Startup dimostra le notevoli potenzialità ricreative di un drone personale gigante

Chiunque, tra gli amanti della letteratura fantascientifica “di tutti i giorni” sia incline a lamentarsi della prolungata mancanza in questo mondo di automobili volanti, jetpack, hoverboard, intelligenze artificiali, robot antropomorfi che fanno le faccende domestiche, nanotecnologie, la clonazione umana, cyborg ed esoscheletri militari, dovrebbe guardarsi un attimo intorno e fare i conti con la realtà. Perché sebbene l’attuale società non sia esattamente simile a quella mostrata nei film degli anni ’80 come Robocop, Blade Runner o Aliens (mancano, in modo particolare, mostri xenomorfi ansiosi di deporre le proprie uova nello stomaco della gente) molti dei voli pindarici ed immaginifici relativi al tanto atteso nuovo millennio hanno a 20 anni di distanza assunto forma pienamente pratica e apprezzabile, sebbene siano ancora ben distanti dal fare parte inscindibile della nostra vita. Questo perché molte delle aspirazioni sin qui citate, nella realtà dei fatti, erano tutt’altro che adatte ad entrare a far parte dell’universo delle cose pratiche: chi desidera realmente un maggiordomo scintillante, quando un semplice aspirapolvere autonomo può svolgere la stessa mansione? Chi rinuncerebbe a un arto o organo con cui è venuto al mondo, per avere braccia allungabili, occhi capaci di vedere la notte, un stomaco capace di digerire il fegato di squalo? E i “cani” dal lungo collo della Boston Dynamics sono tutto quello che avevamo sognato in materia di compagni artificiali domestici, tranne per il piccolo dettaglio di un costo di 74.500 dollari. E per quanto riguarda l’aspirazione di spostare il traffico cittadino parzialmente sopra i cieli, basti prendere effettivamente in considerazione ciò che implica una tale scelta logistica ed operativa. Laddove le persone che risultano abbastanza prudenti e ragionevoli da usare la propria patente stradale sono già inferiori al 100%, dal che vi lascio immaginare i risultati di concedergli l’equivalente di un moderno brevetto di volo. Con aeroutilitarie che sfrecciano su più livelli, ed aeromacchine sportive che s’insinuano e sorpassano quando dovrebbero aspettare il proprio turno. Per non parlare degli aerofurgoni sempre in ritardo per la consegna, terribile pericolo per chiunque abbia mai provato a circolare su un’aerostrada di scorrimento che collega due quartieri all’altro lato del tentacolare agglomerato cyberpunk. Eppure non c’è dubbio che un sistema di trasporto personale in grado di sfuggire temporaneamente all’attrazione gravitazionale mantenga molto del fascino che si era guadagnato ancor prima dei fratelli Wright, nelle illustrazioni dei primi racconti e antologie speculative del Novecento. Ed ecco la portata, superficialmente dirompente, che accompagna la nuova invenzione della startup svedese Jetson, denominata proprio in base al celebre cartoon degli anni ’60 e ’70, nato come risposta futuribile alla strana esistenza domestica de “Gli antenati” (i Flintstones). Così pensando a George e Jane che circolavano al di sopra di Orbit City con i loro due figli nella propria vettura a forma di bolla, il fotografo e costruttore di droni polacco Tomasz Patan si è incontrato con l’esperto amministratore di venture motoristiche Peter Thernstrom nel 2017, per iniziare a perseguire la realizzazione fisica di quel sogno. Approdando ad un qualcosa che, sebbene non risulti effettivamente identico, sembra possedere buona parte dello stesso spirito, o quanto meno le due fondamentali funzionalità di partenza: poter andare là, dove osano le aquile a partire dal vialetto di un villino schiera del tipo statunitense, e non richiedere avanzate tecniche di pilotaggio, frutto di molte ore di pratica pregressa ai comandi. Questo perché il Jetson One, come è stato ribattezzato dopo l’appellativo preliminare di PAV (Personal Air Vehicle) non si presenta nella tipica configurazione elicotteristica bensì quella di un vero e proprio drone, con otto motori ad elica a passo fisso in configurazione accoppiata due-a-due, nonché avanzati sistemi di stabilizzazione giroscopica e un abitacolo compatto e maneggevole, al punto da richiamare l’istantanea attenzione di tutti gli amanti degli sport estremi. Costantemente in cerca di un nuovo sistema valido per mettere in pericolo se stessi e (potenzialmente) gli altri…

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La sorprendente ricomparsa scolastica del più antico oggetto dotato di funzionalità Bluetooth

