Prima che le macchine portassero il borace

Per un raro, irripetibile istante, New York tacque. Era necessario del tempo, per venire a patti con quanto si era palesato sulle sue strade. Il gigantesco veicolo, se così poteva venire chiamato, occupava quasi l’intera 42° strada, dal Lyric Theatre all’Apollo del 223 West. Era una calda sera di questa estate dei primi del ‘900, quando Borax Bill fece il suo ingresso nell’elegante società mondana della Grande Mela. Per farlo, non avrebbe potuto scegliere un metodo più appariscente. Le luci stradali a gas, grande novità di quegli anni, illuminavano quasi a giorno la sua figura imponente, dalle ampie spalle e il cappello Stetson d’ordinanza, l’abito nero da cowboy malvagio che non avrebbe sfigurato in un film Western di 150 anni dopo. I primi segnali elettrici, recanti titoli come “Il mulino rosso” e “I Bimbi nel paese di Balocchia” pubblicizzavano le ultime operette provenienti dall’Europa, moda inarrestabile di quel momento. Alla stessa maniera il suo insigne predecessore e collega di inizio secolo, il maestro dei fucili e cacciatore Buffalo Bill, l’imponente personaggio era un vero praticante del suo mestiere, ma anche qualcosa di radicalmente diverso: un attore, un impresario, una figura pagata per il suo carisma. Ma a differenza di quest’ultimo, lui, lavorava da dipendente stipendiato. Della Pacific Coast Borax Company per essere più precisi, di proprietà del “Re” Francis Marion Smith, l’imprenditore figlio della sua epoca, che aveva saputo concepire il marketing dei suoi prodtti in maniera anacronistica e ultramoderna. “Avanti vermi, AARGH! Dannati zoccolimosci scansafatica, non vi fermate! Questo carico dannato deve giungere in orario!” Gridava, mantenendo il feroce cipiglio vagamente piratesco, la frusta più lunga che fosse mai stata presa in mano da un uomo impugnata a due mani e fatta saettare, con precisione millimetrica, per produrre schiocchi nelle orecchie dei suoi “20 muli” (in realtà, i primi due erano dei cavalli). Mentre la gente, preso finalmente atto del significato della drammatica scena, esclamò:”È lui, è lui! È l’uomo del sapone…” L’immagine, chiaramente, era precisa ed impressa nell’immaginario comune. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Da quando il giornalista Steven Mather aveva convinto il magnate californiano a includere sulle latte dei suoi detergenti un’immagine che sarebbe entrata a pieno titolo nell’immaginario statunitense di quegli anni: quello della più potente, massiccio ed impressionante veicolo non-stradale che il mondo avesse mai conosciuto.
Il tiro del borace di Francis Marion Smith, in realtà un concetto ereditato dal precedente fallimentare proprietario della compagnia William T. Coleman, era un dispositivo funzionale e ben collaudato: si trattava, in primo luogo, di una coppia di carri legati assieme, ciascuno costruito in legno di quercia rinforzato con numerosi inserti metallici, e ruote del diametro di due metri dotate di “pneumatico”, che altro non era in realtà che una striscia di ferro dello spessore di 25 mm. Ciascun vagone aveva una lunghezza di 5 metri e una profondità delle sponde di 1,8, ed un peso a vuoto di 3 tonnellate e mezzo. Sul retro, era collegata un ulteriore vettura, costituita da un serbatoio d’acqua da oltre 4.500 litri, che sarebbe servito a mantenere in funzione l’impressionante sequela di animali che costituivano il motore di un simile gigante. A uno spettatore moderno, difficilmente sarebbe sfuggita l’analogia con il camion da guerra dell’ultimo film di Mad Max, in cui la benzina trascinata a traino era il bene più prezioso per tutti coloro che tentavano di sopravvivere nell’alto deserto radioattivo. Un paragone che in effetti non finiva lì: perché l’ambiente d’utilizzo, il vero luogo d’appartenenza dell’intero impressionante apparato (escluso Borax Bill in persona) era uno dei singoli luoghi più inospitali di questo pianeta, e sicuramente il peggio del Nord America: il deserto del Mojave antistante alla valle incandescente, all’indirizzo della quale la guida William Lewis Manly  aveva esclamato famosamente nel 1849, a seguito di un attraversamento particolarmente sofferto con alcuni cercatori d’oro californiani, “Addio ed a mai più rivederci, mia cara Death Valley.” Il termine, quindi, rimase. Ma non scoraggiò gli altri pionieri. Uomini come Aaron Winters, veterano della guerra civile, che stanco delle dispute della società umana proprio lì si era ritirato assieme alla moglie Rosie oltre 20 anni prima, vivendo in un piccolo cottage in situazione di povertà. Finché un bel giorno, il prospettore del Nevada non gli aveva mostrato un candido campione di borace, e chiesto se ce ne fosse dell’altro all’interno del suo terreno. Al che, la sua vita presa una svolta del tutto inaspettata…

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