Sonda distante svela il colore di un caciocavallo spaziale

Sotto il sole accecante di un dì primaverile in provincia di Pescasseroli, l’erboso passaggio dell’antico tratturo, sul percorso della transumanza, risuonava dei campanacci e i sommessi muggiti della mandria. Un pastore a rispettosa distanza, con il lungo bastone simbolo della sua professione, produce un fischio acuto all’indirizzo del suo cane di accompagnamento, che udendolo comprende l’arrivo del tradizionale momento. In cui alla mucca Carolina, esemplare da concorso di splendida e maculata frisona, verrà concesso di divergere dal tradizionale programma, per andare a brucare l’erba ribelle del promontorio in direzione opposta al borgo. “Chi jè pahure dell’acque, ne jesse ‘nu mare.” Questa era la frase, o proverbio che dir si voglia, che suo padre e il padre ancor prima usavano pronunciare in tali frangenti, ben sapendo che il miglior formaggio artigianale del mondo poteva essere prodotto soltanto da un animale che avesse sperimentato almeno occasionalmente la libertà. Per la legge della gravitazione bovina, d’altra parte, egli sapeva bene Carolina avrebbe disegnato un ampio arco dal suo punto di partenza. Per poi tornare, senza esitazioni di nessun tipo, presso la corretta destinazione del suo recinto.
Caciocavallo, una parola che implica quella forma: prima si prende uno sferoide, estratto come la lama di Excalibur dal più pregiato caglio; quindi un secondo, più piccolo. E infine si uniscono le due cose, nella creazione del caratteristico “sacchetto” che sembrerebbe una scamorza, se non fosse per il colore tendenzialmente più chiaro. Più o meno come fatto dall’ipotetico demiurgo, che 4,6 miliardi di anni fa si occupò di approntare la più distante, ed emblematica, di tutte le pietre miliari raggiunte dall’uomo. In occasione di questo appena trascorso capodanno 2018 (anzi a dire il vero, esattamente 20 minuti dopo) quando la sonda americana New Horizons come pianificato dall’ormai remoto 2014, sorpassato il familiare ex-pianeta Plutone ha raggiunto la sua “meta d’occasione” con appena un paio di cambi di rotta, passandogli a 137.000 chilometri di distanza (un’inezia in termini spaziali) per scattare una foto destinata a fare il giro del mondo. L’oggetto simile a una cometa (486958) 2014 MU69 presenta un nome simbolico, trovato grazie al più classico contest del Web: Ultima Thule era l’isola leggendaria citata più volte dal popolo dei Latini, luogo remoto talvolta identificato con l’Islanda o la Nuova Zelanda. Mentre la forma, come lasciato intendere poco sopra, risulta indubbiamente carica di sottintesi: questa roccia dalla superficie di circa 30 Km quadrati è stata chiamata pupazzo di neve, nocciolina, fagiolo o jelly bean, una caratteristica caramella zuccherosa degli Stati Uniti. Ma poiché siamo italiani, ed abbiamo buon gusto, perché non identificare in esso il profilo di quello che potrebbe anche costituire il più iconico formaggio dell’Italia meridionale? Dopo tutto, questo è un luogo che si discosta in maniera sensibile dal concetto tradizionale di un cosiddetto “cubewano” (KBO) o Kuiper Belt Object, ovvero uno di quella letterale miriade di corpi con orbite centenarie attorno al nostro Sole, anche definiti trans-neptuniani poiché più inaccessibili persino dal più distante pianeta del Sistema, in quanto formato da un ammasso principale di probabile ghiaccio ed altre sostanze simili (soprannome “Ultima”) che si è scontrato con uno più piccolo (“Thule”) senza tuttavia andare in frantumi. Bensì restando, miracolosamente, saldato ad esso, nella formazione di quanto ha graziato le nostre telecamere in alta definizione in occasione di questo memorabile cambio d’anno. Quanto meno, dal punto di vista di chi capisce e riesce ad apprezzare le implicazioni dell’esplorazione spaziale…

Le conferenze della NASA sono sempre piene d’entusiasmo da parte degli scienziati coinvolti ed applausi fuori luogo dei giornalisti. Che come potrebbe ampiamente testimoniare Alan Stern il capo della missione (a sinistra) tendono a richiedere occasionali incoraggiamenti da parte dei parlanti, allo scopo di capire quali, esattamente, siano i fatti meritevoli di essere celebrati.