“Mostra e racconta” è l’occasionale tipo di lezione scolastica, particolarmente rappresentativa di un certo stile d’insegnamento anglosassone e nord-europeo, in cui ciascun alunno viene invitato a portare un oggetto particolare, antico o in qualche modo interessante, su cui prodursi in una presentazione esplicativa nei confronti dell’insegnante e dei propri compagni. Gesto particolarmente funzionale a uno stile di studio tangibile ed apparente, per cui la storia dev’essere considerata in funzione di quanto è ancora possibile osservare coi propri stessi occhi e discutere attorno ad un metaforico cerchio attorno al falò del mondo contemporaneo. Ma potenzialmente poco conduttivo, nei confronti dell’astrazione accademica dei fatti trascorsi, modalità più versatile per approcciarsi agli eventi vissuti dai nostri predecessori. Eppure c’è stato almeno un caso, nel 2014 in Svezia, in cui l’effettivo svolgersi di un tale incontro ha saputo generare un effetto a cascata inversa, tale da cambiare sensibilmente la percezione a noi accessibile di un particolare personaggio storico, le sue gesta e il potenziale luogo esatto della sua morte. Individuo del calibro di Harald Bluetooth, re di Danimarca e Norvegia, deceduto poco più di mille anni prima dell’invenzione nel 1999 dello standard di comunicazione wireless che porta il suo nome, per via di un vezzo dell’ingegnere informatico suo creatore, Frans G. Bengtsson. Così come scritto e profetizzato dalla cosiddetta moneta (o disco) di Curmsun, ritrovata da una bambina svedese all’interno di una scatola di bottoni ed altra chincaglieria appartenuta a suo nonno, di cui nessuno sembrava conoscere l’effettiva provenienza finché non la vide, quasi per caso, il suo professore di storia.
Una laconica scritta in alfabeto runico, recante la dicitura latina: “ARALD CVRMSVN + REX AD TANER+ SCON + JVMN + CIV ALDIN” e sull’altra faccia una croce circondata da un ottagono e quattro puntini, potenzialmente corrispondenti ai quattro apostoli del vangelo. Il tutto inciso su una piccola medaglia di 4,5 cm di diametro, ricavata da un materiale ormai opacizzato che a causa del tempo trascorso, tutto poteva sembrare tranne che vero oro. Se non per il suo peso di 25 grammi, subito notato dal docente in questione, e l’assoluta coerenza logica dei fatti implicati dal reperto. A partire dalla parola Curmsun stessa, in realtà la riconoscibile quanto imprecisa traslitterazione runica della dicitura Gormson – figlio di Gorm (il Vecchio) riferito ad uno dei più importanti re della Danimarca. Quell’uomo con dente artificiale, o forse i molari scuriti dalla sua passione per un qualche tipo di bacca o potenzialmente il betel (Piper betle) antesignano lievemente psicotropico e proveniente dall’assai dell’assai successivo tabacco, così da essere soprannominato Dente Blu, che scelse di sottoporsi all’autorità spirituale del papato, convertendo nominalmente se stesso e il regno alla venerazione di Cristo mediante i metodi della tradizione medievale. Il che aveva incluso un battesimo, senz’altro, ma anche l’erezione di un’alta stele nota come pietra runica di Jelling (assieme ad un’altra che viene comunemente attribuita al padre) con un’incisione mirata a commemorare proprio tale importantissima conversione di stato, così come per inferenza la strana moneta ricomparsa quasi per caso dai magazzini polverosi della storia. Il cui strumento d’interpretazione più importante è proprio il luogo esatto della sua provenienza, ricostruito a partire dall’articolata storia del manufatto, che fu originariamente portato in quel paese dai due fratelli Sielski, combattenti della resistenza polacca che avevano trafugato alcuni artefatti antichi dalle sale di una chiesa in Pomerania Occidentale, per finanziare e tentare un qualche tipo di fuga dalla Wermacht tedesca. Iniziativa non del tutto riuscita, se è vero che uno di loro avrebbe finito per trascorrere il resto della guerra all’interno del campo di Auschwitz (da cui sarebbe tuttavia uscito vivo, riuscendo poi a ricongiungersi alla famiglia) ma che avrebbe permesso all’oggetto di raggiungere, assieme ad altri apparentemente di poco valore, la soffitta dove senza nessun tipo di attenzione pregressa sarebbe improvvisamente ricomparso sulla cattedra di una scuola. Portando al coinvolgimento di studiosi esperti, e di lì a poco, alla pubblicazione di un certo numero di articoli su testate di fama internazionale…

