L’occhio mai sopito che sorveglia l’aeroporto della capitale olandese

Amsterdam costituisce, come un certo numero di particolari città del mondo e molto più di altre, un luogo in cui l’opera dell’uomo interagisce con il netto confine tra la terra ed il mare, punto di trasformazione paesaggistico dove in altri luoghi, tempi e circostanze, sarebbe stata la natura a fare da padrona. Per cui un punto di vista privilegiato risulta essere, imprescindibilmente, la traiettoria discendente adottata dagli aerei intenti ad atterrare presso l’aeroporto di Schiphol, da cui ogni aspetto derivante da una simile compenetrazione di circostanze appare immediatamente chiaro per colui che scruta, disegnando l’alfa e l’omega del più caratteristico e importante degli antichi limiti cittadini. Immutato nel trascorrere dei secoli, fatta eccezione per alcuni piccoli dettagli, vedi la perfetta forma circolare dal diametro di un chilometro, situato nella parte più interna dell’esteso lago artificiale IJsselmeer, attraverso cui convoglia le sue acque una delle più antiche vie navigabili della regione. Come il punto esatto dell’impatto di un piccolo meteorite, fatto di tungsteno o altro metallo penetrante, che avendo transitato oltre gli strati superiori della crosta terrestre avrebbe potuto proseguire fino alle profondità geologiche, per dissipare in lunghi secoli il calore contenuto nella sua immutata essenza. Se non che l’estrema improbabilità di tale spiegazione, assieme all’assenza di prove scientifiche di una tale inusitata contingenza, costituisce il primo indizio di quale possa essere l’effettiva origine di un tale elemento: l’intenzionale costruzione al fine di risolvere un problema, che poi costituisce la ragione della stragrande maggioranza di quello che facciamo, costruiamo, lasciamo alla posterità in attesa di crearsi un ruolo nella Terra plasmata nell’immagine del nostro pensiero. Si usa dire d’altra parte soprattutto online che ogni volta che il mare minacci di formare uno tsunami, maremoto o altro potenzialmente disastroso sommovimento, la brava gente dei Paesi Bassi apra ed alzi le sue mani, pronunciando in coro il sincopato e duro ammonimento: “Non stavolta!” (Vade retro). Ma le logiche di un’isolotto tondo artificiale sono chiaramente assai specifiche e diverse da quanto saremmo inclini a dare per scontato, il che costituisce l’essenziale logica e il significato più profondo dell’IJsseloog.
Interessante gioco di parole, quest’ultimo, laddove l’iniziale col digramma IJ, considerato una singola lettera dell’alfabeto olandese, viene usato per formare il suono proto-indoeuropeo *eis-, che vuol dire “veloce”. Subito seguito dal morfema Oog, significante sia “isola” che “occhio” nel più moderno vocabolario dei parlanti locali. L’occhio del IJssel, piccolo effluente del Reno noto già dall’epoca degli antichi Romani per la rapidità della sua corrente ed i conseguenti meriti ai fini dello sfruttamento idrico e industriale, è stato costruito dunque tra il 1966 e il 1999, nella tipica maniera usata da queste parti: l’accumulo consequenziale di una grande quantità di terra trasportata dalle chiatte adibite a tale mansione, poi depositato sulla base di un piano ingegneristico particolarmente preciso. Prima di procedere a ricoprire il fondo della coppa risultante da un’impenetrabile strato di argilla, e gli argini con lamine metalliche giranti tutto attorno all’imboccatura. Questo perché dentro l’occhio è accumulato un tipo particolarmente spiacevole e insidioso di veleno, affine al tipico concetto mitologico di un “antico male”. Che mai dovrà esser liberato dai confini dell’Anello, pena la rovina fisica e ambientale dell’intero lago circostante…

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La cerulea, circolare arte delle targhe commemorative sui palazzi d’Inghilterra

