi che l’Uranoscopidae (nome che viene dal greco Οὐρανός – Firmamento + σκοπείν – guardare) è una creatura predatrice dai denti aguzzi con due aculei velenosi in grado di uccidere potenzialmente l’uomo, che INOLTRE possiede il pericoloso dono evolutivo degli elettrociti, organi in grado di dare la scossa a chiunque tenti di disturbarla, non avreste potenzialmente dubbi sul suo ambiente di provenienza: un simile mostro deve necessariamente provenire dall’Australia. E non avreste formalmente torto, benché in effetti questa famiglia relativamente omogenea di animali, cosmopolita per definizione, sia stata avvistata per l’intera fascia tropicale del Pacifico, dell’Atlantico e dell’Oceano Indiano, per non parlare del nostro Mediterraneo, dove risulta essere a dire il vero piuttosto comune, sebbene poco conosciuto. Considerate a tal proposito, che ogni qual volta vi dicono che nel caciucco (o zuppa di pesce che dir si voglia) è presente un qualche tipo di “rana pescatrice” ci sono ottime probabilità che si tratti in effetti della specie nostrana del cosiddetto stargazer, il cui nome risulta essere nello specifico Uranoscopus scaber, o pesce prete. E questo nonostante l’intera famiglia composta esattamente da 51 specie (di cui una estinta) non risulti effettivamente imparentata in alcun modo col genus Lophius, predatore abissale dall’ecologia sostanzialmente diversa e noto ai pescatori del Nord Europa come pesce monaco, per la forma squadrata della sua testa che ricorda il cappuccio di un ecclesiastico protestante. Per nascondere un volto che neppure Madre Natura riuscirebbe ad amare. Non che il nostro amico in agguato sui bassi fondali risulti essere, in alcun modo, esteticamente più gradevole di una tale remota controparte…

Un video interessante, questo del pescatore e padre di famiglia Briggsy. Perché naturalmente, quando ti sembra di aver sentito qualcosa di strano muoversi tra la sabbia, l’unica reazione possibile è tentare di prenderlo in mano. E quando prendi l’inevitabile scossa è consigliabile lanciarlo all’indirizzo del proprio pargolo, suo malgrado sgattaiolato fuori dall’inquadratura.

Dei rinomati “pesci che scrutano il cielo” esistono molte varietà diverse tra loro che variano nelle dimensioni da circa 15-30 cm ai quasi 90 del Kathetostoma giganteum originario della Nuova Zelanda, tutte prive di scaglie chiaramente visibili, con la testa cubica e il dorso appiattito, le due pinne ventrali simili a vanghe per meglio scavare il proprio rifugio mimetico di appartenenza. Una caratteristica altamente distintiva di questi pesci è la presenza di un sistema di aculei simili a setole sulle branchie e tutto attorno alla bocca, finalizzati ad impedire l’ingresso di quantità eccessive di sabbia, capace di abradere gli aguzzi dentini e i suoi delicati organi respiratori. Eliminata una tale debolezza, quindi, il pesce risulta essere quasi invincibile, semi-sepolto nelle oscure regioni di appartenenza, visibile unicamente ai pescatori di fondo più attenti ai dettagli minuti e cromaticamente ben mimetizzati. Mentre letteralmente nessuno, tra i nuotatori pinnuti più grandi o più piccoli di lui, sembra in grado di contrastare il codice di assassinio del pesce lanterna o prete.
Per quanto concerne l’attività di caccia propriamente detta, generalmente condotta durante la notte ma non solo, gli Uranoscopidae sono classificati come degli ambush predators (predatori avvezzi all’attesa) propensi ad affidarsi, piuttosto che a un elevato grado di agilità e sveltezza, alla pazienza e la propensione all’inganno che ne caratterizza il metodo. In funzione di questo, risultano essere necessariamente onnivori, prediligendo piccoli pesci ma non disdegnando neppure cefalopodi, crostacei, granchi e altri camminatori dei fondali marini, accidentalmente risucchiati dal vuoto che viene a crearsi nel momento in cui spalancano la loro grande bocca, dando luogo all’irresistibile risucchio verso le regioni ultime del proprio stomaco di condanna. Qualcuno, tra gli appassionati di videogiochi, potrebbe ricordare il terribile Gobul di Monster Hunter, una creatura ispirata in parte al pesce gatto, che tuttavia metteva in atto un approccio simile nel contrastare i suoi antropomorfi oppositori in armatura.
La riproduzione, invece, portata a termine per quanto concerne la specie mediterranea tra aprile ed agosto, vede uno stile conforme in senso generico a quello tipica del vasto ordine dei perciformi, con la liberazione di larve pelagiche che si lasciano trasportare dalla corrente, le quali prima di posarsi sul fondale al raggiungimento dei 10-11 cm alcune settimane dopo, adottano la strategia difensiva del mimetismo di Thayer, consistente in un ventre chiaro come il cielo soprastante, mentre il dorso è scuro, per risultare poco visibile a chiunque cercasse prede da ghermire piombando dall’alto. Studi recenti hanno tentato di dimostrare come la ricerca della compagna da fecondare possa effettivamente avvenire attraverso metodi decisamente anticonformisti, tra cui l’emissione di un segnale auditivo al di sotto della soglia udibile dall’uomo e la liberazione di feromoni contenuti nella propria bile, che possiede effettivamente in quantità superiore alla media per una creatura delle sue dimensioni.

La vista del pesce lanterna che scava la sua buchetta può sembrare subdola e orrorifica, ma tutto ciò non è nulla in confronto al momento in cui, raggiunto l’auspicabile obiettivo, soltanto i suoi occhi restano visibili attraverso il suolo, assieme a un sorriso dai mille denti, vacuo e carico di sottintesi.

Della famiglia Uranoscopidae esistono tre generi (Astroscopus, Gnathagnus e Katheostoma) nessuno dei quali presenta degli appartenenti con qualsivoglia rischio di conservazione, nonostante molti esemplari restino vittima ogni giorno delle reti a strascico e altri metodi di pesca capaci di rastrellare i fondali. Eventi a seguito dei quali, benché non si tratti di una specie commercialmente rilevante, il pesce viene generalmente processato e messo in vendita, in funzione del rinomato pregio ed ottimo sapore delle sue carni. Il che in effetti non dovrebbe sorprendere nessuno, quando si considera come le cose brutte siano spesso anche le più buone, sia in senso filosofico che per quanto concerne, in senso trasversale, la loro capacità di regolare e tutelare l’ecosistema di appartenenza.
Soltanto, se vi dovesse capitare accidentalmente di pescarne uno e stringerlo affascinati tra le mani, prestate attenzione: al di là della scossa piuttosto blanda, stiamo effettivamente parlando di appena 50 volt contro gli oltre 800 dell’anguilla elettrica, il veleno contenuto in quei grossi aculei possiede una composizione largamente misteriosa, che più volte si è dimostrata in grado di eludere i tentativi di studio da parte degli scienziati. Sembra in effetti che una volta estratta dalle ghiandole di provenienza, tale sostanza non possieda più alcuna tossicità residua. Incredibile, vero? Ed è proprio per questo che non esiste alcun siero. Che non è mai un biglietto da visita piacevole, quando si parla di creature disposte a tutto, pur di allontanare una minaccia bipede molto più grande, pericolosa e furba di loro.

Gobul: grande assente degli ultimi episodi di Monster Hunter, eppure mai davvero dimenticato. Capiranno gli autori che i combattimenti sottomarini potevano essere la parte migliore del gioco, con soltanto qualche piccola modifica al sistema di controllo?

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