Il frutto hawaiano che sembra l’esplosione di una supernova

Interpretato secondo lo schema colorato dello spettro che indica gli stati di calore, l’intero oggetto sembra rappresentare un’immagine piuttosto chiara: il nucleo bianco all’interno, circondato da uno strato rosso e giallo che corrisponde all’idrogeno incandescente. E un’involucro esterno verde, più freddo, che sembra preso nell’intento di espandersi durante gli ultimi attimi di vita di una stella. Se ci trovassimo all’interno di un planetario, nessuno avrebbe dubbi nel descrivere e commentare l’intera faccenda: “Ecco qualcuno vuole mettere, ancora una volta, in chiaro la natura inconoscibile dell’universo.” Ma adesso immaginate di vederla, una tale cosa, nel bel mezzo di una spiaggia, assieme a dozzine di altre simili, a seguito di una breve tempesta del Pacifico che le ha sospinte verso l’area del bagnasciuga. Mentre lentamente, una dopo l’altra, vengono catturate dalla risacca, per essere lanciate una dopo l’altra verso il grande nulla delle correnti oceaniche vagabonde. Raminghe come il frutto, perennemente alla ricerca di una lontana terra emersa. Dove arrivare, galleggiando, poco prima di disperdere i suoi semi. Non è forse questa, la storia di una perfetta invasione aliena? “Hala!” direbbe qualcuno, che non è un’esclamazione in lingua straniera. Bensì il nome della straordinaria composizione di fiori con la forma di un globo, prodotta dall’albero del Pandanus tectorius, un albero diffuso nell’intera area culturale polinesiana, che compare pressoché ovunque nelle isole dove si trovano Honolulu e Pearl Harbor. Il cui primo contatto da parte dei turisti, molto spesso, avviene all’aeroporto o allo sbarco della nave da crociera, quando i “nativi” gliene offrono ghirlande intere, da mettersi al collo secondo la tradizione locale del lei. Certo può sembrare strano non mangiare una tale cosa, preferendo piuttosto indossarla, quando l’aspetto complessivo del frutto in questione appare pienamente descrivibile con l’espressione “strano ma delizioso”. Ma lasciatemi dire che dopo una sola volta in cui doveste tentare di assaggiarlo, probabilmente, un simile interrogativo smetterà di albergare tra le vostre individuali considerazioni. Non tanto per il sapore (che pare non essere affatto sgradevole, tutt’altro) quanto per la difficoltà nel giungere a consumarne la (poca) effettiva polpa, il cui rapporto col materiale fibroso che la circonda è stato talvolta descritto come “Un tappeto dell’Ikea impregnato di succo d’ananas, estremamente zuccherino.”
Per questa ed altre ragioni, benché estremamente rilevante per i popoli degli atolli e le isole eternamente distanti da ogni seppur vago concetto di continente, l’intero genus dei pandani è sempre stato tenuto in massima considerazione più che altro per le infinite funzioni delle sue fibre, usate come materiale per costruire abiti, oggetti cerimoniali, opere d’arte, coperture per le abitazioni… Benché nei diversi paesi toccati da specie soltanto lontanamente connesse al frutto dello hala, diversi altri utilizzi siano stati scoperti attraverso i secoli: come nell’isola africana del Madagascar, dove il P. Utilis è alla base di una particolare farina usata nella cucina dei locali. O per gli aborigeni australiani, che usano farne una pratica torcia, prodotta con foglie arrotolate, in grado di ardere per un intera giornata permettendo di trasportare ed appiccare il fuoco laddove sia ritenuto necessario. Mentre nell’intero subcontinente indiano, ma in particolare le zone di Berhampur, Patrapur e Chikiti, piante simili a questa vengono tenute in alta considerazione e coltivate, con lo scopo di ricavarne una bevanda nota come kewra, di primaria importanza in alcuni riti votivi della religione induista. Ma in tutto il suo areale, il pandano è soprattutto famoso per le sue rinomate doti medicinali, che si ritengono capaci di alleviare le malattie da raffreddamento, la varicella, la costipazione, infiammazioni urinarie o infezioni di vario tipo. Non a caso, come proclamato in maniera altisonante dalla rivista Marie Claire, la trendsetter culinaria britannica Nigella Lawson si è fatta recentemente una grande promotrice degli estratti benefici di questo frutto, proposto al suo pubblico mediatico come “Un’alternativa al tè verde [e aggiungerei: le bacche di goji, il konjac…]” Ovvero nient’altro che l’ennesima espressione di un’antica sapienza, che può trovare applicazione nella cucina moderna in qualità del suo sapore, ma anche del principio sempre valido del “Non ci credo, eppure, male non fa.” Internet nel frattempo, con la sua naturale propensione a far circolare fotografie dall’effetto estetico dirompente, parrebbe essersi affezionata ad almeno un paio di rappresentazioni del globo bitorzoluto di questi frutti, nelle quali l’alta saturazione dei colori sembra accrescere ulteriormente il loro aspetto vagamente alieno nonché degno di un pittore surrealista. Ciò che in molti non sospettano neppure, tuttavia, è che dietro questo scenografico alimento c’è una storia evolutiva assolutamente degna di essere raccontata…