Come un macigno posto lungo il corso di un grande fiume, la memoria dell’uomo viene erosa dallo scorrere insistente delle decadi ed i secoli trascorsi, diventando progressivamente meno nitida ed approfondita nei dettagli delle vite trascorse. Intere vicende di persone che hanno frequentato i sentieri alterni della vita, lasciando impressa una testimonianza pratica dei loro trascorsi tra le moltitudini presenti e future: artisti, filosofi, uomini politici e simili membri di una società indivisa, in cui ci è sempre apparso come invito implicito ed inevitabile, la diretta associazione tra le loro gesta e i luoghi in cui hanno trascorso i loro giorni tra le schiere dei viventi. Dal che le innumerevoli testimonianze architettoniche, intese come iscrizioni, epigrafi ed epitaffi, riportati non soltanto lungo i viali ombrosi dei cimiteri, bensì innanzi agli occhi della principale concentrazione di persone, il tentacolare ambiente cittadino coi suoi plurimi e continui cambiamenti. Di muri, ed invero interi edifici, continuamente demoliti e sostituiti con altre di maggiore solidità strutturale, fatto salvo che la loro svettante presenza sia stata in qualche modo coinvolta nel complicato avvicendarsi di cause ed effetti che siamo abituati a definire Storia. Già, ma come distinguere questi ultimi dalle moltissime alternative, esteriormente identiche, che formano l’urbano labirinto delle circostanze? È qui che entra in gioco, per lo meno in un contesto geograficamente britannico, l’idea e l’intraprendenza del politico di fazione liberale William Ewart (1798-1869) che esattamente sei anni prima della sua dipartita ebbe l’idea d’istituzionalizzare, ed in qualche modo rendere immortale e imprescindibile, la sopra descritta tendenza totalmente implicita nella conservazione della labile memoria collettiva degli eventi. In senso lato, nulla di nuovo, eppur condotto con un’uniformità di metodologie ed intenti tali da essere effettivamente privo di precedenti. Tramite il coinvolgimento iniziale della Royal Society of Arts (RSA) per la creazione di una serie di targhe murarie riportanti il nome, qualifica e durata della vita di una certa serie d’insigni personaggi, da affiggere presso le case dove avevano vissuto la propria giovinezza, o altri luoghi ove avevano trascorso periodi particolarmente influenti della loro carriera. A partire dalla prima, in seguito andata perduta a causa di una demolizione poco accorta nel 1889, dedicata al poeta Lord Byron nel luogo della propria nascita 24 Holles Street, Cavendish Square. La più antica ancora esistente, atipicamente eretta quando il suo soggetto era ancora in vita, è invece quella del politico Napoleone III a King Street, St. James, nella residenza che si dice lasciò in tutta fretta nel momento in cui ricevette la notizia dell’abdicazione del re Louis-Philippe nel 1848. Questi primi segnali istituzionali, dunque, avevano alcune caratteristiche destinate a restare inscindibili dal concetto stesso del loro ambito, tra cui la forma perfettamente circolare plasmata da una mattonella encaustica, ovvero colorata senza l’uso di vernici bensì mediante l’impiego di diverse tipologie di ceramiche cotte allo stesso tempo. Negli anni successivi e mentre le targhe prodotte aumentavano vertiginosamente di numero, tuttavia, numerose variazioni sul tema sarebbero state sperimentate, con l’idea del tutto comprensibile di contenere i costi di produzione…

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Lo stadio dove i treni arrivano sempre in tempo per il calcio di rigore

