Una piramide modernista nella capitale del Venezuela

Incredibile, svettante, spropositata. Grandiosa è la tomba del faraone, poiché essa commemora le spoglie terrene del dio vivente, il cui spirito non svanisce come quello dei comuni esseri umani, ma si perpetra e rafforza, attraverso le generazioni. Eppure, che cosa è successo all’ultima di tali costruzioni, impossibile da completare prima che il regime finisse, e in assenza di un potere centrale, soprasseduta da più semplici priorità mondane? Ciò che è stato costruito, anche se soltanto a metà, non può essere de-costruito, ma soltanto demolito, un’operazione a sua volta complessa, costosa, talvolta sconveniente. Le vestigia restano mentre il futuro avanza, le corrobora e diventa l’oggi. Per poi dissolversi nel vento del passato. Monumenti di un ottimismo ormai perduto; luoghi come El Helicoide, l’Elica d’asfalto e cemento, il più riconoscibile edificio di Caracas in Venezuela, ciononostante tutt’oggi, per lo più sconosciuto dall’estero. Le ragioni sono molteplici, ma la prima resta quella più rilevante: brutti, bruttissimi ricordi. E un ancor più triste utilizzo nei nostri giorni. E dire che tutto era iniziato, nel 1956, con i propositi migliori: costruire un nuovo tipo di centro commerciale. Qualcosa che il mondo non aveva mai visto e che ben presto, sarebbe stato l’invidia dell’intero continente americano. Un luogo di sogni e opulenza, con albergo, sala conferenze, auditorium, luogo d’esposizione ed oltre 340 negozi, sormontato da una cupola geodetica ispirata alle opere dell’inventore Buckminster Fuller, mentre l’estetica delle mura era infusa di un gusto riconducibile a Frank Lloyd Wright. Grazie all’opera dell’architetto venezuelano Jorge Romero Gutiérrez, che in questo modo pensava di scrivere una nuova pagina della storia del movimento Modernista. E ci arrivò, oh! Così vicino. Se non che, al momento di ultimare l’ultima colata di cemento e passare all’allaccio dei servizi di acqua e luce, nel 1958, il faraone venne cacciato via. E con esso, chiunque desiderasse portare a compimento le opere che lui stesso aveva sognato.
Il supremo vertice del potere costituito nelle mani di una singola persona, come la sommità di una struttura a gradoni svettante verso il cielo, percorsa da un numero di automobili che non avrebbe mai avuto fine. È davvero questa la natura della società umana? Il popolo che sostiene i funzionari, e sopra di essi la polizia segreta. Che a sua volta, sorregge Costui. Nella fattispecie del momento storico preso in esame, Marcos Pérez Jiménez, generale dell’Esercito del Venezuela e Ministro della Difesa, in grado di salire sul Trono di Spade al termine di un colpo di stato sul finire della seconda guerra mondiale. E da allora, governare con pugno affilato, scacciando gli oppositori, finché nel ’58, dallo stesso popolo disagiato dei barrios, assistito soltanto in parte dai militari, iniziò l’ennesima Rivoluzione. Il problema di El Helicoide non era tanto il fatto di trarre le sue risorse dal potere costituito: si trattava anzi, tranne che per minime sovvenzioni, di un’impresa privata, finanziata in anticipo con l’acquisto degli spazi espositivi da parte dei futuri negozianti ed espositori. Ma è indubbio che ci furono circostanze sconvenienti. In primo luogo, lo stile comunicativo vagamente patriottico del materiale di marketing prodotto a sostegno del progetto, che imitava, e per certi versi si appoggiava, alla propaganda di regime. Al punto che, nell’immaginario comune, l’oggetto spropositato che aveva sostituito la familiare vista della Roca Tarpeya, rupe pietrosa nel centro di Caracas, rimaneva indissolubilmente associato al despota ormai spedito in esilio in Brasile. Lo stesso architetto Gutiérrez, nel frattempo, avrebbe iniziato a chiamare il progetto come affetto da una maldición, forse dovuto al luogo stesso della sua costruzione, il cui nome riprendeva direttamente quello della rupe Tarpea di Roma, da cui al tempo della Repubblica venivano gettati i condannati a morte che si rifiutavano di prestare testimonianza. Ma forse è sbagliato parlare di edificio costruito SOPRA la rupe. Poiché essa faceva in effetti parte della rupe STESSA.

Nei primi anni, l’Elica rappresentava la speranza per un domani migliore, l’opera oggettivista dei grandi investitori, che usavano il denaro per cambiare le radici stesse del processo di evoluzione sociale. Non per niente, lo stesso Rockfeller tentò di acquistare l’impresa, priama che il tutto finisse in malora verso il principio degli anni ’60.

