Il regno futuristico delle balle di fieno

La strana lumaca gigante che avanza ordinatamente sul campo splendente, tagliando e sminuzzando l’erba medica mediante l’impiego di una sorta di radula, l’organo di fagocitazione grossomodo corrispondente alla bocca dei vertebrati, sotto i raggi di un potente sole d’aprile. Il suo motore interno di Falciacondizionatrice, una vibrazione che sottolinea ed amplifica ogni piccola asperità del terreno, le antenne protese non più per guardare, bensì allo scopo di ricevere istruzioni, segnali e una valida colonna sonora. Non è radiocomandata, ma potrebbe. Non è autonoma, ma tutti vorrebbero che lo sia. Sopratutto l’individuo che siede ai comandi, il quale con un sospiro e ad un preciso momento della procedura, comunica al suo collega di dare inizio alle danze. Ed è allora che in discoteca, da dietro una siepe distante, fa il suo ingresso un secondo robot della situazione, ancor più grande ed impressionante, il cui guscio verde reca il logo del principale produttore americano di trattori. John Deere gasteropode, il mostro meccanico Raccoglimballatrice, l’essere che darà luogo alla principale trasformazione del caso. La lumaca si mette da parte, la meta-limaccia inizia il suo giro. Delle lunghe strisce parallele d’erba tagliata, in breve tempo, non resta più nulla, mentre il suo cavaliere percorre vertiginosamente la pista da ballo, una svolta dopo l’altra, fermandosi soltanto alla ricezione di un importante segnale. Pieno/Full/Rosso lampeggiante, apertura, apertura… (Si spalanca la chiocciola posteriore) espulsione al mio segnale-eeeeh, via! Sotto gli occhi perplessi di un topo di campo, appena saltato fuori dal letale percorso della raccogli-imballatrice, essa si apre sollevando il suo posteriore, poco prima di scaricare l’impressionante cilindro raccolto, ovvero nel caso specifico, la preziosissima balla di fieno.
Oro, oro puro color dell’oro e del contadino, il tesoro. Tra tutte le coltivazioni, quella più spesso considerata meno “nobile” o “importante” perché non venduta al cliente finale, eppure alla base della stessa sopravvivenza di quel bestiame, che con il latte, la carne e il formaggio, costituisce una parte tanto importante della nostra dieta. Per non parlare dei cavalli, la cui giornata sarebbe assai più difficile, senza trovare il cibo già pronto da digerire. Questo perché il più svelto dei mammiferi domestici, notoriamente, si è evoluto per mangiare poco e di continuo, mentre migrava continuamente attraverso le vaste pianure della Preistoria. Motivo per cui, chiuso in una stalla, non può semplicemente sopravvivere e prosperare, senza un’apporto adeguato di valide sostanze nutritive. E lo stesso del resto vale, sebbene in misura minore, per il bovino e il suino, in misure e per ragioni sostanzialmente diverse. Poiché il primo mangia ogni cosa, purché sia di origine vegetale, ed il secondo mangia ogni cosa, punto. Incluso, ovviamente, il fieno. Che può essere costituito, contrariamente al preconcetto generalista, da una di molte diverse specie vegetali: la già citata alfalfa (Medicago sativa L.) ma anche denti di cane (gen. Cynodon) graminacee spontanee (gen. Lolium)  trifogli (gen. Trifolium) o pestuca (gen. Pestuca) l’erba per eccellenza impiegata allo scopo di nutrire le succitate creature. Già, ma come? Poiché anticamente, la raccolta di tali sostanze risultava essere tutt’altro che semplice, comportando grande lavoro manuale con la falce e la forca, prototipici attrezzi infernali, al fine di segmentare e radunare il necessario in grandi covoni, che spesso venivano lasciati lì all’aperto. Il che era, per usare un eufemismo, tutt’altro che ideale. Poiché caratteristica universale del fieno, qualunque sia la sua provenienza, è la grande suscettibilità alle precipitazioni atmosferiche, a seguito delle quali resta letteralmente intriso d’acqua, fungendo da base accogliente per i batteri, microrganismi capaci di trasformare un ottimo pranzo per gli erbivori in vero e proprio veleno, con conseguenze fin troppo facili da immaginare. E questo, senza neppure prendere in considerazione l’ipotesi della combustione spontanea, ovvero l’ipotesi, tutt’altro che rara in passato, per cui la suddetta fermentazione alzi drasticamente la temperatura dell’ammasso d’erba tagliata, finché il raggi del sole di ritorno non formino le condizioni ideali per un improvviso, distruttivo e potenzialmente pericoloso falò.
Da che fu notato, verso la fine del XIX secolo, che l’idea migliore era compattare e spostare il tutto, mediante l’impiego di quello che a noi moderni avrebbe ricordato, piuttosto da vicino, l’aspetto di un torchio per fare il vino. Ed era un lavoro gravoso, ancor più di prima, poiché i parallelepipedi risultanti, dei veri e propri mattoni d’erba, potevano pesare tra i 25 ed i 35 Kg l’uno, che ci si aspettava il contadino sollevasse con le proprie sole forze, ancora ed ancora. Ed ora immaginate che cosa vorrebbe dire approcciarsi al problema in siffatta maniera al giorno d’oggi, in cui l’allevamento intensivo ha collocato molte centinaia di animali all’interno di singole, giganteggianti fattorie… Se non fosse che in effetti, la responsabilità di una simile situazione va attribuita principalmente all’apporto altamente funzionale della tecnologia. E nella fattispecie, delle due macchine sopracitate, chiamate in lingua inglese swather (letteralmente, creatrice di strisce d’erba tagliata) e baler. Tra cui la seconda è sicuramente quella più misteriosa…

