Il giapponese in grado di creare personaggi dalle confezioni di merendine

Per anni ed anni siamo stati abituati, dall’impiego che ne viene fatto nel mondo contemporaneo, ad ignorarle. Almeno ad un livello cosciente, mentre siamo in giro nel supermercato, affinché il messaggio subliminale che nascondono possa raggiungere in maniera più efficace i centri nevralgici dell’impulso e il desiderio. Ma provate voi soltanto a lavorare, anche per pochi mesi, nel reame della grafica, ed esse assumeranno una potenza comunicativa precedentemente insospettata: qui un logo affascinante, lì una foto realizzata ad arte. Allineamenti, arcane simmetrie. Tutto ciò che viene creato con lo scopo di proteggere, avvolgere ed in ultima sostanza, condurre il cibo fino alla sua ultima destinazione (il nostro stomaco) è il frutto di un sofisticato processo creativo, qualche volta individuale, altre collettivo, costruito all’interno di crismi specifici ed attentamente definiti. Esattamente come si addice all’arte. E chi meglio dei giapponesi, con la loro propensione culturale ad apprezzar le cose semplici, potevano produrre una figura d’inventore totalmente nuovo, che lavora con le immagini e le forme per creare uno stravagante ancorché memorabile cast di figurine e diorami, partendo dalle più “umili” e “insignificanti” tra le produzioni della scienza e della tecnica pubblicitaria: incarti, carte, scatolette, tubi delle patatine – Pringles, che altro! Nome che difficilmente tenderemmo ad associare a un gentiluomo col completo, i baffi straordinari ed il testone ovale, nella posa che potrebbe alludere a una danza oppure, in base al catalogo delle nostre conoscenze pregresse, alla minacciosa posizione pre-battaglia di un eroe dei manga di Hirohiko Araki, “Le bizzarre avventure di JoJo”. Ed è spesso giocato proprio su questo, il messaggio potenzialmente nascosto nei lavori di Shokunin Harukiru (空箱職人はるきる- letteralmente: artigiano delle scatole vuote Harukiru) studente poco più che ventenne all’Università di Arte e Design di Kobe, diventato famoso le corso dell’ultimo anno a partire dai suoi profili di Twitter e Instagram, con condivisioni in grado di raggiungere le decine di migliaia. Famoso al punto da poter vantare, a partire dal prossimo 26 ottobre e fino all’11 novembre, l’allestimento individuale di una mostra presso l’area dedicata del centro commerciale Ikebukuro PARCO di Tokyo, con tanto di biglietto d’ingresso da 800 yen, libri e gadget a tema in vendita e multiple sessioni per la firma d’autografi, verso quella che potrebbe presto diventare una spettacolare carriera nel mondo dell’arte e/o della pubblicità. Del resto e prevedibilmente, già più di una volta il creativo ha avuto modo di collaborare con alcune delle aziende che compaiono come materiale dei suoi lavori, per operazioni di marketing come la creazione di soggetti a tema per reclamizzare nuovi prodotti o iniziative. Ma sono probabilmente le sue creazioni spontanee, di cui 30 saranno esposte dalla fine del mese ad Ikebukuro, a rappresentare maggiormente la sua straordinaria verve creativa, con ciascun singolo elemento grafico integrato all’interno del design da lui creato, in un delicato equilibrio tra associazioni concettuali e idee visive, verso la creazione di figure che, talvolta, sembrano sfidare l’immaginazione…

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La strategia del pinguino tattico esplosivo

