La struttura di Richat: mistero geologico di un occhio gigantesco

Difficile può risultare la presa di coscienza, ed invero alquanto controintuitiva, che la Terra possiede un davanti e un dietro, testa e piedi, parte frontale della sua facciata ed un retro esteriormente meno interessante. Almeno un occhio. E un ombelico. Ma quale dei due risulti situato in Mauritania, nel punto forse più isolato dell’intero deserto del Sahara, non è necessariamente facile da determinare, poiché questa è una realizzazione interconnessa strettamente al proprio gusto soggettivo in campo metaforico è la suggestione immaginaria che deriva dalla vista e presa di coscienza di un paesaggio (in chiari termini) …Alieno. Quasi nessun mammifero o lucertola lo abita. Ben pochi uccelli osano sorvolarlo. Come si trattasse di un centro energetico percorso dalle onde di un generatore ignoto. O l’impatto di un macigno cosmico, nella maniera lungamente sospettata, che ha lasciato eternamente impresso il susseguirsi di una serie d’increspature concentriche nello stagno dell’Esistenza. Ciò benché la cosiddetta struttura di Richat risulti, in base al tipo di studi condotti in epoca contemporanea, dall’occorrenza di un tipo di fenomeni interni al sottosuolo. Il che rientra, per quanto possibile, nell’impressione che tende a restituire. Sostanzialmente un’area circolare di roccia sedimentaria variamente erosa, del diametro di 40 chilometri, posto a disegnare la figura equivalente di una palpebra o cratere. Con all’interno un altro, e un altro ancora. Situata nella regione di Adrar vicino al centro abitato di Ouedane, nel cui dialetto la parola rīšāt vuole dire “piuma”, con un’origine etimologica del toponimo particolarmente difficile da determinare. Composta dal punto di vista geologico da un susseguirsi di rocce ignee intrusive ed estrusive, tra cui gabbri, kimberliti, carbonatiti ed ammassi tufacei che poggiano sopra una vasta superbreccia sedimentaria, l’anomalia risulta consistente con la parte esposta agli elementi di un antico maars, ovvero la risultanza paesaggistica di un eruzione di tipo freatico-magmatico. La cui occorrenza cronologica, in base alla datazione delle pietre sottoposte a più approfondita analisi, parrebbe attorno ai 94-104 milioni di anni fa, benché nessuno sembrasse averne posto in evidenza l’esistenza almeno fino alla metà del secolo scorso. Questo perché come potrebbe avvenire per un cerchio del grano 100 volte più grande, risulta essere praticamente impossibile notare l’effettivo aspetto del sito finché non lo si osserva da posizione sopraelevata, ed in questo caso specifico, particolarmente distante. Tanto che dopo le prime descrizioni scientifiche tra gli anni ’30 e ’40, con uno studio di Richard-Molard che ebbe l’intuizione di definirlo, per l’appunto, “ombelico” le fotografie capaci di supportare l’idea sarebbero giunte soltanto nel 1965, grazie ai due astronauti McDivitt e White a bordo della missione Gemini 4. Probabilmente inclini a rimanere senza parole, di fronte alle incredibili eccezioni compiute dalla natura…

