L’arma che rivoluziona le regole della guerra navale


A dire il vero non ce l’eravamo aspettata così. Enorme, in primo luogo, e poi terribilmente rumorosa: la semi-mitica railgun, arma molto amata dai film di fantascienza e che spesso capitava in mano degli eroi e dei cattivi del cinema degli anni ’80 e ’90. Per non parlare dei videogiochi. Uno strumento che si riteneva configurato, forse per un’insensata analogia con il laser, sull’assoluta silenziosità e precisione, in grado di penetrare una parete di cemento neanche fosse un sottile foglio di carta. Senza neppure un sussurro. Eppure lo spaventoso apparato, messo alla prova in questo video durante un recente test al poligono di Dahlgren in Virginia, a una distanza risibile dal Pentagono, tutto sembra tranne che il bisturi di un chirurgo. Sopratutto nella sua nuova, rivoluzionaria configurazione, in cui può fare fuoco più volte al minuto. Qualcosa di inimmaginabile, fino a poco tempo fa, proprio perché la velocità in fase d’accelerazione del proiettile (in grado di raggiungere i 2000–3500 m/s) tendeva a disintegrare il meccanismo di fuoco e la canna stessa. Per non parlare di un altro “piccolo” problema: la quantità di energia elettrica necessaria a sparare. Perché… Beh, lasciatemelo dire: affinché la luminosa scintilla degli elettroni possa sostituire completamente l’impiego di qualsivoglia esplosivo o polvere nera, state certi che vi servirà un condensatore bello grosso. E conseguentemente, una fonte pressoché inesauribile per caricarlo. È per questo che nel suo programma d’impiego sull’immediato futuro, la marina sta guardando verso le sue navi a propulsione nucleare, con la sola eccezione dei nuovi incrociatori di classe Zumwalt (vedi precedente articolo). Che sono stati, effettivamente, costruiti attorno ad un enorme generatore. Le possibili ripercussioni sull’aspetto di una futura battaglia in alto mare, che possiamo soltanto sperare rimanga ipotetica, sono tuttavia difficili da sottovalutare.
In origine era il cannone. Non sto certamente parlando degli albori dei conflitti marittimi, quando tutto quello che i marinai avevano erano arco e frecce, il loro coraggio, un coltello tra i denti durante il pericoloso balzo oltre la murata dell’imbarcazione nemica. Bensì dell’epoca dei brigantini e dei galeoni, quando un capitano per mare iniziò a rappresentare, in tempo di guerra, la potenza bellica della sua nazione. Isole mobili, pezzi di suolo sovrano, cagnacci sputafuoco all’ombra di vele e bandiere, che all’ordine di qualcuno potevano rilasciare una grandine di ferro sopra il legno nemico, sperando di sforacchiarlo per bene. Con l’evolversi tecnologico dei presupposti d’ingaggio, quindi, la guerra è cambiata. Non poi da tantissimo tempo: si può ragionevolmente affermare, in effetti, che ancora all’epoca della seconda guerra mondiale il principale mezzo d’autodifesa di una nave da battaglia fosse il semplice tubo a retrocarica, in grado di scaraventare un oggetto (potenzialmente esplosivo) all’indirizzo di un bersaglio distante. Ma già allora, con l’invenzione dei missili e l’impiego più ampio delle portaerei verso l’ultimo capitolo del conflitto, le vecchie corazzate stavano perdendo la loro funzione primaria in un gruppo da battaglia. La curva del potenziale distruttivo trasportabile, persino da un piccolo incrociatore o un mezzo volante, stava raggiungendo vertici tali che non c’era più nulla a cui potessero servire, effettivamente, la stazza e la durevolezza di un gigantesco battello. Fu pressoché allora, quindi, che le navi da ingaggio prolungato iniziarono a dar spazio maggiore alle contromisure di bordo, piuttosto che i metodi per far rimpiangere al nemico di essere nato. Allo stato corrente delle cose e prendendo in analisi il contesto operativo statunitense, benché una moderna capital ship trasporti almeno un’arma a lungo raggio o due, i suoi ufficiali d’artiglieria hanno principalmente il compito di mantenere in condizioni ottimali sistemi come il Phalanx CIWS, la cui principale mansione è sviluppare un volume di fuoco sufficiente ad abbattere un missile nemico in volo. Non che tutto questo, nella mente degli ammiragli e dei capi di stato maggiore, sia considerato uno stato ideale delle cose. Intanto per il costo necessario a impiegare un sistema d’arma a lungo raggio come il missile Tomahawk (costo unitario 1,84 milioni di dollari) e poi per l’annosa questione, tradizionalmente invisa ai capitani di mare, di trasportare a bordo tonnellate e tonnellate di esplosivo, pronto a saltare in aria nel caso di un colpo fortunato del nemico. Immaginate ora se soltanto ci fosse un sistema per lanciare una semplice sbarra di metallo appuntita (generalmente si tratta di tungsteno) a distanza di 30 miglia nautiche, con una potenza cinetica tale da scardinare qualsiasi corazza in grado di galleggiare. O direzionare tale lo stesso proiettile contro un missile nemico in arrivo, a una velocità di sei volte quella del suono. Non fareste anche voi di tutto, per poter disporre di un simile potenziale d’arma?

Un ufficiale facente parte probabilmente dell’Office of Naval Research (ONR) mostra durante un documentario l’aspetto del proiettile della railgun. La sua natura evidentemente low-tech, senza alcun sistema di guida o testata esplosiva, contribuisce a renderlo stranamente inquietante.