Snake-maru controllò il dispositivo di comunicazione codificata integrato nel suo auricolare, verificando che la ricezione fosse ideale. Quindi iniziò a sub-vocalizzare il messaggio, assicurandosi che dalla bocca non uscisse neanche il più impercettibile sussurro. “Aquila di Fuoco, qui Snake. Sono appena penetrato nella fabbrica di biciclette che fa da copertura per l’hangar del Mecha Gear. Ho eluso le telecamere ed il nemico non ha rilevato la mia presenza.” Un attimo di pausa, mentre una pattuglia girava nel salone d’ingresso, quindi voltava per il corridoio in direzione della sala mensa. Per qualche strana ragione, le conversazioni tra lui e la base tendevano ad essere piuttosto prolisse e circonlocutorie. “Ma ora c’è un problema: di fronte al pannello di sicurezza, due guardie armate con scafandro protettivo anti-radiazioni. La mia pistola a tranquillanti non avrà effetto su di loro…” Mentre aspettava una risposta, il più segreto agente speciale al servizio dell’esercito degli Stati Uniti vagliò attentamente le diverse opzioni. Poteva, naturalmente, usare il fucile d’assalto, caricando frontalmente l’ostacolo e rimuovendolo alla radice. Ma il suo intuito superiore gli diceva che così avrebbe attirato attenzioni indesiderate. In alternativa, avrebbe dovuto sfruttare uno stratagemma. Il suo cervello frutto della selezione genetica e gli esperimenti segreti sulla clonazione umana elaborò quindi una possibile soluzione per distrarre i problematici soldati. Avrebbe potuto emettere un suono, lanciando dietro l’angolo un caricatore, quindi nascondersi all’interno dell’infallibile scatola di cartone pieghevole, da cui non si separava mai. Ma persino questo, avrebbe richiesto diversi secondi. Come avrebbe potuto allungare i tempi del suo dirottamento? In quel momento, il codec vibrò: “Snake-maru, qui Aquila. Il tuo problema non è insormontabile. Devi credere in te stesso! Ricordi il film di guerra del 1961, i Cannoni di Navarone, con la regia di John Lee Thompson e una grande prova di recitazione da parte di Gregory Peck? C’era una scena in cui i protagonisti, per superare il tedesco in cima alla scogliera gli lanciano addosso un pitone. Snake, tu non devi semplicemente distrarre le guardie. Troverai la risposta nel potere carismatico degli animali.” A quel punto, l’uomo sul campo rimise in tasca il caricatore e appoggiò a terra lo zaino. D’un tratto, si era ricordato di un libro sottratto durante la sua infiltrazione nella biblioteca della base, con il titolo di “Kami no karakuri kamikara de asobo!” Perfetto, pensò fra se e se. Voltando febbrilmente le pagine, tenendo sempre d’occhio il fondo del corridoio, Snake trovò rapidamente la pagina ritenuta migliore. Quindi la rimosse, ed iniziò febbrilmente a piegare la sagoma del pinguino. Con le armi