Al 78° minuto il centravanti del TJ Tatran, dribblando sulla parte sinistra del campo, si avvicinava minacciosamente alla porta della squadra che giocava fuori casa. Avendo faticosamente oltrepassato la ferrea difesa dei vorkunesi, per quella che doveva essere al massimo la terza… O quarta volta dall’inizio della partita, egli sapeva che questa poteva benissimo essere l’ultima occasione di riportare il match in pareggio, evitando una sconfitta che i ragazzi gli avrebbero rinfacciato questa sera al bar del club e per molte altre occasioni a venire. Mentre il portiere avversario seguiva pedissequamente ogni suo movimento, il suo ultimo terzino rimasto sulla strada del Cannone di Balog si preparò a intromettere il suo corpo lungo l’ipotetica traiettoria del pallone, flettendo le ginocchia per il salto poderoso della tipica strategia difensiva detta “alla Slovacca”. Così il leggendario pezzo d’artiglieria umano, valutando i pro e i contro, prese un’improvvisa decisione: avrebbe passato la torcia dell’onore al suo affidabile centrocampista, con un traversone calibrato attentamente per cadere qualche metro all’area di rigore della porta nemica. Vibrato il colpo, la parabola iniziò a salire e in base a una triangolazione per lo più acclarata, lo stesso fecero le grida emozionate di un pubblico di tifosi magari numericamente ridotto, eppur tanto eccezionalmente affiatato. Giusto mentre il piede del centrocampista stava per deviare l’energia notevole del colpo nello specchio dell’obiettivo, il fischio dell’arbitro riempì improvvisamente l’aria calda del pomeriggio. Era… Fallo? Fuorigioco? Cosa diamine stava succedendo? Molti dei presenti, s’immobilizzarono immediatamente. Un secondo suono sibilante, molto più forte, risuonò da oltre il cancello principale del campo di gioco. Che come in un film di Harry Potter, si spalancò in maniera del tutto automatica, lasciando che la grande bestia stagliasse il suo profilo di metallo contro l’erba verde delle meritate speranze (di vittoria). Accidenti, un treno a vapore! Serpeggiò il pensiero tra i presenti, in un raro caso di sincronicità perfettamente coordinata, mentre il colpo vibrato dal giocatore del TJ Tatran, più che vagamente perplesso dall’estemporanea contingenza, finiva per scagliare il pallone a perdersi nella nube di fumo bianco generato dal fiabesco convoglio della Čiernohronská železnica, giunto sulla scena in un momento particolarmente inappropriato. Rimbalzando contro la caldaia ferrosa della locomotiva, tuttavia, il pallone sembrò essere guidato dalla mano di un qualche tipo di Essere Supremo. Quando rimbalzando ad esattamente 45 gradi, ritornò verso il centro dell’area di gioco e saettando fulmineo sopra il suolo, impostò la straordinaria traiettoria necessaria per passare in mezzo alle gambe semi-aperte del portiere vorkunese. Ogni voce tacque, in un momento destinato a rimanere ben cristallizzato nella mente e gli occhi dei presenti.
Verso l’epoca dei pionieri americani, quando gli ampi spazi di un remoto continente parevano una letterale sfida al manifesto desiderio di conquista dell’uomo, sussisteva largamente la diffusa convinzione che il passaggio del treno fosse un momento ritualistico in grado di trasformare interamente il significato e il senso di un’intera vallata. “Se ci faccio passare i binari, diventa mio” pensavano tra se e se i facoltosi industriali del XVIII e XIX, mentre utilizzavano a tal fine luoghi incontaminati, riserve naturali, tradizionali villaggi indiani. Rocce preistoriche venivano tranquillamente traforate, con tutto l’entusiasmo di moderni saccheggiatori longobardi o le orde mongole di Cinggis Khan. E che dire, invece, del caso diametralmente opposto? Quello vissuto, ad esempio, da un piccolo paese della regione di Veporské vrchy, nel bel mezzo dei Monti Metalliferi (Rudohorie) dove alla chiusura di uno snodo ferroviario, la brava gente del popolo pensò bene di riutilizzare un punto di transito dell’antica strada ferrata al fine di giocare le proprie partite di calcio. Finché la caduta di un regime, e l’inizio dell’epoca contemporanea, non portò a un’assoluta marcia indietro sull’originale idea di partenza…

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La rustica possenza del chukudu, scooter muscolare al servizio dell’economia del Congo

