La mangiabile sorpresa tra le spine del “cappello” che accomuna la Turchia e il Brasile

Il fatto che le ogni rosa sia dotata di una significativa quantità di spine non altro che la prova di come tali aculei siano quasi sempre posti attorno a un qualche cosa di desiderabile, o attraente. Dopo tutto la difesa principale delle piante, utilizzata da una varietà notevole di erbe, cespugli o arbusti di molteplici recessi e territori è necessariamente la risposta alla pressione evolutiva imposta da fameliche creature che tendevano a mangiarne la fibrosa e pura essenza, suggerne la linfa più segreta e consumarne le opportunità di vivere e riuscire a riprodursi su questa Terra. una finalità naturalmente perseguita dall’eterno ciclo che produce in un preciso ordine il miracolo floreale, subito seguito dal suo frutto e infine, il seme. Tre sfaccettature di un solo processo, tra cui la seconda è di gran lunga quella più desiderabile per colui che giunge a constatarne la presenza dal gremito regno animale, sia questi erbivoro, onnivoro o semplicemente incline al vandalismo. Non è infatti sempre desiderabile, per tutta una serie di ragioni, che la pianta offra il proprio dono commestibile su di un proverbiale piatto d’argento, soprattutto quando lo strato carnoso esterno che ricopre il suo gambo (ah, cactus!) tende a danneggiarsi con la rimozione troppo anticipata di quel pomo, generando possibili fori d’ingresso per infezioni parassitari del contesto ambientale circostante. Problema, originariamente notato dallo stesso Carlo Linneo autore della prima classificazione, e che doveva nei fatti risultare assai gravoso negli ambienti sudamericani e caraibici, da cui egli iniziò a classificare l’intero genere da circa 40 specie dei Melocactus o cactus “melone”, o testa del Papa, o cappello del Turco. L’ultimo notevole appellativo creato per costituire una diretta risultanza di quella metafora, istintivamente facile da contestualizzare, derivante dall’aspetto della sommità di queste piante: un letterale groviglio di lanugine puntuta, di colore rosso, arancione, giallastro, che ricorda per aspetto e proporzioni il caratteristico copricapo a fez del tardo Impero Ottomano. Pur avendo una funzione che potremmo definire diametralmente all’opposto…

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La corsa della rana che scongela i suoi sospiri per innamorarsi tra laghi montani

Singolare il senso di disagio ed inquietudine latente che è possibile sperimentare camminando tra i bianchi recessi di particolari ambienti alpini, come il ghiacciaio perenne che sovrasta un placido lago alpino all’altezza di 3.000 metri sul massiccio di Beaufort, nella regione francese di Savoy. Come se ci si trovasse, per quegli attimi, soggetti all’attenzione di dozzine di esseri, recentemente risvegliati e pronti ad eseguire l’impresa per cui, in un certo senso, sono venuti al mondo. Già, perché sotto la luce intensa del sole mattutino, dietro una solida cortina di neve e ghiaccio, la sopita moltitudine si sta sgranchendo i polmoni (ed altri organi coerentemente situati) prima di balzare fuori l’immane impeto che è stato calibrato, attraverso i lunghi secoli e millenni dell’evoluzione, al fine di concedere al proprio codice genetico l’immenso ignoto delle generazioni a venire. Un’attività che qui tende a richiedere, ancor più che in altri e innumerevoli luoghi, agilità, sveltezza, fisico scattante ed attenzione, mentre ci si inoltra sobbalzando tra i recessi di un terreno che non offre alcun tipo di facilitazione. Ce lo fa notare questo breve spezzone della terza serie di documentari Planet Earth, con l’inconfondibile voce del naturalista Attenborough, dedicato ad una specifica popolazione del batrace scientificamente noto come Rana temporaria o “rana comune” della lunghezza tipica di 6-9 centimetri, diffusa nell’intera Europa fatta eccezione per la penisola Iberica e parti dell’Italia meridionale. Oltre ai Balcani, molte zone dell’Asia e persino il Giappone, dove è stata probabilmente introdotta dalla mano umana. Questo per la sua notevole capacità di adattamento attraverso lo sviluppo fluido in fase di ontogenesi, ovverosia durante lo sviluppo dell’embrione ed in presenza di fattori esterni, tra cui spicca in modo particolare il clima. Ecco perché la rana soprannominata anche verde o marrone a seconda delle sue esigenze di mimetismo, può comparire in una pluralità di ambienti ed altitudini dal livello del mare fino alla cima delle montagne, dove non compare neanche un filo d’erba sotto la spessa coltre nevosa invernale. Un ambiente presso cui il breve letargo che caratterizza questa specie, normalmente capace di estendersi tra ottobre e gennaio, tende a durare qualche mese in più fino al concretizzarsi di una luce sufficientemente intensa, assieme al calore che può conseguirne riscaldando le intirizzite membra e l’entusiasmo per l’odissea che dovrà condurre tali anuri a coronamento. Svariate dozzine di metri più in basso rispetto alle loro buche scavate spesso in corrispondenza di torrenti o pozze sotterranee, verso quella che alcuni commentatori meno eleganti del celebre naturalista britannico non esitano a definire un’orgia gracchiante, luogo di conflitti tra i maschi e l’implementazione dell’amplesso finale. Purché al momento di raggiungere il teatro dell’accoppiamento, tale approccio non avesse avuto luogo già da diversi mesi, permettendo ai partner di una coppia di raggiungere il sito già in posizione universalmente compromettente. In una posizione che potremmo definire oggetto di un lungo collaudo antecedente…

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La creatura nella duna che squittisce al tramonto nordafricano

