L’insospettata origine dell’altra spugna naturale

Squadrata ed irrealistica creatura degli abissi così come i suoi bizzarri e colorati amici (fatta eccezione per la sciuride sommozzatrice) Spongebob ha rappresentato per molti anni l’appropriata introduzione a un certo modo d’interpretare e scherzare sulla natura. Non a caso l’ideatore Stephen Hillburg, recentemente venuto a mancare all’età di soli 57 anni, annoverava nel suo curriculum una laurea in biologia marina e la partecipazione a numerosi corsi d’immersione, utili a capire l’atmosfera e il senso di scoperta che aspettano colui che ha voglia, ed il coraggio, di spingersi al di sotto degli strati visibili del mare. Ma il suo buffo personaggio, perennemente coinvolto nelle più insolite peripezie, ha anche rappresentato per molti giovani americani e poi internazionali l’associazione di un concetto ad una forma: quella del più tipico implemento, usato alternativamente per lavarsi o rendere brillanti i piatti e le stoviglie in cucina. Concetto più che mai evidente nella lingua inglese, dove lo stesso termine generico sponge (spugna) è in realtà un antonomasia derivante dal mondo dei poriferi, esseri filtranti la cui vita estremamente sedentaria ha portato in molti ad inserirli erroneamente nell’insieme dei vegetali.
Detto questo e come in molti sanno, esistono le spugne in materiale plastico, quelle metalliche e poi c’è l’alternativa naturale. Che trovandosi in realtà distante dal succitato parallelepipedo può avere, essenzialmente, due modi diversi di presentarsi: tonda e globulare, ma per il resto non dissimile dall’amichevole Spongebob in colorazione e posizione dei pori, oppure un grosso oggetto oblungo, a volte tagliato in senso longitudinale per assolvere alle funzioni di un panno, estremamente leggero e dalla struttura marcatamente reticolare, il cui nome commerciale è loofah. Per chi ha spirito d’osservazione dunque pur mancandogli la conoscenza, questa cosa appare in qualche modo fibrosa e impossibilmente remota dal tipo di esistenza che potremmo essere propensi ad associare al mare. Il che ha perfettamente senso, visto che siamo al cospetto dei resti essiccati di una cucurbitacea, in altri termini, la versione sovradimensionata di un cetriolo o una zucchina.
La Luffa aegyptiaca, come scelse di chiamarla per primo il botanico tedesco Johann Vesling (1598 – 1649) durante un suo viaggio nordafricano, una volta giunto per la prima volta a contatto con il notevole rampicante, capace di produrre un’attraente cascata di fiori gialli. Ma successivamente a quelli, sopratutto, l’impressionante peponide normalmente consumato dai locali, sempre attenti a rimuoverlo prima della maturazione conclusiva. Questo perché, al momento in cui la pianta è pronta a liberarsene col suo bagaglio carico di semi, la luffa è ormai soltanto un ammasso di fibra totalmente incommestibile, coriaceo ed anche difficile da sbucciare. Il momento esatto in a qualcuno venne in mente che ciò potesse avere un qualche tipo di funzione, dunque, resta ignoto, benché l’imprenditore statunitense Nathan Pauls di Reedley, California, sia pronto a collegare l’usanza alle importazioni dirette del prodotto dal Giappone nel periodo tra le due guerre, facendone una scoperta piuttosto recente del mercato globale. La Luffa dopo tutto, è una pianta adatta ai climi tropicali, originaria dell’India e dell’Africa orientale, che anche qui da noi in Italia cresce soltanto al sud. Ciò che in molti non avrebbero potuto sospettare, tuttavia, era che potesse costituire una fonte di guadagno destinata a durare così a lungo nel tempo…

In Giappone la luffa prende il nome di hechima (へちま) con un uso puramente fonetico dell’alfabeto hiragana tipico della frutta ed ortaggi di provenienza nativa. Il suo uso storico, particolarmente nelle isole Nansei e nel Kyushu, è sempre stato di tipo alimentare.