Ruotando e camminando, riemerge il funzionamento criptico delle cose. Sarebbe folle vedere la pagliuzza nell’occhio di chi sia ha di fronte, senza ricordare anticipatamente l’importanza del pistone idraulico che c’è nel nostro.

O per meglio dire, che risulterebbe destinata ad esserlo, se non fosse per la consueta pletora internettiana di video informativi in computer graphic, generosamente offerti dalle diverse compagnie produttrici del settore. E in effetti sarebbe difficile vendere un qualcosa come questa Massey Ferguson 2800, senza prima spiegare al potenziale acquirente il suo esatto funzionamento, pena la comprensibile incredulità, di fronte all’aspetto immacolato ed impressionante del prodotto finito. La balla cilindrica, molto più grande di quella squadrata, nasce intorno agli anni ’30 del 900, attraverso il miglioramento in parallelo di diverse macchine risalenti all’inizio del secolo, tra cui spesso viene citata l’imballatrice dell’americano Charles Withington, una delle prime in grado di raccogliere in autonomia, sminuzzare e compattare l’erba scelta per la produzione del fieno. Il cui principio di funzionamento possiamo apprezzare ancora oggi, in un meccanismo che pur migliorando sensibilmente nell’affidabilità dei singoli componenti, non ha comprensibilmente mai sentito il bisogno di andare incontro a mutamenti particolarmente significativi. Come nell’esempio qui riportato, l’erba disposta nelle lunghe strisce dalla swather veniva infatti raccolta attraverso un pettine, tramite l’impiego di un rullo trasportatore, e da lì inserita nella “camera d’imballaggio” sostanzialmente nient’altro che un’intercapedine tra ulteriori nastri in continuo movimento, finalizzati a imitare il processo per cui tende a formarsi la tipica palla di neve gigante dei cartoni animati: così girando, e girando ancora, l’ammasso riceve tutta la pressione offerta da una serie di cilindri idraulici, così garantendo una solidità struttura adeguata. E nella versione moderna dell’apparato, è a quel punto che il tutto viene avvolto in una pratica rete, affinché nulla possa dividerlo, salvo l’apposito attrezzo impugnato dal contadino (detto, per l’appunto, coltello da fieno.)
Ed è un vero spettacolo, osservare da lontano simili esseri artificiali che procedono lungo i campi, divorando ed espellendo di nuovo le monadi di cibo futuro, ciascuna del peso di fino a una tonnellata. Perché colui che dovrà raccoglierle in seguito, già sa che non dovrà farlo a mano, bensì impiegando un altro macchinario, dotato di punte simili a lance, concepite per stringere e perforare la balla in corrispondenza del suo “mozzo” ideale, come si trattasse di una ruota. Ciò detto, tutt’ora esistono imballatrici capaci di costruire l’alternativa più piccola, a forma di parallelepipedo, particolarmente apprezzata dalle piccole fattorie. Per la quale uno stoccaggio adeguato diventa niente meno essenziale, vista la minore quantità d’erba presente a proteggere dall’umidità il nucleo centrale lontano dall’aria, maggiormente nutritivo per gli animali. Questo per il formarsi, in tale punto cruciale, di un naturale processo di fermentazione