Leggi tutto

La remota passeggiata in mezzo ai portici di una caldera primordiale

Antichi templi ci avvicinano alle atemporali anomalie. Chi li ha costruiti, e perché? Esistono perché li hanno costruiti, o perché? Se una roccia svetta ponderosa ma c’è un buco sotto, quel buco è stato costruito dall’uomo, oppure… Molti sono gli interrogativi stranamente suscitati da una vista come questa, del tutto uguale a quella palesatosi agli esploratori delle circostanze in essere improvvisamente, dopo l’apertura (o per meglio dire la “chiusura”) di una diga a monte di qui. Quella di Long Valley lungo il fiume Owens, nella regione della California nota come Mammoth Lakes perché molto probabilmente in un momento imprecisato della storia rilevante, nei dintorni pascolavano gli enormi pachidermi di allora. Ed ancor prima, i dinosauri. Ma dopo la scomparsa di costoro e prima che arrivassero quegli altri, fuoco e fiamme, e distruzione sulla Terra. Frutto affiorante delle viscere sepolte sopra e dentro il mare di magma: una caldera. Conseguente da una delle più terribili eruzioni pompeiane che tale nazione abbia potuto sperimentare (benché non fossero ancora degli Stati e tanto meno Uniti) Stiamo parlando, per essere precisi, di come 760.000 anni a questa parte i vulcani avessero ancora cose molto significative da dire. E caso vuole, opere d’arte da mostrare ai posteri viventi e respiranti delle proprie valli antistanti. Una serie di ambiziose macerie, a voler qualificarle, verticalmente parallele quando non pendenti lievemente da una parte all’altra. Segmentate visualmente da diverse spaccature orizzontali equidistanti, talvolta semisepolte a ricordare le ossa di sopiti scheletri di Leviatani non più viventi.
Creazioni. Rocciose. Colonnari meraviglie delle circostanze. Di un sito geologicamente eccezionale che la gente ha definito le Colonne del Lago Crowley. Per analogia con il bacino artificiale di cui sopra, a sua volta battezzato nel 1941 in onore della figura del celebre ecclesiastico John J. Crowley. Colui che era morto poco tempo prima nei dintorni all’età di 48 anni, dopo aver trascorso la propria esistenza nel tentativo di mitigare la sofferenza dei popoli nativi lasciati all’asciutto dall’accaparramento delle limitate fonti d’acqua della Costa Est, a maggior vantaggio dei magnati losangelini. Quale perfida ironia, in un certo senso! Sebbene sia del tutto ragionevole immaginarlo colpito, o per lo meno riportato con la mente all’infinita gloria del Creatore, di fronte a uno spettacolo configurato sulla falsariga di questo: letterali centinaia di pilastri perfettamente torniti. Come quelli del Tempio Santo a Gerusalemme, posti a sostenere una volta collinare dal candore abbagliante. Il chiaro ed evidente simbolo, di un’antica simmetria rimasta. La pacifica innocenza del paesaggio! Il dito che indica, sbucando dalle nubi, la suprema verità dell’Universo. E tutto ciò che tende normalmente a derivarne…

Leggi tutto

Assos e il segreto dei sarcofagi che divoravano le spoglie mortali

Sarkos: carne + fàgos: divorare! L’utilizzo continuativo di un termine composito non può necessariamente sottintendere la comprensione istintiva della sua etimologia, specialmente quando esso proviene dal greco antico, una lingua più distante dai moderni idiomi di quanto possa dirsi quella degli antichi Romani. Pur trovando la sua principale giustificazione, dinnanzi agli occhi dei filologi e gli altri studiosi del linguaggio, da un particolare brano in latino facente parte dell’opera di Plinio il Vecchio, Naturalis historia. Nel cui ventisettesimo capitolo, egli fa menzione di un particolare materiale proveniente dalle cave della Troade, la penisola che costeggia lo stretto dei Dardanelli giungendo quindi ad affacciarsi sul Mar Egeo. Ove sorgeva un tempo una città splendente, fondata da coloni della vicina isola di Lesbo, che si erano trasferiti sulla terraferma tra l’XI ed il X secolo a.C. Soltanto per scoprire, ed in seguito trarre un significativo giovamento, dalle locali e profonde cave di steatite, pietra di origine vulcanica simile al basalto utilizzabile in un’ampia gamma di applicazioni. Di cui una, soprattutto, sarebbe stata destinata a rimanere negli annali: la costruzione di tombe, intese come scatole entro cui deporre le spoglie dei propri defunti, affinché le loro anime potessero essere liberate. Ciò di cui Plinio parla nel 77 d.C, riportando probabilmente una nozione facente parte del senso comune della sua epoca, relativa al modo in cui i suddetti sarcofagi sembravano in qualche maniera accelerare la decomposizione delle salme, trasformandole in scheletri completamente scarnificati entro un periodo di appena 40 giorni; contro le decadi, o persino secoli comunemente necessari al fine di raggiungere il coronamento di tale processo. Ma qual era, esattamente, la ragione di questo strano fenomeno e perché veniva giudicato desiderabile a quei tempi? Molte sono state le ricerche compiute in materia, negli estensivi scavi archeologici condotti presso questo sito diventato prosperoso in età Ellenistica beneficiando delle riforme effettuate sul finire del IV sec. da Ermia di Atarneo, schiavo eunuco al servizio di Eubulo, banchiere della Bitinia. Nonché allievo del celebre Platone, avendo ricevuto da lui un’educazione che l’avrebbe indotto a incoraggiare la venuta di studiosi e sapienti tra le proprie mura cittadina, inclusa la figura fondamentale di Aristotele, un suo vecchio compagno di studi. Il quale a sua volta, proprio ad Assos avrebbe fondato la sua prima scuola, essendo destinato ad annoverare tra i propri allievi Alessandro Magno in persona…

