Il teschio che appassisce nel fiore leonino

Mentre i giorni passavano, la dama indifferente continuava a passeggiare nel suo giardino segreto. Camelie, rose, qualche tulipano. Ma il punto da lei preferito, il nesso principale del suo passatempo preferito, era l’angolo degli Antirrhinum, o bocche di leone. Seduta sul muretto perimetrale, il vento a muoverle i capelli assieme ai piccoli arbusti antistanti, passava lunghi minuti a osservare quei flessuosi racemi, ciascuno dei quali coronato da una miriade di fiori colorati. C’erano le varianti naturali porpora, gialle, bianche. Ma anche ibridi più rari, i cui petali simili a labbra semichiuse apparivano violetti, rosa e arancioni. I pensieri rivolti al passato, andava a stringerli delicatamente uno per uno tra il pollice e l’indice, mentre per come si muovevano, sembrava quasi di udire la loro voce. “Non lasciarci, non partire per assecondare tuo padre, andando in sposa al principe di Danimarca, abbiamo visto la sventura nel flusso del tempo.” Ma la decisione era già presa e come voleva la tradizione, un bel giorno ella sparì. Nessuno, tra i servi o gli altri abitanti della vasta magione, conosceva il passaggio nascosto che conduceva nel piccolo cortile, così le piante abbandonate, una dopo l’altra, perirono nella più completa solitudine. E il grigiore del mondo reale, da quel momento, governò gli spazi remoti. Finché qualcuno, circa sei mesi dopo, non venne a sapere, da un membro della famiglia reale prossimo alla dipartita, dello spazio un tempo occupato dai pensieri di quella dama. E con grande pazienza, tastando i muri e tirando a se dozzine di torce, non giunse a  quella capace di spalancare l’antico passaggio dimenticato. Era scoppiata la guerra, ormai, e già i colpi d’artiglieria risuonavano in lontananza, trasportati dal vento che risaliva le irte pendici montane. Alla ricerca di nuovi nascondigli per importanti documenti e provviste, il servo fece il suo timido ingresso nell’intercapedine sconosciuta, illuminata da un singolo raggio di sole a ogni ora diverso, capace di filtrare tra le merlature distanti. “Te l’avevamo detto, te l’avevamo detto…” Sentì dire nel vento. Dal punto in cui andò a focalizzarsi il suo spazio, molte dozzine di piccoli teschi, orbite spalancate, menti sfuggenti e strani nasi cartilaginei. Le foglie ormai secche a circondarli come antichi sudari. Le anime dei morti parevano manifeste, pronte ad accogliere nuove generazioni di stolti.
Fin dall’antichità, queste piante diffuse in Europa e in Nord Africa (ne esiste anche una variante americana) furono indissolubilmente associate al mondo degli spiriti, credendo potessero scacciare il male. Il primo a parlarne: Teofrasto di Ereso (371-287 a.C.) botanico e filosofo, a cui risale la definizione di anti, “simile a” unita rhin, “naso” voleva fare riferimento alla particolare forma della corona dei fiori, oggi inserita nell’insieme informale delle piante per così dire “personate”, ovvero capaci di stimolare l’impulso umano della riconoscenza-di-se, anche detta pareidolia. Esse ricompaiono nei testi soltanto molti anni dopo, ad opera di Dioscoride (40-90 d.C. ca.) medico greco alla corte dell’imperatore Nerone, che usava prescriverle come rimedio a diverse afflizioni della pelle, si dice con buoni, se non ottimi risultati. In epoca medievale, quindi, all’intero genus venne associato un particolare sentimento, quello del rifiuto, da parte delle donne in età di matrimonio, dei propri spasimanti. Nacque così l’usanza, diffusa in tutta l’Europa centro-meridionale, di indossare uno solo di questi fiori nei propri capelli, sperando che i giovani del villaggio comprendessero l’antifona. Il che, presumibilmente, non capitava quasi mai. A meno che si trattasse di gente particolarmente superstiziosa ed a conoscenza del segreto più profondo dell’Antirrhinum, ovvero la sua metamorfosi surrealista e decisamente tendente allo spazio più macabro dell’esistenza. La maniera in cui ciascuna capsula contenente i piccoli semi neri, dopo l’appassire dei fiori, assumesse senza falla l’aspetto di un cranio mostruoso, chiaro presagio, nonché un cupo memento, della collettiva mortalità. E furono in molti, di fronte a una simile scoperta, a restare del tutto senza parole…

Non sempre la grazia sottintende a una creatura del tutto priva d’implicazioni maligne. “Fiore, fiore del mio reame. Qual’è il sentiero per soddisfare le mie occulte brame?”