deposte a terra, seguendo attentamente le istruzioni, finché d’un tratto, all’improvviso, non si trovò in mano l’oggetto desiderato. Usando l’elastico che teneva la coda dei suoi capelli, gli diede il tocco finale. Osservandolo non poté esimersi dal sussurrare con voce roca per via dei sigari “Ka-kawaii…” (Carino). Prima di gettarlo a terra e schiacciarlo con lo stivale. Operazione compiuta. Ora il pupazzo aveva la forma di uno shuriken, la proverbiale stelletta ninja, pronta per essere lanciato verso l’obiettivo desiderato. Trattenendo per un secondo il respiro, Snake assunse la posa plastica necessaria…
È un giocattolo. È un automa. È anche una bomba, ma non del tipo mirato a far danni. Serve, piuttosto, ad emanare un certo senso d’indiscutibile presenza, una suggestione stranamente graziosa. Sorprendere gli spettatori con il movimento. Il che lo classifica, in una singola parola, come una sorta di karakuri. L’automa tradizionale giapponese, usato nel corso degli spettacoli popolari o nelle case dei grandi signori, o ancora nei templi, per intrattenere i fedeli con rappresentazioni di personaggi o vicende prelevate dal folklore locale. Ma ciò lo rende in effetti, davvero unico nel presente caso, è il materiale con cui viene costruito: nient’altro che semplice carta, inchiostrata sulla base del soggetto di volta in volta selezionato. Perché fa parte di una lunga serie di personaggi, progettati e disegnati da Haruki Nakamura, un vero e proprio gigante di questo settore. Artista rinomato nel suo paese, con diverse mostre all’attivo e almeno una partecipazione al Japan Media Arts Festival (2010) in qualità di scelta della giuria, per non parlare delle svariate collaborazioni pubblicitaria con aziende di larga fama, l’autore è assurto alla fama internazionale grazie proprio alla pubblicazione di una serie di libri, in cui la sua particolare abilità dell’ingegneria cartacea (come lui stesso ama chiamarla) veicolava quest’antica sapienza in un formato piatto e più facilmente trasportabile. Un po’ come i mobili dell’Ikea. Ma poiché i suoi piccoli personaggi avevano tutti, nessuno escluso, la scintilla del movimento, egli decise di chiamarli kamikara, da kami (紙) carta, e le prime due sillabe in alfabeto katakana (カラ) che compongono la parola karakuri. L’effetto risultante è notevole. Sfogliando il testo sopracitato o uno qualsiasi degli altri sei elencati sulla sua homepage ufficiale (ospitata sull’antico portale Geocities, tanto per tornare indietro con la memoria) si scopre un mondo di esseri ad apertura automatica, squali che mordono giocosamente le dita infilate in una busta postale, coccodrilli che nascondono in bocca rane dal grande sorriso, uova spigolose con il pulcino a serramanico incorporato… È un vero trionfo della più incredibile fantasia.