Potrebbe quindi sembrare strano che una missione tanto complessa e di lunga durata (New Horizons fu lanciata nello spazio l’ormai remoto 19 gennaio 2006) possa risultare tanto determinante nell’aggiungere informazioni su un qualcosa di tanto relativamente vicino, laddove i nostri telescopi più potenti, l’Hubble in primis, sono riusciti a svelare informazioni estremamente approfondite su pianeti e stelle infinitamente più distanti. La ragione di questo, tuttavia, è da ricercarsi nella limitata capacità di riflettere la luce e le dimensioni ridotte di Ultima Thule, sostanzialmente nient’altro che una roccia la cui esistenza era stata teorizzata, in funzione di alcuni fortuiti oscuramenti stellari. Un’espressione con la quale mi sto riferendo all’importante artificio nel campo dell’astronomia, che consiste nel puntare numerosi obiettivi in un’area di spazio ritenuta momentaneamente interessante, allo scopo di annotare i momenti in cui un “qualcosa”, di altrimenti invisibile, si troverà a frapporsi dinnanzi alle fornaci cosmiche di astri iperborei, rendendo accidentalmente palese la sua presenza. Operazione compiuta più volte a partire da quel fatidico momento nel 2014, quando proprio utilizzando il già citato telescopio orbitale Hubble il team della NASA riuscì a individuare per la prima volta
(486958) 2014 MU69, allo scopo di determinarne l’esatto tragitto e potenzialmente intercettarlo, dopo il passaggio da parte della sonda New Horizons del planetoide Plutone previsto ed effettuato come da programma l’anno successivo. Alcuni dei più potenti telescopi quindi sono stati puntati nel corso dell’estate 2017 all’indirizzo del settore d’interesse, riuscendo ad accertare l’esistenza della roccia e nel contempo ipotizzarne una forma in qualche modo irregolare ed oblunga.
Mentre a partire da oggi, e attraverso i lunghi mesi necessari a trasmettere i dati dalla corrente posizione remota di New Horizons, possiamo avvalerci di dati di prima mano e iniziare ad approfondire REALMENTE la questione.

Un’ìmmagine molto più significativa di quanto potremmo tendere a pensare: ecco a voi l’oggetto più remoto mai “raggiunto” dall’uomo. Col che s’intende, naturalmente, “Avvicinato ad oltre un centinaio di migliaia di chilometri dalla versione spaziale di un drone”. Traguardi simili, vengono attraversati soltanto una volta da ogni possibile civiltà del cosmo.

Veniamo dunque alla questione principale: rosso, Ultima Thule è rosso. Secondo quanto rilevato dalla Multispectral Visible Imaging Camera (MVIC) presente a bordo della sonda, ci è stato finalmente concesso di realizzare come l’ormai leggendario formaggio/pupazzo-di-neve presentasse in realtà una tonalità notevolmente diversa da entrambi, lasciando sottintendere la potenziale presenza minerale di ossidi ferrosi, particolarment nel punto di contatto tra le due sfere, evidentemente più chiaro. O addirittura, perché no, una ragionevole componente di composti organici lì accumulatisi nel corso di milioni di anni, assai ragionevolmente defunti ormai da molto tempo (ma chi può dirlo? In fondo, secondo alcune teorie, gli organismi estremofili potrebbero sopravvivere durante il viaggio di una cometa). Naturalmente è come evidenziato a nostro beneficio durante la storica conferenza stampa condotta da Alan Stern col suo team l’1/1/2019 l’immagine della MVIC risultava evidentemente sfocata, un problema facilmente superato grazie alla più dettagliata silhouette recepita dallo strumento del Long-Range Reconnaissance Imager (LORI) che gli è stata subito sovrapposta, nell’ottenimento della più fedele rappresentazione possibile di un caciocavallo spaziale.
Per quanto riguarda, adesso, il futuro di New Horizons, basterà definirlo “incerto” la sonda costruita in epoca ragionevolmente recente, poco prima di essere lanciata verso i confini del Sistema Solare dal potente razzo Atlas V è sufficientemente sofisticata e attrezzata per continuare a funzionare almeno un altro paio di anni. O persino più di così. Ma poiché la sua elevata velocità, per ovvie ragioni, gli rende impossibile deviare rotta o tornare indietro, siamo ad oggi costretti a sperare che “qualcosa” possa frapporsi entro i prossimi mesi sul suo cammino, ovvero altri oggetti della vasta cintura di Kuiper, tra i più antichi e misteriosi del nostro intero vicinato. In caso contrario, essa non potrà che continuare la sua marcia verso l’oscuro Infinito, trasformando questa testimonianza nel suo ultimo lascito, un regalo d’addio ai suoi ormai irraggiungibili costruttori.
Finché qualcuno, o qualcosa, tra letterali incomprensibili eoni, non si troverà dinnanzi il curioso attrezzo, tentando di aprirlo per capire come funziona. Per poi trovare al suo interno, tra le altre cose, una parte delle ceneri di Clyde Tombaugh, l’astronomo che scoprì Plutone nel 1930. senz’ombra di dubbio, il singolo individuo con la sepoltura più invidiabile di tutta la sua professione.

Nuovi asteroidi, planetoidi o plutini aspettano New Horizons nella sua marcia ormai priva di un’obiettivo? Chi può dirlo; forse per lo meno alla NASA, la prossima volta, eviteranno di chiedere suggerimenti per il nome online. Evitando di ritrovarsi sul tavolo appellativi dalla storia potenzialmente problematica, come questa “Ultima Thule” un luogo che i nazisti consideravano, poeticamente, l’origine della “sacra” razza ariana.

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