Chi ha mai detto, o anche soltanto pensato che ricostruire i crismi della società contemporanea sarebbe stato semplice, dopo il trascorrere di quel momento esiziale che segnerà la fine di ogni cosa? Dopo i conflitti armati, l’auto-annientamento, la catastrofe ambientale seguita da miseria e disordini civili per almeno due, quattro generazioni condannate a vivere di sforzi quotidiani e privazioni pressoché costanti. Così come sperimentato largamente dall’incolpevole popolazione di Goma, città di medie dimensioni sul confine orientale della Repubblica Democratica del Congo, la cui storia contemporanea è stata un susseguirsi di momenti poco conduttivi ai risvolti edificanti dell’esistenza: prima il genocidio rwandese nel 1994, seguito dalle due guerre del 1996 e 1998. Quindi lo sciame eruttivo del vulcano Nyiragongo nel 2002, sotto la cui ombra erano stati disegnati, molte generazioni fa, i confini di questo luogo idealmente ameno. Il che avrebbe lasciato, a seguito delle colate laviche, la pioggia di lapilli ed i sommovimenti tellurici, una rete infrastrutturale profondamente ed ampiamente danneggiata, compromettendo in modo significativo le potenzialità logistiche di questo demograficamente affollato e labirintico centro metropolitano dell’entroterra. Dalla più totale impossibilità di muoversi con biciclette convenzionali, semplicemente troppo fragili e leggere, al costo eccessivamente elevato di cui farsi carico per l’acquisto di veicoli dotati di sospensioni e pneumatici adeguati alle circostanze, ebbe origine una sorta di paralisi che pareva destinata a gravare sulla testa della popolazione, abbattendone l’economia e costringendo molti a ritornare a vivere nelle campagne circostanti. Mentre i membri più anziani delle famiglie cominciavano perciò a muoversi in tal senso, i loro figli e nipoti si fecero i fautori di un’approccio al tempo stesso innovativo e tradizionalista alla questione. Agevolando la trasformazione, relativamente graduale, di quella flotta spropositata di carriole e carretti usati per prolungare l’agonia logistica del loro luogo di nascita con qualcosa di già conosciuto, ma difficilmente operativo nelle quantità che stavano apparendo un giorno dopo l’altro lungo il tragitto serpeggiante di una simile rete disagiata: chu-ku-du era il suono che producevano ed anche il nome scelto per definirli, fin dai remoti anni ’70 in cui, si dice, furono inventati dal portoghese immigrato in Angola nella città di Uige, che ne aveva costruito il primo prototipo funzionale a tutti gli effetti. La risposta a una domanda che aleggiava sostanzialmente nell’aria di quell’epoca, su come avrebbero potuto i nativi africani provvedere alle necessità di trasporto delle merci e beni di un contesto sui confini della modernità, senza le flotte di furgoni ed altri mezzi di trasporto possedute dalla maggior parte dei paesi industrializzati. Quesito per rispondere al quale egli avrebbe posto assieme due piccole ruote di legno ad un asse orizzontale, sormontato da una forcella col manubrio simile alle corna di un toro. E l’aspetto complessivo vagamente riconducibile a quello di un monopattino sovradimensionato, benché fossero proprio le proporzioni a cambiarne radicalmente le potenzialità e doti funzionali inerenti. Così che, a quei tempi in quantità piuttosto limitata, aveva iniziato a girare per le strade comuni la nuova figura professionale del chukodista o chukodour, una sorta di ibrido tra facchino e tassista, il cui gesto maggiormente riconoscibile consisteva nel posizionare un ginocchio sull’apposito cuscino costituito da una pantofola di gomma fissata all’assale del mezzo, mentre l’altra gamba si occupava di spingere innanzi il suo veicolo a due ruote. Opportunamente ingombro, nella maggior parte dei casi, di una quantità di merci fino a un massimo di 800 Kg. Abbastanza per assecondare le necessità di un’economia moderna, priva di quei mezzi e strumenti che noi siamo abituati a dare largamente per acquisiti…

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