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Suoni musicali che provengono da un palloncino

Sous le ciel de Paris… Sotto il cielo di Parigi è nata oggi una canzone. Questo è ciò che suona il bielorusso Aliaksei Zholner direttamente dall’omonimo film del 1951, ovviamente meno la suggestiva voce di Edith Pilaf, sul piccolo strumento musicale che si è costruito nel corso delle ultime giornate dedicate al suo hobby molto, molto particolare: assemblare modellini cartacei di macchine complesse, premurandosi che esse funzionino in ciascuna delle loro parti. Prima che me lo chiediate… Motori, soprattutto. Di automobili che non esistono, neppure nel pensiero più sfrenato dei progetti futuribili, perché sarebbero fin troppo leggere per restare in strada. Basterebbe un refolo di vento, a farne involontari aeroplanini… Ed anche ciò è parte della storia che di questo paio di mani prive di un volto (se si esclude il profilo presente su Linkedin, di un programmatore che potrebbe o meno essere lui) una tipica leggenda moderna del Web, periodicamente perpetuata alla pubblicazione di un nuovo esauriente video, in cui l’ingegnere misterioso ci dimostra le straordinarie capacità della sua ultima creazione, includendo generalmente schemi da stampare ed istruzioni per tentare di costruirsi la stessa cosa. Ma non oggi, non stavolta: che sia tutto diverso dalle occasioni delle volte precedenti, del resto, ci appare indubbiamente chiaro al primo sguardo del soggetto scelto per questo singolare exploit. Non più una serie di cilindri, ma di canne, di carta, di musica e pensieri. Si, l’avete capito bene: Mr. Working Papercraft ci ha fatto un organo di carta, completo di 18 tasti bianchi e neri, altrettante valvole e il sistema di condotte che permette all’aria d’intonare il canto ed il messaggio angelico che lo accomuna al più caratteristico strumento in uso nelle chiese. Macchina meravigliosa, pari quasi a una locomotiva, per suonare la quale un tempo erano richieste fino a tre persone oltre al suonatore, ovvero l’addetto al mantice, il tiraregistri e colui che gli voltava le pagine dello spartito. E non credo che neanche quest’ultimo, avrebbe potuto immaginare che un giorno la “carta da musica” sarebbe diventato il materiale, ed invero l’essenza stessa dell’intero apparecchio di siffatta potenza e ponderosa sofisticazione. Mentre al posto del pesante attrezzo per introdurre l’aria nel sistema, qualcuno potesse pensare di affidarsi al semplice involucro di lattice impiegato per i gavettoni…
Perciò guardate e stupite. O meglio ancora, usate il senso dell’udito per giungere ad un tale sentimento, facendo mente locale sull’insolita maniera in cui le note sembrano propagarsi nell’aere della scena, accompagnate da un vibrato carico di un fascino impreciso. Questo perché, inevitabilmente, la carta usata da Zholner non ha le stesse caratteristiche di solidità e resistenza del metallo d’ordinanza, finendo per connotare ciascuna emissione con sottintesi ed un carattere del tutto inaspettato. Tanto che qualcuno, tra i commentatori del video, arriva a chiedersi se non siamo di fronte a un nuovo tipo di strumento musicale, degno di essere ricostruito in dimensioni reali. Si, come no… Per essere suonato dentro una chiesa di cartone, dietro un altare di polistirolo, sotto una volta tratteggiata con i pastelli Crayola… Voglio dire, esistono anche cose più bizzarre a questo mondo. E dove esiste la funzione, tanto spesso, segue l’intenzione. Che può rendere possibile QUALSIASI cosa. Benché sia necessario ammetterlo, difficilmente due di queste macchine potrebbero suonare assieme. In primo luogo, perché come ammette lo stesso autore l’opera di accordamento, se così vogliamo definirla, è stato il frutto di una lunga serie di tentativi fatti per gradi. A tal punto le caratteristiche ineguali della carta, il suo spessore variabile anche al micron e le piccole imperfezioni presenti nella piegatura, potevano influire sul timbro e il tipo della nota riprodotta. Il che, incidentalmente, è anche la ragione per cui mancano stavolta le istruzioni chiare di cui sopra; anche fornendole, nessuno riuscirebbe a riprodurre questo particolare organo in ogni minima parte, a partire da quella fondamentale del suo canto. Anche se a dire la verità, immagino sarebbero parecchi a volerci provare.
Nel film di Julien Duvivier, memorabile al tempo della sua uscita, le suggestive note fuoriuscite dalla creazione bielorussa diventavano l’accompagnamento ad una serie d’incredibili coincidenze, che univano per una sola notte la vita di sei abitanti della città francese delle luci, attraverso sofferenze, peripezie e preoccupazioni, prima del finale in cui “Il offre un arc-en-ciel” letteralmente “esso” gli offrisse l’arcobaleno. A simboleggiare come nulla possa esistere da solo, privo del segno e il senso delle circostanze, così come la musica è il prodotto di un fluire consequenziale di suoni. E questo mirabolante piccolo apparato, in definitiva, non è altro che l’ultima espressione di una lunga serie di creazioni, almeno in parte, degne di essere citate…

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Il mago delle armi giocattolo costruite in casa