E possiamo soltanto immaginare quanti filtri di streghe, pozioni magiche o tè miracolosi, furono somministrati nel tempo, a partire da questo elemento che nelle Plantaginaceae, sostanzialmente, corrisponde al ruolo del frutto di piante dalle connotazioni meno atipiche o particolari. In natura, il seccarsi dei fiori è in realtà un processo naturale di simili piante, le quali al raggiungimento dell’epoca della maturazione, fanno affidamento sull’impollinazione ad opera d’insetti o del vento, per poi espellere letteralmente i semi da tre fori (gli “occhi” e la “bocca” del teschio) nella fondata speranza che altre piccole creature li prendano per fagocitarli o trasportarli altrove, soprattutto formiche, in un processo che in botanica ha il nome di mirmecoria. Al che una volta trovato terreno fertile, la pianta neonata possa crescere verso l’alto, mentre parimenti scava nel sottosuolo mediante l’impiego del suo fittone, una singola radice centrale non troppo distante dal concetto della carota. Ma è nella progressiva variazione del fusto, legnoso nella parte inferiore, carnoso e ricoperto di una sottile peluria, che trova espressione il suo aspetto tipicamente suffrutticoso. La bocca di leone quindi, all’altezza del ramo principale che può misurare tra i 50 e gli 80 cm, vede un diramarsi delle sue escrescenze in quella moltitudine di fiori sovrapposti, ciascuno dei quali rappresenterebbe, nell’idea popolare, un singolo volto, in qualche modo superiore all’umano, attento a scrutare gli avvenimenti circostanti. In lingua inglese, per fare un altro esempio, il loro nome comune è snapdragon, con un doppio riferimento al serrarsi delle fauci nel momento in cui si preme con le dita ai lati dell’infiorescenza, e la grande lucertola alata, creatura fantastica per eccellenza. Le foglie sono lanceolate ed opposte, nella parte inferiore, mentre lanceolate ed alterne in quella superiore. Nel recente remake animato del manga di Go Nagai degli anni ’70 per il canale Netflix, Devilman: Crybaby, gli Anthirrinum vengono coltivati da una ragazza particolarmente sfortunata, per simboleggiare il suo distacco dalla vita comune e successivamente, la dolorosa perdita dell’innocenza.
In Italia, la bocca di leone è una pianta che cresce naturalmente, facendo affidamento sulla sua capacità di trarre nutrimento da quantità anche molto piccole di terra. Non è ad esempio insolito trovarne di abbarbicate sui muri, ai margini delle strade o persino tra le fessure dei marciapiedi. Sul territorio nostrano, esistevano originariamente due specie, gialla (A. latifolium) e comune (A. majus) di gran lunga la più diffusa, con colonie spontanee dal profondo meridione fino alle cime montane delle Alpi settentrionali. A queste si è quindi aggiunta, in epoca recente, l’Antirrhinum siculum dai fiori bianchi e gialli, adattamento selvatico di una specie creata in origine artificialmente. Le piante trovano vasto impiego nella medicina popolare, per infiammazioni del cavo orale, scottature ed eritemi. Generalmente l’assunzione avviene tramite impacchi ed infusi. Un altro impiego è quello relativo alla creazione di pigmenti, in forza dell’intensa tonalità di questi fiori. Il dente di leone, inoltre, è una vista piuttosto comune nei giardini fioriti, per i suoi evidenti meriti decorativi.

La tentazione d’inserire piante del genere Antirrhinum all’interno di un bouquet da dare alla propria amata potrebbe essere deleteria, visto l’antico significato del fiore. Inoltre, all’inevitabile appassire delle stesse, la cara fanciulla si ritroverebbe circondata dai teschi mostruosi provenuti da un’altra dimensione.

È interessante notare in quanti oggi possano affermare di conoscere le piante, senza in ultima analisi, aver mai analizzato i loro aspetti più mistici e surreali. Quasi come se nel mondo della suprema razionalità, queste creature che ci hanno precorso negli spazi adatti a sostenere la vita sul nostro pianeta, fossero nient’altro che una decorazione, da acquistare e dimenticare assieme alle suppellettili, in un susseguirsi di alcove terrose disseminate per balconi, appartamenti e giardini.
E se qualcuno avesse intenzione di prestare orecchio, soltanto per qualche secondo, alla voce distante dei teschi sospesi tra le pieghe del tempo, comprendendo alfine l’astrusa verità? Che la forma più nobile di qualsiasi creatura vegetale dovrebbe essere, nella migliore ipotesi, quella distante e slegata dalle imposizioni dell’uomo. Ed esse, le piante, non si fanno di certo alcun problema nel mostrarci la maniera in cui dovremmo apparire, una volta dipartiti alfine da questo mondo coperto di lacirme. Meglio tardi che mai, come si dice. Meglio morti che vivi! Purché si tratti di un aldilà dolcemente macabro, infuso dell’aroma dolciastro di mille fiori dimenticati.

Lascia un commento