2,50 metri di dolcezza: il genio della cioccolata ha finalmente costruito la sua giraffa

Giunge un giorno, nella carriera di un grande artista, in cui avendo raggiunto la meta finale della via maestra egli può soltanto andare oltre, oppure prendere la decisione mai eccessivamente semplice di spostarsi di lato. Ovvero creare, tra il novero delle proprie proposte, qualcosa di talmente inaspettato e imprevedibile che il pubblico iniziato alle sue opere potrà soltanto declamare: “Oh, Savana!” E per il demiurgo sconosciuto dell’Evoluzione, colui o colei che guida il corso delle cose pratiche connesse all’esistenza e il mutamento delle cose viventi, tale attimo è potenzialmente identificabile nella creazione (o per meglio dire, presa di coscienza a posteriori) dell’animale di terra più alto dell’Africa e del mondo. La creatura oblunga, dalle zampe e il collo formidabile, perfettamente adattata alla necessità di consumare i rami più alti delle piante, per poi correre o difendere se stessa e il proprio cucciolo da eventuali assalti dei predatori. Un singolo calcio, letale e attentamente calibrato, alla volta. Perciò non è realmente possibile per chiunque abbia occhi in grado di apprezzare la natura, e mani adatte a riprodurla su scala ridotta per il pubblico divertimento, restare indifferenti alle tribolazioni di una tale meraviglia biologica, il modo in cui si muove o beve l’acqua, la sua vita vissuta al limite degli strati inferiori dell’atmosfera. Qualunque sia la sostanza o materia prima della propria arte. Trascorsa Pasqua ed ormai prossimi al sopraggiungere dei mesi estivi, appare d’altra parte sempre più remota l’ipotesi d’introdurre nelle nostre o vostre vite grandi quantità di cioccolata, intesa come la materia prima costituita dai semi della pianta di cacao appositamente lavorati e adulterati con copiose quantità di zucchero e conservanti. Questo perché niente può sconfiggere la densa aggregazione di una simile materia, tranne il caldo. Vedi quello ingenerato dalla candida emozione, e lo spontaneo senso di sorpresa, di una mostra organizzata con le opere di Amaury Guichon, celebrato chef pâtissier franco-svizzero fino al punto di aver conseguito i fasti di una serie televisiva su Netflix (davvero, è possibile immaginare un traguardo più elevato?) in cui illustra a un gruppo di studenti le sue tecniche particolari per dar forma ai sogni della mente, in una guisa che sia non soltanto commestibile ma addirittura, con il giusto approccio mentale, potenzialmente deliziosa. Nessun uso nelle opere di quest’artista, in effetti, del diffuso quanto problematico fondant, lo zucchero possentemente solidificato il cui sapore viene talvolta descritto utilizzando metafore tutt’altro che lusinghiere. Ma soltanto, o quanto meno soprattutto, quella lubrica e golosa essenza di color marrone, un ingrediente che è prezioso anche al di fuori dell’effimero atto di scolpire la gastronomia in quanto tale. Da lui usato, plasmato ed intagliato nell’amata serie di realizzazioni, protagoniste dei suoi video pubblicati su Instagram e TikTok a partire dal 2016, con una quantità di visualizzazioni complessive che ormai sfiorano i 10 milioni. L’effettiva contingenza, rara e irripetibile, per fare quello che in un certo senso aveva già da tempo costituito l’asse meritevole del suo destino. Plasmare con le mani l’animale che, tra tutti quelli costruiti fino ad oggi, appare non soltanto più realistico e perfettamente proporzionato. Ma pare addirittura prossimo ad emettere, aprendo la bocca e alzando gli occhi al cielo, il suo riecheggiante verso (la famosa Voce della Giraffa) nel silenzio temporaneamente basito della cucina…

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La bianca essenza della mela prosciugata in un leggiadro dessert russo