Coat Hanger Gun

“Si lo so, starò attento ai sovietici. L’ho vista anch’io, l’altro giorno, la tv!” Giunto all’uscio di casa, il piccolo soldato Johnny scrutò sapientemente l’orizzonte, prima di fare un passo fra la luce di un tiepido mattino di aprile. Ancora una volta era domenica, e questo poteva significare solamente una cosa: tempo di far la guerra. Naturalmente, dopo la sesta battaglia del quartiere Five Points, la stesura di un piano non era più davvero necessaria. La sua sapienza di un veterano di 13 anni, unita alla visione ripetuta di dozzine di film con Roy Rogers, Hopalong Cassidy e Davy Crockett, gli permetteva di non aveva il benché minimo dubbio sui luoghi in cui aspettarsi agguati, cecchini e il principale schieramento degli indiani, ovvero la squadra scolastica di pallavolo capeggiata dalla bionda guerrigliera della IV C. Inoltre, grazie all’arma segreta ricevuta in dono per il suo compleanno, almeno per quest’oggi non c’era il benché minimo dubbio: avrebbe vinto lui. Socchiudendo gli occhi per schermarsi dal sole, Johnny tirò fuori dallo zaino il plasticoso ma potente fucile che portava il suo stesso nome con la J, altresì talvolta definito in modo più anonimo come l’O.M.A. (One Man Army) della Deluxe Reading. Uno strumento bellico dal peso di quasi due Kg e lungo poco meno di un metro, dotato di sette terribili modalità di fuoco. Era dai tempi della crisi dei missili cubani, risalente a circa un paio d’anni prima, che mandavano a ripetizione la pubblicità in tv. Controllando che le diverse munizioni fossero facilmente raggiungibili dalla tasca frontale, laterale e interna del gilet, fece un sorriso furbo e prese ad avviarsi di buona lena verso il parco cittadino, dietro la scuola media dell’East High.
Il primo assalto non tardò ad arrivare. Mentre Johnny guardava a destra, poi a sinistra prima di attraversare la strada, come gli era stato inculcato faticosamente dai suoi genitori, udì il grido belluino che annunciava l’immancabile assalto del suo vecchio amico e commilitone Kevin Wilson, reduce dal 10 e lode al compito di matematica, premiato con l’acquisto dal “Piccolo fucile spaziale dell’astronauta” che come lui ripeteva ossessivamente dall’altra mattina: “Spara veramente, te lo giuro, spara veramente!” Prima ancora che l’amico potesse balzare fuori dall’aiuola, Johnny si era già voltato, aveva aperto il sostegno pieghevole dell’O.M.A. e si era gettato a terra, alla maniera di Clint Eastwood nel suo ultimo spettacolare film, Per un pugno di dollari. In quel solo fluido gesto, aveva estratto la granata ovoidale e l’aveva collegata all’asticella di lancio, mentre la potente molla raggiungeva in automatico la massima tensione. Kevin, alla sua rapida reazione e soprattutto comprendendo al volo l’amico stesse realmente tenendo in mano, esitò per un singolo momento. Più che sufficiente ad essere raggiunto in pieno petto dal proiettile, in un colpo che ben sapeva essere risolutivo. Le regole del gioco erano scritte nella convenzione: chi non aveva armi giocattolo, come naturalmente le compagne di classe, poteva limitarsi ad usare un vecchio modello, facendo BANG! Con la voce. Mentre un colpo diretto non avrebbe consentito la sopravvivenza.  Il bersaglio non sembrò, tuttavia, risentirne granché: “Ma…Ma… Quella…È…” Johnny sorrise. “…Te lo confermo. Che te ne pare?” Fantastico, rispose lui. Così alleatosi per la giornata, i due proseguirono verso il fronte di battaglia.
I cancelli del giardino si spalancarono come le fauci di un dinosauro giapponese, mentre un lieve vento iniziava a soffiare tra le fronde, silenziosi testimoni dell’evento. Il distante gorgogliare della fontana dedicata ad Alan Shepard, primo astronauta e nuovo eroe americano, non poteva che coprire totalmente i passi del nemico. Tuttavia, ancora una volta, Johnny sfoderò il suo rinomato sesto senso. “Kevin, smetti di gongolare e corri verso a ore 15, mettiti dietro quell’albero. Kevin! Hai capìto? Si. Perfetto. Io le aspetterò qui.” Erano in quattro, dai lunghi capelli per lo più bombati, in un solo caso raccolti in una coda di cavallo. Le larghe gonne alle ginocchia decorate con graziosi fiorellini assumevano l’aspetto di mimetiche militari, mentre l’odiata Susan, vincitrice del trofeo scolastico, sollevava il bastone nodoso che aveva avuto lo spudorato coraggio di chiamare Il suo mitragliatore. “Ah, dannazione!” Mormorò tra se e se il soldato Johnny: “Io non le capisco proprio, le ragazze.”

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