a secco, e quindi benefica, talvolta persino indotta tramite la prassi dell’insilatura. Ovvero il posizionamento dell’erba raccolta, e/o le relative balle, all’interno di un ambiente chiuso (per l’appunto, il silos) dove esse potranno maturare e purificarsi naturalmente dai batteri maligni, ovvero raggiungere uno stato d’idonea consumazione. Passaggio considerato praticamente necessario nel caso dei cavalli, notoriamente più vulnerabili alle infezioni di provenienza alimentare. Ma è qui, di nuovo, che giunge ad assisterci la tecnologia. Poiché cosa dovrebbe fare, idealmente, un contadino che non possiede un silo? Se non imballare nella plastica, con grande accuratezza, le sue balle più preziose, affinché queste non siano, solamente, protette dall’umidità, ma possano trasformarsi in mangime dai più alti meriti, letteralmente indistinguibile dall’insilato? Ecco quindi una terza macchina, l’ineccepibile avvolgitrice. Che tramite un movimento satellitare, accorcia notevolmente i tempi necessari all’ottenimento del risultato desiderato, nella costituzione di un vero e proprio bozzolo impenetrabile, capace di conservarsi anche un paio di stagioni. L’importante, a quel punto, sarà ricordarsi di aprire l’involucro per i propri animali al momento del pasto. Giammai una mucca, per quanto intelligente, potrebbe aprire l’equivalente sovradimensionato dell’ostico formaggino…

Arrotolamento risolutivo finalizzato alla lunga conservazione. Ma c’era davvero bisogno di usare la plastica rosa? O forse, potremmo porci l’opposta domanda: sarebbe stato in alcun modo saggio pensare a un colore diverso dal rosa?

Fluttuando come teste prive di corpo tra le intercapedini della civilizzazione urbana, ovvero facendo click su determinate regioni di Google Earth, si fa presto a rendersi conto di quanto dello spazio a nostra disposizione, tra tutte le terre emerse, sia ad oggi occupato da zone adibite alla coltivazione agricola. Quasi che per ogni acro di case, debbano essercene 10, o 15, capaci di produrre gli alimenti alla base della nostra stessa precaria sopravvivenza. E quella degli animali. “Ma il cibo io non lo coltivo, lo compro al supermercato!” Potrebbe essere una superficiale risposta, da parte di prossime, ed ancor più disinformate generazioni. Se non che il campo agricolo resta pur sempre il modulo, ed il mattone costitutivo, dell’organismo straordinariamente complesso di cui siamo nient’altro che una minima parte.
Un’irresponsabile, egomaniaca ed inconsapevole cellula. Capace d’influenzare tutto ciò che si trova attorno, grazie all’impiego di versioni sovradimensionate dei mitocondri. Esseri operativi del tutto artificiali, che non hanno una mente, ma soltanto braccia deputate all’agricoltura. E se l’avessero, ci ringrazierebbero per qualche tempo. Instillandoci un falso senso di sicurezza. Finché il primo dei Terminator non dimostrerà che non aveva mai avuto bisogno d’impugnare un fucile a pompa per fare fuori Connor e gli altri capi della resistenza umana. Tutto quello che doveva fare, per toglierci di mezzo, era smettere di lavorare.

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