Il viaggiatore con barca a vela del canale Tropical Sailing Life ci mostra la laboriosa maniera in cui è possibile estrarre il succo dallo hala. Il suo attrezzo a manovella, vagamente simile a un tritacarne, sembrerebbe essere stato concepito (o rinconvertito) con questa esplicita finalità.

Dal punto di vista botanico, tutti i pandani sono piante dall’aspetto tozzo ed estremamente stabile, costruite dalla natura con lo scopo principale di resistere all’aria salmastra, alle onde dei marosi ed ai venti delle occasionali feroci tempeste dell’intera zona tropicale, che si abbattono sulle coste dove ne crescono le maggiori concentrazioni. Nel caso del P. tectorius siamo di fronte a un albero che raramente supera i 12 metri d’altezza, con foglie appuntite e zigrinate come coltelli, saldamente assicurato al terreno sabbioso da un sofisticato sistema di radici aeree, così regolari nella loro disposizione a raggiera da somigliare notevolmente ad una struttura costruita dall’uomo. Una sua caratteristica particolarmente riconoscibile è la maniera in cui le fronde crescono con disposizione spiraleggiante attorno ai rami, motivo per cui viene anche chiamato in lingua inglese screw pine (pino avvitato) per probabile analogia nominale con la pianta che produce l’ananas/pineapple (mela del pino) a sua volta vagamente simile a una pigna. Ma le somiglianze, ovviamente, non possono che fermarsi qui. Il tronco centrale si biforca ad un’altezza di 4-8 metri, sostenendo una chioma che può allargarsi anche per 11 complessivi, offrendo una considerevole quantità d’ombra ai bagnanti stanchi di essere cotti sotto i raggi impietosi del sole.
I pandani sono piante dioiche, il che significa che esiste una netta distinzione tra esemplari maschi e femmine, benché sia anche attestato il caso di riproduzione asessuata, producendo essenzialmente un clone, nel caso di assenza di una controparte adeguata. L’impollinazione avviene, come al solito, grazie all’opera degli insetti e degli uccelli. Le due versioni dell’albero sono essenzialmente simili, tranne che per il tipo di infiorescenza prodotta, che nel caso del maschio è una costruzione a grappolo (racemo) con numerosi peduncoli giallo paglierino circondati da grosse foglie definite bràttee. Mentre per quanto riguarda la femmina, crescono con l’aspetto di un ciuffo globulare, alla stessa maniera del già citato ananas, al fine di andare poi a costituire, uno per uno, i diversi segmenti del frutto mostrato in apertura. I quali prendono il nome, in questo caso, di chiavi, costituenti essenzialmente delle custodie indipendenti per i semi, ciascuna in grado di galleggiare autonomamente anche nel caso di mare particolarmente tempestoso. Una delle maniere più dirette per consumare il frutto consiste nello staccare una per una queste escrescenze, per succhiare la polpa che si nasconde all’interno, avendo cura di non ingerire assieme le incommestibili fibre. Un’operazione tanto complessa da aver fatto definire il frutto, in determinati ambienti geografici, come un cibo adatto unicamente a chi sta per morire di fame. Benché detto succo, se adeguatamente preparato, vanti un sapore gradevole che è stato talvolta paragonato a quello del mango. Se lasciato a terra sotto la luce piena una volta staccatosi dalla pianta, invece, il frutto hala marcisce ben presto, trasformandosi in una poltiglia maleodorante che macchia e rovina i selciati. Motivo per cui, generalmente, la pianta non è considerata particolarmente adatta all’uso nei giardini, nonostante il suo aspetto certamente caratteristico ed affascinante.

