Il piccolo terrore super soffice del Borneo, lo scoiattolo vampiro

L’idea che possano esserci dei mondi, paralleli al nostro, dove le regole del mondo e della fisica sono simili ma sottilmente diverse. Spazi alternativi biologicamente e in senso preternaturale, in cui l’ecosistema è stato capovolto da casistiche perverse o alternative. E le creature appaiono padrone della propria foresta, piuttosto che il contrario. Orbene quando il tempo è quello giusto e nessun tipo di ostacolo immanente può frapporsi a un tale fenomeno, le siepi universali possono lasciar filtrare un varco. Il singolar pertugio se si varca il quale, l’ospite può diventare permanente. A patto che sia piccolo abbastanza, da passarci attraverso! Come Rheithrosciurus macrotis, l’abitante lungamente trascurato degli spazi collinari interni al Borneo. Che non vive sopra gli alberi, come potremmo essere inclini a immaginare, bensì attorno ad essi e nelle siepi, essendo un tipo di scoiattolo chiamato “di terra”. Il che non è neppure, a ben pensare, la caratteristica particolare che lo definisce in senso maggiormente evidente; bensì la terza in termini di trattazione enciclopedica, dopo la grande coda da cui prende il suo nome comune (trattandosi di sciuride “dal ciuffo” o tufted) e la leggendaria propensione, niente meno che terrificante, a tendere dei sanguinari agguati ai cervi. Da una scena più che impressionante a descriversi, apparentemente ben nota ai nativi, consistente nel roditore non più lungo di 33 cm che balza giù dai rami come un personaggio di Assassin’s Creed, aggrappandosi con le sue zampette al collo del grande mammifero ungulato. Procedendo quindi a mordergli, sapientemente, la giugulare. Tanto che ogni volta che un cacciatore di etnia Dayak vede una di quelle nobili bestie a terra, esanime e coperta di sangue, già si aspetta prima di guardare d’incontrare la mancanza più probabile di quelle viscere malmesso. Poiché il “vampiro” mangia in modo pressoché esclusivo, ciò dice l’aneddoto, il fegato ed il cuore delle vittime dei propri morsi impietosi. Verità? Fantasia? Il fatto che in effetti esistano degli scoiattoli carnivori, come il gigante pallido (Ratufa affinis) della stessa isola del meridione asiatico, cacciatore ben documentato di uccelli e piccoli mammiferi, non dovrebbe trarci in inganno. Soprattutto di fronte alla semplice analisi geometrica della lunghezza delle “zanne” del Rheithrosciurus, una volta messa in relazione allo spessore della pelle e la profondità della giugulare del tipico muntjac dei sussistenti lidi. Il che ci porta alla VERA dieta del nostro draculiano abitatore, a suo modo non molto meno eccezionale dell’ipotesi testimoniata dal folklore isolano…

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Agilità argentina: l’anima del capibara con le zampe di una gazzella