La componente innovativa principale, nonché l’aspetto più intrigante del futuro primo centro commerciale venezuelano, era effettivamente proprio questa sua grandezza, in realtà nient’altro che un’illusione. La prima parte dei lavori consistettero, infatti, nel fare a fette la Roca, trasformandola in una letterale piramide a gradoni. Che fu quindi completamente ricoperta da una doppia spirale d’asfalto (da cui il nome, Helicoide) integralmente percorribile con l’automobile. Così che, i futuri clienti avrebbero potuto parcheggiare proprio dinnanzi al negozio di loro interesse, per poi spostarsi all’interno del centro impiegando degli speciali ascensori in grado di muoversi in diagonale. L’edificio costituiva, dunque, un qualcosa di straordinariamente al passo coi tempi, ma al tempo stesso l’anticipo di un futuro che non sarebbe mai arrivato. L’assoluta passione per il mezzo a motore, al culmine nel ventennio della Rinascita Economica, questo veicolo che potenziava i sogni dell’uomo. Ben presto soprasseduta da nuove considerazioni di tipo ambientale ed economico, tra cui le numerose crisi petrolifere della seconda metà dello scorso secolo, che minacciavano di destabilizzare ulteriormente, tra le altre, la situazione sociale venezuelana. La successiva crisi della valuta nazionale, il Bolívar, prevedibilmente non aiutò. Fu così che nel 1960, senza nessuna esitazione, il nuovo stato al comando di Edgar Sanabria prima, Rómulo Betancourt dopo, tolse il suo patrocinio finanziario al sogno di Gutiérrez, mentre alcuni degli investitori più importanti, facendo seguito a ciò, decisero di ritirarsi. La nave, volendo usare una metafora, era ormai naufragata.
La situazione fu subito priva di speranze: la società costruttrice fece inutilmente causa al governo, mentre tutti coloro che avevano già pagato per il proprio negozio, istituendo una class action de facto, fecero a loro volta causa alla società. Nel frattempo, gradualmente, i barrios continuavano a crescere attorno a El Helicoide, finendo per affiancarlo con l’alveare di case improvvisate, il meglio che il popolo delle persone comune potesse permettersi in quegli anni di magra, scivolato in un baratro da cui tutt’ora, il paese sta cercando di risalire. Quando nel 1979, quindi, 500 famiglie restarono vittime di una frana fangosa nella periferia di Caracas, la soluzione fu semplice e immediata: offrirgli, come luogo di riparo, le auguste sale del decaduto simbolo nazionale, trasformato per l’occasione in un luogo in cui vivere temporaneamente. Centinaia, poi migliaia di altri li seguirono, semplicemente perché privi di un tetto fin da prima dell’episodio. Le condizioni erano decisamente spiacevoli: senza acqua, senza luce, stipati in uno spazio che non risultava in alcun modo sufficiente alla quantità di persone coinvolte, neppure a seguito dell’aggiunta di una serie di container sul doppio viale d’accesso. Eppure, al termine dell’emergenza istituzionalizzata, non vollero andare via. L’Elica diventò in quegli anni un concentrato di efferatezza, una vera rocca della malavita su più livelli, con spaccio di droga, prostituzione e gioco d’azzardo illegale. Entro l’inizio degli anni ’80, si stima che al suo interno vivessero circa 10.000 persone, prima che il governo venezuelano istituisse un’azione di sgombero che a quanto si narra, fu sorprendentemente pacifica. O forse, questo è ciò che venne annotato sui libri di storia, indipendentemente dall’effettivo svolgersi degli eventi.

Nella piantina della viabilità di El Helicoide s’intravedono le ragioni del suo genio. Le automobili avrebbero circolato dal punto d’ingresso fino alla sommità in un percorso obbligato, che gli avrebbe permesso di osservare ogni singola vetrina. Quindi, discendendo in senso contrario, avrebbero avuto tutto il tempo di meditare se era effettivamente il caso di fermarsi a comprare qualcosa. – Via

Nel 1982, il progetto di riqualificazione per il centro incompleto, sostenuto dal governo del presidente Luis Herrera Campins, consisteva nella costituzione di un Museo della Storia e dell’Antropologia, che avrebbe avuto la sua sede sotto la cupola geodetica che sormontava l’edificio. Mentre nel 1985, con la successione presidenziale a vantaggio di Jaime Lusinchi, si preferì usare quel particolare spazio per una centrale di polizia politica del governo, mentre i livelli inferiori venivano trasformati in carcere cittadino. Iniziano quindi gli anni più oscuri dell’Elica, trasformata nelle parole della studiosa d’urbanistica e storica Celeste Olalquiaga, nell’unica “rovina vivente” della città di Caracas. Rimasto completamente vuoto nei livelli centrali, che caddero progressivamente in uno stato di usura irrecuperabile, la struttura piacque tuttavia da subito ai funzionari dell’ordine costituito, che potevano guidare e parcheggiare direttamente a ridosso dei propri uffici. Nel frattempo, voci preoccupanti sulle condizioni dei prigionieri detenuti in circostanze legali sospette presero a circolare sulla scena internazionale, con la stessa Amnesty che arrivò ad iscrivere El Helicoide nell’elenco delle strutture in cui si perpetuava la violazione dei diritti fondamentali dell’uomo. Una denominazione la quale ancora tutt’oggi, purtroppo, si trova indissolubilmente associata all’ormai misterioso edificio.
Le ipotesi di riqualificazione tuttavia non mancano: spesso paragonato al celebre caso della Tower of David, il grattacielo abbandonato e poi occupato abusivamente dai senzatetto della città di Caracas, il centro commerciale è osservato con interesse dagli architetti e sognatori dell’epoca contemporanea, che vorrebbero farne, a seconda dei casi, un centro culturale, un luogo d’incontro, un placido alveare abitativo. La stessa Olalquiaga, con la pubblicazione del libro El Helicoide: From Mall to Prison e la creazione dell’omonima mostra itinerante, presente fino allo scorso luglio nell’Istituto dell’AIA (Architetti Americani) a New York, ha fatto della sua missione di vita una presa di coscienza collettiva della ricchezza potenziale di una simile struttura, così rappresentativa di un’epoca ormai trascorsa ma mai, giustamente, dimenticata.
All’epoca della sua progettazione, del resto, Salvador Dalì si era offerto di decorarne le sale. Mentre il poeta Pablo Neruda l’aveva definito pubblicamente: “La struttura più bella mai creata dalla mente di un architetto.” Non sono questi elogi di figure che il trascorrere degli anni, o il disuso, possano trascinare via. Come granelli nella tempesta di sabbia che da sempre, nell’immaginario mitologico, accompagna la dipartita dell’ultimo faraone.

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