Leggi tutto

Dar Al-Hajar, il palazzo sul pilastro di arenaria degno di un’antica fiaba yemenita

Profili delle case multiple adagiate l’una all’altra, con candidi merletti posti ad identificare i perimetri portati ad intersecarsi. Finestre o feritoie di ogni forma immaginabile, rettangolari, sovrastate da archi, contrafforti onirici a stretto contatto con le nubi. E in cima un’alta balconata da cui dominare l’intero territorio, aspettando la venuta di un’ispirazione proveniente dai flussi inalterati della sapienza.
Luoghi magnifici da epoche distanti, in circostanze inaccessibili di paesi politicamente complessi. Eppure nella mente delle persone, il loro atteggiamento, l’apertura nei confronti della modernizzazione necessaria per poter creare un polo d’attrazione turistica fuori dai confini, può sussistere un latente potenziale degno di essere esplorato, nell’attesa di un mondo maggiormente aperto alle possibilità future. In Yemen, nella verdeggiante valle (wahdi) di Dhahr situata a soli 15 Km dalla capitale di Sana’a, una figura dalla veste variopinta si staglia contro uno degli edifici più caratteristici di questo paese. Lei è Somaya Gamal, giovane viaggiatrice reclutata in questo caso dall’UNESCO, al fine di mostrarci la svettante meraviglia architettonica di questo luogo letteralmente sconosciuto all’Occidente, per i molti complicati risvolti burrascosi e conflitti regionali intercorsi al volgere delle trascorse Ere. Eppure stranamente familiare al senso comune dei cinefili italiani, per la sua comparsa in qualità di residenza della principessa Dunya nel film del 1947 di Pier Paolo Pasolini, Il fiore delle Mille e una notte. Struttura degnamente iconica, assolutamente imperitura in potenza, così come compare con l’appellativo odierno di Dar al-Hajar: il “Palazzo sulla roccia”. Nomen, omen, verità evidente. Tangibile, pesante, con le fondamenta inesplicabilmente incapsulate in un enorme macigno d’arenaria costruito presso il sito di un’ancestrale fortezza dei Sabei. In multiple contingenze e con tutte le caratteristiche di un’imprendibile palazzo, così come voluto dal suo principale committente agli albori dell’epoca moderna, l’Imam di tutto lo Yemen al-Mansur Ali ibn al-Abbas che regnò come dinasta dei Qasimidi tra il 1755 e il 1809, in un paese libero dal dominio degli Ottomani da ormai più di due secoli, ma ancora disunito dai conflitti e dalle guerre tribali purtroppo implicite nella sua eredità storica e culturale. Tuttavia sufficientemente stabile, e prosperoso, da permettere la costituzione di un polo delle arti e della cultura alla corte del suo più influente sovrano, con figure di elevato calibro in tal senso ma forse nessuna all’altezza dell’astronomo, ingegnere e costruttore di castelli Ali ibn Salih al-Ammari (1736-1798) che qui pensò quello destinato a rimanere negli annali come uno dei suoi capolavori. Una residenza estiva quale mai nessuno, prima di quel momento, avrebbe mai potuto tentare d’immaginare…

Leggi tutto

1 2 3 8