Nel romanzo degli anni ’30 di censurato Andrei Platonov intitolato Lo Sterro, censurato per oltre mezzo secolo dai vertici del partito comunista, un gruppo di operai sotto la supervisione di un orso magico lavora senza sosta alla costruzione delle fondamenta di un un palazzo in una società distopica, destinato a sorreggere la futura e impossibilmente vasta abitazione del proletariato. Nel susseguirsi di una serie di surreali e drammatiche vicende, il protagonista della storia Voschev giunge quindi a condividere i propri dubbi esistenziali con la giovane operaia Nastya, mentre i loro compiti continuano a farsi progressivamente più faticosi, inutili e privo di un’evidente risoluzione ed un ritorno alla libertà. Fino al triste epilogo in cui lei, ammalandosi di polmonite, all’improvviso deve smettere di lavorare e nel giro di pochi giorni, lascia il regno dei viventi per passare a miglior vita. “Portatemi le ossa di mia madre” Chiede delirando nel suo letto; “Riportatemi alla fabbrica” ma soprattutto nei momenti di lucidità rimastogli, “Vorrei tanto mangiare ancora una volta la пастилу (pastyla)” Quel particolare tipo di barretta dolce alla frutta che aveva con se durante il turno di lavoro, pratica fonte di calorie senza lasciare il turno ma anche il simbolo di un’innocenza e lo spontaneo amore della gioventù per il mondo, persino in un luogo tanto cupo, incomprensibile e privo di speranze per il futuro.
“Qualche volta, una mela è soltanto una mela” disse qualcuno di notoriamente saggio, con riferimento alle implicazioni psicologiche ed il senso del complesso funzionamento della mentalità umana. Come possiamo osservare a pieno titolo dopo il trascorrere di tanti anni, quel qualcuno di sicuro non era un cuoco. Ovvero l’alchimista umano dei sapori e dell’aspetto più profondo delle cose gastronomiche, che attraverso l’utilizzo di processi, elementi e metodologie, non fa altro che riuscire a trasformare una cosa, in un’altra. E non c’è trasformazione maggiormente sorprendente di quella messa in atto per un dolce fin dall’epoca tardo-medievale nel più vasto paese al mondo, come testimoniato in una lettera scritta già da Ivan il Terribile nel 1578, durante il suo soggiorno presso il monastero Kirillo-Belozersky. In cui faceva riferimento a una “prelibatezza creata con il succo delle bacche” creata, a quanto aveva avuto modo di sapere, presso gli abitanti delle piccola città di Belyov e Kolomna, situate rispettivamente sulle rive del fiume Oka nell’oblast di Tula, e ad appena 113 Km dalla capitale Mosca. Naturalmente, considerata la complessità e fatica necessaria per porre le basi di questo particolare dolce, esso sarebbe rimasto per molti anni a seguire una pietanza possibile soltanto sulla tavola dei ricchi e potenti, ne é realmente possibile ricondurre la reale pastila o pastyla, riscoperta solamente in epoca recente, alle gelatine tascabili prodotte industrialmente a partire dagli anni della Rivoluzione, quando l’intero corpus di conoscenze appartenenti al mondo dei privilegiati venne fatto scomparire per esplicita ed imprescindibile decisione dei bolscevichi. Laddove l’effettiva produzione sistematica di una simile prelibatezza, creata a partire preferibilmente da una specifica tipologia di mele o frutti di bosco, tendeva a richiedere il lavoro di una grande quantità di uomini e donne, per un periodo commisurato alla quantità desiderata. Nient’altro che i pomi appartenenti alle varietà dal gusto acido Antonovka e Zelenka, più altre ormai da lungo tempo sparite, cotte al forno e poi laboriosamente tritate, spremute e rimescolate, fino alla creazione di un impasto che veniva inizialmente accompagnato da copiose quantità di miele e chiare d’uovo, al fine di donargli una solidità maggiore. Finché la crescente disponibilità di quella sostanza quasi magica, lo zucchero, non permise alla pastila di acquisire il gusto per cui è oggi particolarmente famosa. Ma non prima di essere tenuta in forno al fine di asciugarsi, per un periodo di molte ore che può anche raggiungere i due giorni, fino all’acquisizione di una consistenza solida e gommosa, tale da ricordare il tipico marshmallow statunitense. Ed un aspetto di sicuro sorprendente, vista la colorazione candida e perfetta come la neve. Visione rara, quest’ultima, per tutto il periodo comunista e fino alla riapertura dei confini successivamente alla caduta dell’Unione Sovietica, quando paradossalmente la globalizzazione culturale e la ripartenza dei processi sociali avrebbe consentito a due donne di realizzare il proprio sogno. Riportando indietro le lancette della tavola fino a una perduta, ed ormai quasi leggendaria, età dell’oro…

