La minuscola esplosione di luce che permette ai gamberi di effettuare la fusione nucleare

Parrebbe semplice, in base ai crismi logici, comprendere il funzionamento di un mondo in cui nulla può essere creato o distrutto senza che ne resti un qualche tipo di traccia. E la trasformazione della materia, da uno stato all’altro, rispetta regole precise che corroborano l’interrelazione imprescindibile di un catalogo di cause interconnesse tra loro. Ma sono gli effetti, questi sconosciuti, che possono trarci in inganno, per il tramite dell’incerta concatenazione degli eventi in circostanze assai particolari. Come quando l’intero processo che dovessimo scegliere di prendere in analisi, con tutto ciò che esso comporta, tende a dipanarsi nel giro di poche decine di picosecondi, ovvero qualche trilionesimo del tempo necessario perché la lancetta più lunga dell’orologio possa compiere un singolo scatto sul percorso della sua circonferenza. Forse abbastanza, per quanto ci è dato di sapere, affinché nasca una stella o un buco nero collassi su se stesso, e certamente una quantità di tempo sufficiente per lasciar verificare il fenomeno più simile riproducibile in laboratorio, così come riesce a produrlo una singola creatura vivente in natura. La cavitazione delle bolle d’aria, ovvero la loro implosione all’interno di un fluido per l’abbassamento della pressione locale, può avere molte cause a partire dalla formazione di zone di vapore durante il pompaggio, ma forse la più singolare è la seguente. Una fonte sonora, in molti casi artificiale, emette le onde che producono una vibrazione all’interno di un recipiente. Tali forze, oscillando in modo ripetuto, trasmettono una forza discontinua all’involucro formato da una sacca d’aria grossomodo sferoidale. Finché quest’ultima comincia a espandersi, ridursi, espandersi e ridursi a ripetizione; immaginate a tal proposito il comportamento del celebre giocattolo scientifico del disco di Eulero: un pegno metallico ruota vorticosamente sulla superficie liscia di un piedistallo. Con l’esaurirsi della spinta il suo asse si sposta gradualmente verso il basso, permettendo all’oggetto di disporsi obliquamente. E il suono risultante aumenta di frequenza, diventando all’ultimo secondo un sibilo particolarmente acuto e distintivo. Ecco allora come si presenta, quel fatidico momento, quando rapportato all’esistenza stessa della bolla in questione: con la sua scomparsa e il conseguente rilascio di un lampo di luce visibile. La cui origine precisa, per quanto possa sembrare improbabile, resta ancora oggi del tutto incerta. Non che manchino teorie in materia, dalla prima volta in cui venne osservato in condizione multipla (MBSL o multi-bubble luminescence) dall’accidentale rilascio di ultrasuoni all’interno di un fluido di sviluppo fotografico nel 1934, mentre gli scienziati Frenzel e Schultes stavano studiano il sonar presso l’Università di Colonia. Causando la comparsa sulla lastra di minuscoli puntini la cui origine, fin da subito, venne messa istintivamente in relazione con lo sviluppo di un calore particolarmente intenso. Soltanto nessuno avrebbe pensato, in quell’epoca, che esso potesse superare in modo significativo quello generato dalla superficie stessa del Sole…

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L’enorme distruttore che costituisce il nucleo più potente mai osservato dall’uomo