Chiunque abbia mai visto un grosso cane dalla folta pelliccia immergersi momentaneamente all’interno di un laghetto o corso d’acqua, ricorderà la sua trasformazione nel momento in cui è tornato a emergere, ritrovandosi a mostrare ai presenti l’effettiva forma del proprio corpo. Molto più snello del previsto, dimostrando la ragione delle capacità atletiche da lui possedute! Ed è senz’altro una fortuna che lo stesso non succeda con i frequentemente immersi mega-roditori tipici dell’area sudamericana. Perché un capibara smagrito tenderebbe a sembrare qualcosa di radicalmente differente. Qualcosa di dannatamente rapido e chiaramente affilato dal bisogno di dar seguito alla propria sopravvivenza…
Chimerico è l’aggettivo spesso utilizzato in senso figurativo per tentare di riferirsi a qualcosa di remoto ed improbabile, potenzialmente impossibile da contestualizzare. Laddove l’etimologia di questo termine, derivato dalla celebre creatura mitologica di epoca greca e romana, vorrebbe alludere convenzionalmente alla convergenza di tratti concettualmente disallineati all’interno di una singola creatura. Una caratteristica tipicamente attribuibile ai mostri. Ma che figura, in determinate circostanze, anche nel caso degli animali. Abitanti di remoti territori come le pianure della Tierra del Fuego, letterale ultimo confine del mondo, ove la continuativa lotta per la sopravvivenza non è in alcun modo più semplice, né meno feroce, di quella sperimentata ogni giorno nell’ecosistema dell’Africa Nera. Basta guardare, per comprenderlo, la conformazione fisica della specie scientificamente nota come Dolichotis patagonum o più semplicemente “marà”, i cui fenotipi evolutivi parlano di un livello di attenzione particolarmente elevato nei confronti dei dintorni, collaborazione sociale per la difesa del territorio e soprattutto la capacità, altamente caratterizzante, di trasformarsi in un razzo missile che sfreccia tra le erbe ed altre piante della pampa. Una necessità morfologica niente meno che fondamentale nel suo contesto. Poiché come sarebbe possibile spiegare, altrimenti, la sua appartenenza alla stessa famiglia del porcellino d’india ed il capibara, entrambi animali non propriamente noti per le proprie doti di prestanza fisica o velocità metabolica nel momento di darsi alla fuga. Questo perché il nostro amico dalle dimensioni pressoché mediane (69-75 cm per 8-16 Kg) rappresenta essenzialmente un chiaro esempio di convergenza evolutiva nei confronti della lepre europea, migliorata con una velocità massima raggiungibile di fino a 60 Km/h. Abbastanza per eludere dall’intero vasto novero dei suoi predatori, inclusivo di volpi, felini selvatici, grisoni ed uccelli da preda. Benché lo stesso approccio risulti inefficace nei confronti dei cacciatori umani, che nel corso delle ultime decadi ne hanno praticato un eccidio non propriamente sostenibile per l’alto valore della loro pelliccia. Al punto da giustificare l’inserimento nell’elenco delle specie a rischio da parte dello IUCN, nel culmine di una triste storia fin troppo comune negli ecosistemi di una buona metà del mondo. E dire che, prima del nostro palesarci tra le inconsapevoli creature dell’Olocene, le cose stavano andando così bene…

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La creatura nella duna che squittisce al tramonto nordafricano

Tra i Tuareg del deserto del Sahara esiste un’ espressione idiomatica, comunemente utilizzata per riferirsi alle ore vesperine. Il suo significato in lingua italiana può essere tradotto come “L’ora in cui esce [dalla tana] il gundi.” Cosa rappresenti, esattamente, questa presenza abitudinaria è largamente noto tra le genti della rilevante area geografica. Ma permane avvolto da un sottile senso di mistero per tutti gli altri. Ecco, dunque, la risposta a questa implicita domanda. Il gundi è il topo con il pettine, comodamente incorporato tra le dita di entrambe le zampe posteriori, da lui utilizzato ripetutamente per potersi sistemare il lungo e folto pelo, non propriamente né istintivamente associabile a un animale di climi tanto secchi e termicamente elevati. Il gundi è una creatura socievole ma battagliera, incline a combattere contro l’arsura muovendosi come una lucertola, soltanto nelle ore in cui il sole comincia a sorgere e fino al raggiungimento di una temperatura eccessiva; che per lui tende a corrispondere alla cifra non trascurabile di 36 gradi. Il gundi è un roditore dalle dimensioni e forma simile ad un porcellino d’India (17-18 cm) ma del color dell’arenaria e dotato di un paio di orecchie molto tonde collocate nella parte alta della testa alla maniera di un pika, benché perfettamente aderenti alla curvatura del cranio per ottimizzare il suo passaggio negli stretti pertugi sotterranei che è solito chiamare “casa”. Potendo trarre giovamento, allo stesso tempo, dalla singolare capacità di appiattire le proprie costole, diventando la ragionevole approssimazione quadrupede di una sogliola del deserto. Famoso per il suo comportamento dardeggiante e la rapida reazione agli imprevisti tipica degli animali-preda, un tanto interessante prodotto dell’evoluzione non poteva certo restare sconosciuto all’uomo europeo in eterno, così che nel 1774 il naturalista e sostenitore di Linneo, Göran Göran Rothmann, si trovò finalmente ad individuarlo durante i suoi viaggi in Libia e Tunisia, attribuendogli il nome poliglotta di Mus gundi, da latino per “topo” e l’espressione locale utilizzata per definirlo. Il che implicava un tipo di classificazione che oggi definiremmo inesatta, visto l’inserimento tassonomico del nostro amico in un genere e famiglia distinti, rispettivamente Ctenodactylidae e Ctenodactylus, con riferimento al pettine anatomico di cui discusso brevemente in apertura. Per proseguire quindi notando un qualcosa di altrettanto sorprendente, configurabile come il possesso da parte della piccola creatura di denti privi sia di radici che del duro smalto a base di ferro che caratterizza la stragrande maggioranza dei roditori, rendendoli effettivamente ottimizzati per nutrirsi preferibilmente delle piante morbide e succulente tipiche dei suoi climi desertici d’appartenenza, di cui va in cerca anche a chilometri di distanza. Un’osservazione comportamentale che avrebbe condotto, di lì a poco, a una seconda ed altrettanto notevole notazione: la maniera in cui questi esserini potessero, e fossero frequentemente inclini a fare a meno di bere.