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L’alchimista vegetale che seppe far degli alberi le sue chimere

Cento anni è un periodo piuttosto breve, noi crediamo. Non è poi da molto meno, che esistiamo. Volgendo le alte fronde al vento, che da sempre ci appartengono allo stesso modo, senza distinzioni. Mentre il vento soffia in mezzo ai tronchi, che s’intrecciano formando due dozzine diamanti. Albero della gabbia circolare; ci hanno chiamato. Oppure più stringatamente; l’arbusto-cestino di Erlandson, creatore delle meraviglie più spregiudicate; come l’incontro attentamente pianificato di 6 sicomori americani (Platanus occidentalis) trasfromati in un’unica creatura traforata, posta al centro esatto di un affollato giardino, in cui è possibile osservare cose concettualmente non dissimili come l’albero ad arco (formato da altri due sicomori) oppure l’otto composito (acero americano / Acer negundo) scolpito attentamente affinché il suo legno vivente forma una serie verticalmente successiva di nodi. E che dire della “porta girevole”, l’acero indotto a separarsi all’altezza di qualche metro in più diramazioni, formando un’apertura quadrangolare simile ai sostegni verticali di una giostra… Benvenuti, o perplessi visitatori, nel Circo degli Alberi più volte ricollocato nello spazio e nel tempo, fino alla sua sede attuale presso i Giardini Gilroy, ex Bonfante, della contea di Santa Clara in California. Dove nessuna nozione acquisita può essere data per buona e le forme più bizzarre furono prodotte da esseri viventi, secondo le precise istruzioni di un uomo. La cui voce ferma eppur gentile, tuttavia, non è più stata udita da intere generazioni…
C’è del resto un certo grado di violenza, assieme alla comprensione più profonda dei processi naturali, nella prassi creata all’inizio del secolo scorso della cosiddetta arboscultura, ovvero l’arte consistente nell’instradare e domare la crescita degli arbusti, come avviene nella tecnica giapponese dei bonsai. Ma non frenandone la crescita, bensì favorendola secondo linee guida finalizzate a un risultato particolarmente bizzarro, eppure altrettanto preciso; forme memorabili, insolite, fantasiose. Creazioni formidabili di una mente priva di riposo. Come quella dell’immigrato naturalizzato statunitense proveniente dalla Svezia, Axel Erlandson, nato nel 1884 e che all’età di 40 anni, nella sua fattoria californiana di Hilmar raccontava di aver visto per la prima volta un fenomeno comune, ma non particolarmente studiato. Quello attraverso cui la siepe del suo giardino vedeva gli intricati rami crescere l’uno a ridosso dell’altro, creando giunzioni tra singole piante che poi continuavano a crescere formando un’improbabile tutt’uno. Ovvero in altri termini l’inosculazione, frutto dell’adattabilità innata delle piante, capace di erodere la vicendevole corteccia quando accidentalmente o volutamente molto vicine, lasciando che il cambio al di sotto (tessuto vivente della pianta) si unisca in modo indissolubile nell’essere gestalt, o creazione collettiva, destinata a durare nel tempo. Un principio secondo cui, scoprì quest’uomo, era possibile coadiuvare un simile passaggio con quelli collaterali della potatura controllata, l’innesto e gli altri approcci finalizzati a guidare ed instradare gli esseri vegetali. Fino alla creazione di un qualcosa che, in effetti, il mondo non aveva mai potuto ammirare fino a quel momento.
Trascorse così del tempo, mentre crescevano le sue creature. Quando la moglie di Erlandson, per trascorrere un pomeriggio diverso, si trovò a visitare con la figlia un parco dei divertimenti noto come il Mistery Spot di Santa Cruz, California, dove alcuni edifici inclinati invitavano gli ospiti a riconsiderare l’effetto imprevedibile della prospettiva. Nient’altro che una delle innumerevoli roadside attractions (attrazioni a bordo strada) che da sempre caratterizzano e arricchiscono i lunghi viaggi in macchina tipici del continente americano. Che avrebbe costituito di lì a poco, l’ispirazione per il suo “Circo degli Alberi” dove ogni ragionevole aspettativa, in materia dell’interazione tra uomini e natura, avrebbe finito per essere superata abbondantemente ridisegnata….