Tra i Tuareg del deserto del Sahara esiste un’ espressione idiomatica, comunemente utilizzata per riferirsi alle ore vesperine. Il suo significato in lingua italiana può essere tradotto come “L’ora in cui esce [dalla tana] il gundi.” Cosa rappresenti, esattamente, questa presenza abitudinaria è largamente noto tra le genti della rilevante area geografica. Ma permane avvolto da un sottile senso di mistero per tutti gli altri. Ecco, dunque, la risposta a questa implicita domanda. Il gundi è il topo con il pettine, comodamente incorporato tra le dita di entrambe le zampe posteriori, da lui utilizzato ripetutamente per potersi sistemare il lungo e folto pelo, non propriamente né istintivamente associabile a un animale di climi tanto secchi e termicamente elevati. Il gundi è una creatura socievole ma battagliera, incline a combattere contro l’arsura muovendosi come una lucertola, soltanto nelle ore in cui il sole comincia a sorgere e fino al raggiungimento di una temperatura eccessiva; che per lui tende a corrispondere alla cifra non trascurabile di 36 gradi. Il gundi è un roditore dalle dimensioni e forma simile ad un porcellino d’India (17-18 cm) ma del color dell’arenaria e dotato di un paio di orecchie molto tonde collocate nella parte alta della testa alla maniera di un pika, benché perfettamente aderenti alla curvatura del cranio per ottimizzare il suo passaggio negli stretti pertugi sotterranei che è solito chiamare “casa”. Potendo trarre giovamento, allo stesso tempo, dalla singolare capacità di appiattire le proprie costole, diventando la ragionevole approssimazione quadrupede di una sogliola del deserto. Famoso per il suo comportamento dardeggiante e la rapida reazione agli imprevisti tipica degli animali-preda, un tanto interessante prodotto dell’evoluzione non poteva certo restare sconosciuto all’uomo europeo in eterno, così che nel 1774 il naturalista e sostenitore di Linneo, Göran Göran Rothmann, si trovò finalmente ad individuarlo durante i suoi viaggi in Libia e Tunisia, attribuendogli il nome poliglotta di Mus gundi, da latino per “topo” e l’espressione locale utilizzata per definirlo. Il che implicava un tipo di classificazione che oggi definiremmo inesatta, visto l’inserimento tassonomico del nostro amico in un genere e famiglia distinti, rispettivamente Ctenodactylidae e Ctenodactylus, con riferimento al pettine anatomico di cui discusso brevemente in apertura. Per proseguire quindi notando un qualcosa di altrettanto sorprendente, configurabile come il possesso da parte della piccola creatura di denti privi sia di radici che del duro smalto a base di ferro che caratterizza la stragrande maggioranza dei roditori, rendendoli effettivamente ottimizzati per nutrirsi preferibilmente delle piante morbide e succulente tipiche dei suoi climi desertici d’appartenenza, di cui va in cerca anche a chilometri di distanza. Un’osservazione comportamentale che avrebbe condotto, di lì a poco, a una seconda ed altrettanto notevole notazione: la maniera in cui questi esserini potessero, e fossero frequentemente inclini a fare a meno di bere.

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Quando il picchio è una farfalla che percorre le pareti della cattedrale

Occorre uno sguardo attento e dedizione per un tempo sufficientemente lungo, al fine di riuscire ad avvistare la presenza sopra un muro dell’uccello passeriforme scientificamente noto come Tichodroma muraria. Non più lungo di 17 centimetri, monotipico nel genere e nella famiglia, caratterizzato da un piumaggio valido a mimetizzarsi contro i materiali che costituiscono il suo ambiente di foraggiamento elettivo: muraglie di pietra calcarea, gneiss, l’ardesia cristallina. Ma anche, soprattutto in estate e nelle regioni dal clima meno rigido, strutture create dall’uomo al di sotto dei 3.500-5.000 metri dov’erano soliti nidificare, individuando nelle superfici di mattoni o cemento un solido sentiero per la sussistente verticale deambulazione. Già perché a seguirne i movimenti, il più comunemente detto wallcreeper o picchio muraiolo, tutto tende a richiamare tranne la comune traiettoria di un pennuto, mentre sobbalzando sembra camminare come fosse un geco, aggirandosi velocemente dove appigli non parrebbero effettivamente esistere, le corte zampe ed i piedi dai lunghi artigli prensili impiegati per individuare il benché minimo appoggio a disposizione. Inclusi quelli offerti da palazzi, castelli, chiese o vecchi ponti di pietra. E le ali semi-aperte, qualche volta più, altre meno, per mostrare l’unico perfetto emblema utile ad esprimere la propria vera identità: le piume remiganti delle ali di colore nero e un rosso intenso, vagamente riconducibile a quello di svariati lepidotteri o la mosca lanterna puntinata (L. delicatula) il temuto insetto invasivo delle colture ed alberi statunitensi. Mentre se soltanto un simile efficiente predatore condividesse almeno in parte il proprio areale col suddetto rincote succhiatore, difficilmente la sua odiata stirpe riuscirebbe a sfuggire alla presa di quel becco appuntito e lievemente ricurvo. Rapidamente utilizzato, mentre l’uccello cerca e anticipa le posizioni più probabili delle sue prede artropodi, per infilzarle e schiacciarle, sollevarle, trangugiarle in un sol boccone. Preferendo a tal fine ragni, opilionidi e l’occasionale formica, benché non disdegni in alcun caso gli insetti volanti, colpiti in genere con un fulmineo agguato subito seguìto, quando necessario, da una rapida picchiata per catturarli a mezz’aria. Tutte scene avidamente ricercate da qualsiasi osservatore ornitologico che si rispetti, proprio per la difficoltà di catturare su pellicola questa operosa e sobbalzante creatura. Il che sembrerebbe aver motivato, se non altro, il caricamento di una grande quantità di video su YouTube e le altre sedi documentaristiche online…

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