Dal punto di vista concettuale, una railgun non è altro che un’applicazione del concetto di motore omopolare, in cui una sbarra metallica o “rotaia” (da cui il nome inglese del cannone) viene fatta percorrere da un impulso elettrico estremamente potente, mentre si trova collegata ad una seconda rotaia parallela, ma soltanto tramite l’impiego di un componente mobile che prende il nome di armature. Con il risultato che l’alta tensione, tendendo come è sua natura a formare un circuito chiuso, finisce per percorrere la struttura in andata e ritorno, generando conseguentemente un doppio campo magnetico che s’interseca in corrispondenza dell’armature. *Importante: non ci sono componenti permanentemente magnetizzati in una railgun, caso in cui si parla, piuttosto, di una coilgun o cannone di Gauss. Ciò che avviene, a questo punto, è la generazione di un possente forza cosiddetta di Lorentz, dal nome del fisico olandese che per primo la teorizzò, per cui il potenziale magnetico concentrato su un oggetto finisce per generare immancabilmente una spinta di qualche tipo. La direzione della stessa, in effetti non ha alcuna importanza, così come non ce l’ha quando si fa esplodere della polvere da sparo all’interno della canna di un fucile: l’unica via verso cui potrà spostarsi l’armature è in avanti. E con estrema intensità, inizierà a farlo. Un’intensità tale da trasformare l’aria stessa in plasma, generando calore in grado di fondere il metallo ed il botto clamoroso udibile durante l’impiego del cannone di Dahlgren. Ora tale componente, diversamente da quanto avverrebbe in un motore omopolare, non è fissato ad alcun tipo di albero di trasmissione o altro meccanismo, bensì lasciato libero di scaturire dalla bocca di fuoco. E soprattutto, dopo una certa quantità di metri, è concepito per aprirsi come il sabot (pantofola) dei migliori proiettili perforanti da carro armato, lasciando libero di proseguire il suo carico speciale: una freccia nera ed affusolata, carica di un’energia cinetica che può raggiungere i 50 Mega Joule (nelle parole di Wikipedia: come uno scuolabus da 5 tonnellate lanciato a 509 Km/h. Bambini, allacciatevi le cinture!)
I primi esperimenti con un cannone elettrico furono effettuati già nel 1918, dall’inventore francese Louis Octave Fauchon-Villeplee, con un sistema in cui due blindosbarre (o condotti sbarra) erano collegati direttamente alle ali di un proiettile aerodinamico. A parte la costruzione di un prototipo, tuttavia, tale approccio non trovò mai un impiego effettivo. Durante la seconda guerra mondiale, la Luftwaffe tedesca tentò di applicare un principio simile alla costruzione di un nuovo cannone antiaereo, ma l’andamento del fronte di battaglia attorno alla fine del 1944 pose fine prematuramente al progetto, rimandandone ulteriormente l’impiego. Del resto, difficilmente i condensatori disponibili all’epoca avrebbero potuto contenere un’energia sufficiente a lanciare il proiettile molto lontano. La prima realizzazione di una railgun effettivamente funzionante si ha quindi nel 1950, ad opera del fisico australiano Sir Mark Oliphant, costruttore dell’allora più grande generatore omopolare dell’intera storia umana. Che fu quindi, ad un certo punto, trasformato in un cannone ma soltanto come parte di un esperimento scientifico, senza propositi diretti di farne un impiego in guerra. O almeno, questa è la storia ufficiale. L’effettivo interesse della marina statunitense per l’impiego della railgun ha inizio attorno all’anno 2000, con un progetto che ricevette ben presto il motto di Velocitas Eradico – la velocità uccide.

La Divisione della Guerra di Superficie Navale di Dahlgren sembra avere una giustificata passione per i video a effetto, con la colonna sonora ispirata a quella dei film dei Pirati della Disney. Vista la finalità della loro attività di ricerca, chi può davvero biasimarli…

Dopo i primi esperimenti, l’ente preposto dell’Office of Naval Research si rese ben presto conto che l’effettivo test in mare di simili apparati comportava costi e difficoltà logistiche assolutamente controproducenti, e fu dunque attorno al 2003 che il vecchio poligono di Dahlgren, sito ad appena 100 Km a sud della capitale di Washington, fu impiegato per allestire una serie di dimensioni sempre maggiori dell’auspicato cannone, al fine di trasformarlo in qualcosa che le navi americane potessero effettivamente impiegare in battaglia. L’ultimo sviluppo, mostrato nel video di apertura realizzato lo scorso luglio, è relativo all’implementazione di un sistema di carica automatico per il fuoco sostenuto. Il cui impiego, presumibilmente, causerà la letterale erosione della canna e delle rotaie nel giro di un tempo piuttosto breve. Ma ciò non dovrebbe costituire un grandissimo problema: ciò perché non c’è niente, a parte il generatore, di particolarmente avanzato all’interno di una railgun. Stiamo parlando di nient’altro che sbarre metalliche, che proiettano un altro pezzo di metallo all’indirizzo del bersaglio selezionato. Tutti componenti facilmente sostituibili senza bisogno di fare scalo presso una base di rifornimento, previa implementazione del giusto metodo di design. Ed è proprio questo, in ultima analisi, l’aspetto più affascinante del cannone a rotaia: una drastica riduzione dei costi relativi agli ingaggi navali. Qualcosa che oggi, sopratutto, potrebbe arrecare grandi vantaggi alle operazioni strategiche di un paese come gli Stati Uniti, che potrebbero ben presto tornare ad essere impegnati su vari fronti nel caso del realizzarsi di un pessimo futuro.
La guerra dopotutto esiste, e le navi ne sono una parte assai significativa. Se c’è la possibilità, in futuro, di modificarne la portata e l’importanza all’interno di un conflitto, queste dovrebbero essere esplorate fino in fondo. Chi può realmente dire quando la freccia nera di tungsteno scagliata dalla rotaia elettrificata possa, un giorno, servire a fermare un missile nucleare in volo.

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