Tentando di considerare quale sia la presenza di maggiori dimensioni che riesce a passare inosservata, le persone comuni tendono a vagliare insetti, piccoli mammiferi, presenze notturne come pipistrelli o gufi. Mentre gli astronomi rivolgono la mente a nubi gassose o pianeti raminghi, possibilmente liberati dalla presa gravitazionale della loro stella. Semplicemente esiste un ordine di luminosità e grandezza, oltre il quale non è facilmente immaginabile l’assenza di una presa di coscienza, per il tramite di annotazione sui diari condivisi della nostra memoria. Ma che dire, invece, di tutti quei casi in cui una cosa tende ad essere fraintesa? Come quando nel 1980, durante il Sondaggio Stellare del Cielo Meridionale del telescopio ESO in Cile, a un punto luminoso tra milioni venne attribuito il numero di serie J0529-4351, tale da porlo in mezzo al novero di una delle tante tra quelle che vengono comunemente dette stelle fisse dei cieli. Benché molti siano perfettamente coscienti della maniera in cui lo splendore di un corpo ardente possa dirsi la diretta risultanza di due fattori: potenza e distanza. Così che la prima possa essere, talvolta, sottovalutata per sbaglio. Stiamo parlando in altri termini della maniera in cui l’impiego della matematica computerizzata o meglio un tipo di ragionamento automatico su parametri regolarmente imposti possa, in determinate circostanze, condurre a conclusioni errate. O “piccoli” errori della portata di sette milioni di anni luce, ovvero 15.000 volte la distanza tra il nostro Sole e il pianeta Nettuno. Questa l’effettiva ampiezza, dunque, dell’alone circostante la “cosa” che possiamo conseguentemente definire straordinariamente distante ed in funzione di ciò, antica. In quanto altrimenti, non sarebbero ancora trascorsi i 12 miliardi di anni necessari affinché la sua presenza potesse rendersi visibile anche da questo particolare distretto dell’Universo. Due fattori a dire il vero non direttamente correlati quando si considera che siamo necessariamente innanzi al tipo di oggetto cosmico chiamato tradizionalmente quasar, fin da quando nel 1964 l’astrofisico Hong-Yee Chiu ebbe la necessità di riferirsi ad un qualcosa che era Quasi una Stella, ma non Proprio. Anni sarebbero trascorsi, conseguentemente, affinché l’utilizzo di strumenti d’analisi maggiormente avanzati permettessero di comprendere di cosa stavamo effettivamente parlando: il tipo di di orizzonte degli eventi, simile ad un letterale uragano galattico, che ruota attorno ad un buco nero supermassiccio o SMBH. Categoria entro cui la massa complessiva viene misurata normalmente in milioni o miliardi di volte la nostra insignificante stella o come in questo caso, oltre 500 trilioni (milioni di bilioni o 1 milione alla terza) tale entità specifica misura. O per usare un’altra metodologia internazionalmente beneamata molti, moltissimi campi da football americano. Abbastanza a dire il vero, da farne di gran lunga l’oggetto più potente mai osservato da occhi umani…

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L’asse geomagnetico del pino che sinuosamente ambisce all’equatore terrestre

In un possibile universo alternativo in cui gli alberi potessero affondare le proprie radici nel gelido ghiaccio dell’Antartico, potendo in qualche modo trarne il necessario nutrimento, sussisterebbe un arbusto contrario ad ogni tipo di nozione pregressa in campo botanico: il tronco affusolato e rugoso, ben coperto dalle foglie triangolari a forma d’aghi spiraleggianti che s’intrecciano tra di loro. Una forma che partendo perpendicolare verso il cielo, come si confà ad ogni altro esponente di questa particolare categoria vegetale, ben presto compie un’elegante curva, deviando progressivamente in diagonale. Fino a ripiegarsi, assurdamente, a 90 gradi, avendo continuato la sua attività di crescita in maniera perpendicolare al suolo. Ora in questo scenario ipotetico e surreale, sarebbe lecito aspettarsi l’occorrenza di un qualche fenomeno rilevante, come forti raffiche di vento o l’intervento intenzionale di un animale. Persino, perché no, l’uomo. Ma se di Araucaria columnaris, il vetusto pennone noto nel linguaggio comune come pino colonna o pino di Cook (dal nome dell’esploratore stesso, non le isole) in quel posto assurdo ne crescessero a decine, tutti assieme o in diversi momenti successivi, questo loro aspetto ne costituirebbe un filo conduttore del tutto imprescindibile ed evidente. Costituendo una caratteristica congenita di queste piante, universalmente attrezzate dal proprio corredo genetico a sfidare il concetto basilare di “foresta”. Vi sono in effetti diverse teorie, tutte allo stesso modo valide e perciò inerentemente confutabili, in merito al meccanismo attraverso cui la pianta risulti incline ad (ahem!) inclinarsi. Pendendo non soltanto verso meridione come anche fatto da talune specie di palma del Nuovo Mondo (ad es. la Yucca brevifolia della California) al fine di massimizzare l’esposizione alla luce, ma anche e in modo particolarmente distintivo, nella direzione totalmente opposta qualora siano ancora situate agli antipodi, ovvero presso il continente da cui provenivano originariamente. Essendo nella fattispecie originarie delle isole della Nuova Caledonia, colonie francesi dal XIX secolo, situate 1.500 Km ad est dalla costa australiana. Il luogo presso cui secondo l’aneddoto maggiormente accreditato, James Cook ne aveva prelevato degli esemplari quasi cento anni prima, trasportandoli fino alle isole Hawaii, dove crebbero e continuarono a moltiplicarsi attraverso gli anni. Venendo conseguentemente trapiantate in molti altri diversi paesi del mondo, in forza delle loro qualità decorative assolutamente degne di nota. E permettendo a distanza di tempo, come confermato anche in uno studio del 2017 di Matt Ritter e colleghi, che non soltanto il pino colonnare punta normalmente “verso l’equatore”, un comportamento letteralmente ignoto in qualsivoglia altra tipologia d’albero, cespuglio o filo d’erba, bensì tende statisticamente a farlo in modo progressivamente più rilevante, tanto più si trova distante da quest’ultimo. Con una pendenza media di 8 gradi 55, superiore del doppio a quella della torre di Pisa. E casi limiti ancor più notevoli e rilevanti…