Il mondo moderno è un sinonimo di estrema semplicità procedurale: basta costruire uno stabilimento, procurarsi gli ingredienti polimerici, inserirli nello stampo costruito ad hoc e plasmare il tutto ad elevate temperature lungo una filiera produttiva che termina con la catena di montaggio, dove la forma intermedia della tipica spugna reticolare loofah viene arrotolata su se stessa, cucita e connotata dall’aggiunta di una pratica cordicella. Oppure, chi è davvero coraggioso può piantare un seme ed aspettare sei mesi. Beh, sarà meglio piantarne qualche dozzina…
Persino oggi, con il ripristino delle importazioni grazie ai moderni sistemi di trasporto, la coltivazione in casa della pianta di luffa rappresenta un hobby praticato assiduamente da chi è tanto fortunato da avere un clima adatto (o spazio sufficiente in casa) attraverso modalità divulgate da svariati siti specializzati, letterali porte d’ingresso verso il mondo fantastico delle spugne di provenienza vegetale. Sia chiaro che non siamo, tuttavia, di fronte ad un proposito straordinariamente semplice. Entrambe le varietà di luffa commercialmente rilevanti, L. aegyptiaca e L. acutangula, impiegano oltre 20 giorni a sbucare dal terreno dopo aver piantato il seme, momento in cui diventa essenziale mettere a loro disposizione una struttura di sostegno in grado di sostenere il loro peso. E nonostante l’accelerazione dimostrata nel momento in cui la massa complessiva raggiunge il punto critico, un’attesa ragionevole prima del raccolto si configura attorno a un periodo di sei mesi. Ma il problema principale s’incontra solamente dopo, al primo tentativo di ottenere i grossi frutti, adeguatamente fecondati e carichi di semi: è infatti possibile che su una singola pianta crescano soltanto fiori di genere maschile o femminile, rendendone essenzialmente impossibile la riproduzione. Mentre anche nell’ipotesi migliore, il trasferimento di polline dovrebbe idealmente essere portato a termine da api o calabroni, non sempre (ahimé) disponibili al momento del bisogno. L’alternativa dell’inseminazione manuale è sempre percorribile, pur richiedendo una preparazione tecnica adeguata. Un’ulteriore sfida, dunque, dovrà essere affrontata successivamente all’ora del raccolto…

La cuoca Wendi Phan alle prese con una luffa pronta da mangiare, colta prima di raggiungere la secchezza della sua maturazione finale. L’aspetto dell’interno, verde e coriaceo, non appare particolarmente dissimile da quello di un gigantesco cetriolo.

Una luffa pronta ad essere trasformata in spugna si presenta come un tutt’uno quasi totalmente inscindibile, protetto da una buccia spessa e resistente. Non volendo o potendo quindi ricorrere alla tecnica tradizionale di metterla a bagno nell’acqua calda, tutto quello che resta da fare per tentare d’aprirla è sbatterla con violenza a terra, calpestandola o colpendola con dei pugni. Se quest’ultima sarà effettivamente matura al punto giusto, dunque, sull’involucro inizieranno a comparire delle crepe, dalle quali usciranno i numerosi semi e sfruttando le quali sarà possibile iniziare a scartare un prodotto che risulterà, letteralmente, già pronto all’uso. Il coltivatore coscienzioso avrà tuttavia cura di lavarlo con un forte getto d’acqua, allo scopo di rimuovere anche l’ultima traccia di linfa vegetale, che potrebbe altrimenti tingere di verde il fibroso e quasi indistruttibile baccello.
Dal punto di vista degli usi possibili, il limite della luffa è letteralmente dettato unicamente dalla fantasia degli umani. Essa costituisce infatti un tipo di spugna resistente ma non troppo ruvida, capace di esfoliare, detergere, strofinare. Se adeguatamente mantenuta, avendo cura di tenerla appesa in alto per un’adeguata asciugatura, riuscirà a mantenere la forma e l’integrità per diversi mesi, anche senza gli specifici trattamenti chimici a cui viene sottoposta in ambito industriale. Molti praticanti individuali della coltivazione di un simile vegetale sono inoltre pronti a giurare sulla qualità maggiore della variante prodotta artigianalmente rispetto a quella importata, proprio perché priva del passaggio problematico della fumigazione, in grado di ridurre notevolmente le qualità innate di questa versione terrigena e rampicante dell’adolescenziale Spongebob.
Piante, animali, strumenti, cose: non siamo di fronte a nient’altro che una serie di parole. Attraverso le quali è possibile alternativamente definire ciò che riesce a colpirci con la potenziale funzionalità ed impiego. Chiunque sia stato il primo a pensare di sfruttare la luffa eccessivamente matura, probabilmente per un disguido di natura agricola o l’incontro occasionale nella foresta, non intuiva certo la complicata storia futura di quello che si stava apprestando a creare. È tuttavia del tutto possibile, per quanto ci è possibile sapere, che la voce arcana della saggezza ulteriore stesse sussurandogli all’orecchio “Forza, forza, provaci! Altrimenti, ti rimarrà il dubbio di un’occasione perduta”.  Esattamente lo stesso ideale che ha guidato per tanti anni la penna, e la fertile creatività, dell’unico cartoon basato sulle avventure di un porifero marino.

Una tipica lavorazione commerciale della luffa prevede l’incapsulamento del baccello all’interno di una forma di sapone, creando l’unione perfetta di questi due assoluti classici della pulizia. Alla consumazione completa del detergente, quindi, resterà una pratica spugnetta da sfruttare ancora per un lungo periodo, fino all’ora della disgregazione finale.

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