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La costruzione, il varo e l’immediato naufragio del primo grande galeone rinascimentale

Una struttura moderna, situata non troppo lontano dal porto di Stoccolma, proprio lì dove l’intera storia ebbe il suo inizio, svolgimento ed epilogo a dir poco tragico ed inaspettato. Dal grosso capannone con il tetto inclinato, apprezzabile già a notevole distanza, si erge quindi l’intera alberatura di un veliero, di un’apprezzabile color rosso vermiglio. Anticipazione dell’oggetto più incredibile contenuto all’interno, un letterale “palazzo” di tre piani in legno, ricoperto di sculture policrome di imperatori, eroi, mostri mitologici e belve. Perché questo è il museo marittimo della Vasa, la più importante ed intatta nave mai ritrovata nelle fredde acque dei mari del Nord. Dopo essere rimasta sepolta in salamoia, per un lungo periodo di esattamente 333 anni.
Fin dalla loro prima implementazione a bordo di uno scafo navigante, i cannoni e le altre armi da fuoco ebbero un ruolo di primo piano nello svolgimento di ogni tipo d’ingaggio da parte delle marine militari di tutto il mondo. Ma in una maniera che riusciva a configurarsi, a partire dall’introduzione in Francia dei primi portelloni di fuoco sulle murate dei vascelli all’inizio del XVI secolo, come una modalità accessoria di soppressione del nemico, prima dell’atto principale che continuava ad essere ritenuto l’assalto fisico da parte di un equipaggio armato di tutto punto. Nient’altro che un’evoluzione, in altri termini, del concetto di conflitto marittimo anticamente teorizzato dallo stesso Giulio Cesare, che traeva giovamento, senza essere effettivamente portato alle sue estreme conseguenze, dall’impiego coordinato delle catapulte. Venne un giorno, tuttavia, in cui le cose apparivano destinate a cambiare e nessuno sembrò maggiormente attrezzato per rendersene conto che il re Gustavo II Adolfo di Svezia (dominio: 1594-1632) detto “il Grande” per aver ereditato, e saputo combattere con estrema perizia, tre guerre dal suo insigne padre e predecessore, con la Russia, la Danimarca e la Polonia. Sono questi gli anni della Stormaktstiden o “Era del Grande Potere” ovvero la graduale costruzione da parte di un piccolo paese nordico di quella che possiamo definire una delle più efficienti macchine da guerra marittime dell’Europa settentrionale. Ma a partire dal 1625, gli eventi sembravano aver preso una piega inappropriata: il naufragio accidentale di un’intero gruppo di navi nella baia di Riga, seguìta due anni dopo da una sonora sconfitta ad opera delle forze polacche nella battaglia di Oliwa, in cui andò persa anche l’ammiraglia svedese “Tigern” (Tigre),  avevano convinto l’esperto sovrano e comandante militare che era venuto il momento di cambiare le cose, e farlo in un modo che avrebbe cementato la sua posizione dominante all’interno dello scenario bellico dell’Europa continentale.
L’idea era semplice, nonché rivoluzionaria: cambiare radicalmente il modo in cui le navi da guerra venivano costruite, massimizzando la quantità di cannoni a bordo che avrebbero potuto far fuoco nello stesso momento e contro lo stesso bersaglio, per mettere a segno l’attacco che prendeva il nome temibile di bordata. Non più indirizzata contro il nemico, quindi, con l’obiettivo di ammorbidirne le difese e il desiderio di resistenza, ma di affondare il suo battello in modo immediato e totalizzante. In altri termini distruggerlo, senza nessuna possibilità d’appello. Tale auspicabile eventualità ebbe dunque in breve tempo l’occasione di prendere una forma ed un nome, nel progetto della nuova nave ammiraglia Vasa (Fascina, da un elemento presente nello stemma araldico della casata di Svezia) commissionata al rinomato costruttore di Stoccolma Henrik Hybertsson. Personalità già dimostratosi capace di guadagnarsi il ragno di maestro, ed una fama abbastanza grande da potersi rifiutare nel 1625, una volta contattato dall’ammiraglio reale Klas Fleming, di dedicare tutta la sua attenzione alla costruzione di una nuova squadriglia di navi medio-piccole mirate a sostituire quelle perse nel naufragio di Riga. Cogliendo invece in modo entusiastico l’occasione, soltanto l’anno successivo, di curare la posa in opera di un nuovo galeone della lunghezza di 35 metri, che fosse in grado di affrontare in combattimento qualsiasi altro vascello della sua Era. Questo era il decreto del sovrano il quale andò ben oltre, nel caso presente, i limiti considerati ragionevoli del suo particolare campo esperenziale…

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