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L’effimero disco dell’occhio di Sauron fotografato nei cieli di Ancona

Molte delle questioni scientifiche capaci di acquisire la condizione di viralità su Internet, diffondendosi a macchia d’olio sui molteplici canali paralleli e gruppi di confronto d’opinioni online, riescono ad accedervi mediante l’accompagnamento di un immagine notevole o in qualsiasi modo fuori dall’idea comune o percezione dello spazio immanente. Una finalità più facilmente perseguibile qualora sia possibile, per chi sceglie la didascalia di turno, alimentare un qualche tipo di utile fraintendimento. Vedi l’idea, possibile ma certamente non probabile, che un fenomeno luminoso particolarmente inquietante dalla forma di una ciambella piatta e rossa, abbastanza vasto da estendersi tra la cima degli Appennini e la costa della Croazia, possa essersi trovato ad incombere per un tempo rilevante sulle nostre teste, senza che una percentuale particolarmente alta della popolazione possa averne impresso una fedele immagine nei diari della propria memoria. Ed è qui che appare utile, ancor prima d’intavolarne una trattazione, menzionare “casualmente” la maniera in cui l’ELVE o Elf ritratto nella foto scattata da Possagno il 27 marzo ad opera di Valter Binotto, esperto documentarista e cacciatore di TLE (Eventi Luminosi Transienti) abbia avuto una durata del suo spettro visibile pari ad una mera frazione di secondo. Effettivamente catturato su pellicola soltanto grazie all’artificio, frutto della tecnologia moderna, di un video registrato con un alto numero di fotogrammi, tra cui fermare e pubblicare quello risultante, per ovvie motivazioni, maggiormente funzionale a suscitare nuove linee di ragionamento. Il che quadra pienamente col pregresso scenario dello studio di questa intera categoria di fenomeni, generalmente fatto risalire al 6 giugno del 1989, quando il ricercatore del Minnesota R.C. Franz lasciò una videocamera puntata verso il cielo notturno per l’intero trascorrere di una notte tempestosa. Riuscendo finalmente a immortalare quella lunga serie di bagliori rossastri dalla forma vagamente colonnare di cui molti avevano parlato in termini poetici attraverso i secoli, attribuendoli a presenze ultramondane o l’ira inconciliabile dei giganti. Fino all’ulteriore conferma, nell’ottobre del 1989, giunta dalla pubblicazione delle fotografie scattate dall’orbita durante la missione dello Space Shuttle STS-34, che oltre alle suddette immagini chiamate in gergo sprites o spiriti (vedi) ne identificò un tipo nuovo dalla forma e progressione totalmente distinta. Tanto da meritare l’acronimo identificativo sopra menzionato, corrispondente all’intera frase in lingua inglese “Emission of Light and Very Low Frequency perturbations due to Electromagnetic Pulse Sources” – ELVES ovvero il plurale dell’immortale razza con le orecchie a punta, le cui vicissitudini hanno arricchito la mitologia di parecchi paesi. Numerose parole, e qui appare logico sospettare anche l’intento tipicamente statunitense di arrivare ad un acronimo dal doppio significato, per riferirsi a quella stessa immane visione così documentata da Binotto da una semplice finestra del suo appartamento. Potendo approfondire visualmente il nocciolo della questione, ovvero quale possa essere l’esatta origine di un così agghiacciante prodigio…

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