Un’isolano produce intaglia accuratamente le chiavi di pandano per produrre una piccola ghirlanda del tipo indossato in testa, come una tiara. Gli impieghi artigianali di queste piante sono pressoché infiniti.

Per quanto concerne la loro posizione nel sistema ecologico odierno, purtroppo molti dei pandani di questo pianeta sono minacciati su più fronti: un prolifico e imponente insetto stecco, il Megacrania batesii, ha acquisito nei secoli la capacità di vivere nutrendosi esclusivamente delle loro foglie, comparendo pressoché ovunque sia presente una pianta simile al nostro beneamato screw pine. Tanto che nei casi d’infestazioni più significative, il declino delle macchie vegetative può essere facilmente misurato di anno in anno. Numerosi sono inoltre gli agenti patogeni, i parassiti e gli animali erbivori introdotti che ne fanno scempio pressoché quotidiano, con conseguenze a lungo termine facile da immaginare. Il fatto che i pandani crescano poi molto spesso sulle coste delle isole tropicali, terreni particolarmente preziosi per lo sviluppo del turismo, ha visto ridurre notevolmente lo spazio disponibile per la loro propagazione, con il risultato di far inserire la pianta nell’indice delle specie a rischio dello IUCN, benché i dati relativi al suo censimento restino, ad oggi, largamente indeterminati.
Un futuro tristemente incerto, dunque, è quello che attende la pianta considerata, per lungo tempo, come l’altro cocco, tale era la sua importanza nell’artigianato, nell’ingegneria e nell’arte polinesiana. Benché la sua valenza nutritiva, il più delle volte, finisse per rivelarsi trascurabile (o quanto meno, difficile da valorizzare. Questo è in fondo il destino di tutte le specie appartenenti ai due regni biologici, animale e vegetale: non scomparire in un lampo apocalittico in grado di spazzare interi sistemi solari, come le stelle che hanno esaurito il carburante per la fusione che gli arreca sostentamento. Bensì un quieto sussurro, sospinto innanzi da un’onda d’infinita malinconia. Potranno ancora, le prossime generazioni, assaporare il gusto del più dolce tappeto di fibre vegetali mai prodotto dalla natura? Ci preoccuperemo mai, noi stessi, di assaggiarlo almeno una volta prima del giorno stesso della fine? (Sua, nostra, di tutto il pianeta.) Prima di azzardare una risposta a simili domande, dovremmo riconsiderare il nostro ruolo all’interno del complesso sistema della natura. E mettere in prospettiva l’oggi, lo ieri e il domani. Mentre osserviamo la tempesta che avanza, sulla candida spiaggia ai confini del mare.

Due artiste aborigene australiane, Freda Ali Wayartja e Doreen Jinggarrabarra, mostrano cosa sia possibile produrre in un contesto moderno con le fibre di pandano. Le loro ceste, gli abiti e i pesci, mantengono la stessa carica espressiva che indubbiamente, dovevano aver posseduto un migliaio di anni fa.

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