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Vive come uno scoiattolo, pesa quanto una marmotta. Mangia formaggio?

Nell’aria densa e crepuscolare della fitta foresta ai piedi della Sierra Madre (Luzon) da non confondere con la Sierra Madre de Chiapas (Messico) qualcuno sollevò d’un tratto gli occhi e puntò il dito. “Amici miei, guardate lassù!” Esclamando all’indirizzo dei turisti, in un bagno di sudore per il tasso d’umidità pericolosamente prossimo al 100% “È uno sciuride gigante! Forse uno scoiattolo indiano?” Al che trascorsi pochi attimi d’esitazione, la risposta: “Stai scherzando! Si tratta di un mammifero arboricolo. Chiaramente un lemure di qualche tipo.” Alcuni dissentirono: “Non gli avete visto i denti. Di un colore giallo paglierino intenso. Difficile negare che si tratti di un castoro particolarmente agile, forse scappato da un circo.” Con un fruscio simile a quello del vento, la posizione dell’animale, grande quanto un cane di taglia medio-piccola, si fece all’improvviso evidente. Sporgendo il corto muso incorniciato dalle orecchie aerodinamiche, il suo manto bianco e nero stranamente contrastante, l’animale si sporse tra le fronde. “Il corridore… Il corridore tra le nubi. La sua priorità biologica è un fondamentale segno di rivalsa. Eroe di tutto ciò che rosica e rosicchia, mangia, rumina trangugia. Ma non per questo pare giusto sottovalutare il segno della sua unicità ecologica immanente.”
Per la serie: animali endemici di un particolare territorio e soltanto quello. La tribù tassonomica dei Phloeomyini, costituita dagli appartenenti a cinque generi distinti e tutti rispondenti all’essenziale descrizione d’imponenti topi arboricoli, possiede tratti fenotipici ragionevolmente variabili. Con dimensioni tra i 20 ed i 50 cm ed un peso in grado di raggiungere i 2,7 Kg, tali creature per lo più notturne risultano comunque accomunati da particolari elementi di distinzione. Una natura prevalentemente erbivora, piuttosto che onnivora, con stomaci adattati alla digestione di fronde giovani, germogli e l’occasionale pezzo tenero di corteccia; piedi lunghi e artigli prensili, perfetti per arrampicarsi sempre più in alto; una sola serie di capezzoli nelle femmine, per questo inclini partorire numeri particolarmente contenuti di figli o addirittura un singolo erede. Il che potrebbe renderci inclini a considerarli come una presenza ragionevolmente rara nello straordinariamente biodiverso arcipelago delle Filippine, laddove l’evidenza rende alcune di queste specie pressoché onnipresenti ai margini degli insediamenti umani, con frequenti invasioni dei terreni agricoli e conseguente consumo abusivo di problematiche quantità di messi agricole piantate dall’uomo. Rivale nel controllo degli spazi, che attraverso i secoli ha cacciato, consumato, allontanato e perseguitato queste pervasive creature, come del resto prevede l’usanza e tradizione delle sue prerogative inerenti…

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