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Il seme al centro di un’industria: la cioccolata

Visto da fuori, sembra proprio un melone d’inverno. Se soltanto quest’ultimo si fosse ritrovato il DNA del suo cultivar incrociato con quello di una misteriosa pianta preistorica, assumendo un aspetto selvatico e strano. Bitorzoluto, crestato, dalla solida scorza. Se lo scuoti, produce un suono: drrr, drrr. E se vi dicessi che questo frutto, in effetti, l’avete mangiato non soltanto una volta, bensì migliaia? Centinaia di migliaia di volte? Ci sono persino buone probabilità che esso rappresenti, a conti fatti, il vostro cibo preferito. Caso vuole in effetti che, per ogni volta in cui i vostri genitori vi redarguivano con il consiglio: “Basta coi dolci, mangia verdure” era loro intenzionale scelta la mancata considerazione di alcune delle componenti vegetali, pressoché imprescindibili, in ogni merendina che si rispetti. Tra cui lo zucchero (canna, barbabietola) la vaniglia (innocente orchidea) e lui/lei, la sostanza Theobroma, dall’espressione greca che vuole significare “[il più] divino tra gli alimenti”. Cacao che nutre, polvere lenitrice, in grado di curare ogni fisima dello spirito mentre assuefà il corpo.
È incredibile, tutto considerato, quanto il consumatore medio di questa delizia, tra le più amate dai palati del mondo moderno, abbia poco presente il suo aspetto al momento in cui prende forma nel mondo della natura. In mezzo alle foreste di Brasile, Colombia e Perù, dove un tempo costituiva una parte inscindibile dei più importanti rituali Maya ed Aztechi. Popoli tra i quali, la preparazione di una simile regalìa a guisa di bevanda era prerogativa e appannaggio esclusivo delle classi al potere, costituendo un segreto gelosamente custodito dai sacerdoti dei templi al centro di ciascuna delle due civiltà. Ma il cacao era anche una merce di scambio, nel senso che i suoi semi piuttosto grandi, oggi chiamati fave, circolavano in forma essiccata al di là dei confini, assolvendo alla mansione di merce di scambio, una sorta di valuta ante-litteram. Bitcoin commestibile, se lo vogliamo. Finché il 15 agosto nel 1502, una data destinata a restare iscritta nella storia della gastronomia, Cristoforo Colombo e suo figlio Fernando, nel corso della loro quarta missione nelle Americhe, catturarono una canoa poco fuori dal territorio di Montezuma. All’interno della quale, con interesse, scoprirono l’alimento che gli riuscì di associare alle testimonianze frammentarie della strana, brodosa bevanda di cui gli “indios” andavano così eccezionalmente fieri. Fu loro scelta, quindi, per non dire imprescindibile prerogativa, inviare il carico verso la corte spagnola dei Re Cattolici. Dove inizialmente, il consenso delle opinioni in merito fu largamente negativo. L’approssimazione europea del cosiddetto chocolātl mesoamericano aveva in effetti un gusto forte ed amaro, essendo inoltre caratterizzato da una consistenza granulosa che lo rendeva difficile da mandar giù. Eppure, ben presto iniziò a circolare la voce che come tutti gli alimenti sgradevoli, il cacao facesse bene alla salute. Che potesse costituire, addirittura, la panacea di tutti i mali! È del resto una cosa nota che la theobromina, tossica per cani e gatti, sia una sorta di droga leggera, in grado di dare assuefazione. Quella che Colombo aveva riportato in Europa, stavolta, era la più leggera, e per questo pervasiva, di tutte le droghe della storia. Riusciremo mai a ringraziarlo abbastanza per questo?
Ma il mondo industriale è anche questo. Dimenticare, sull’onda del sogno post-modernista, la provenienza effettiva di tutte le cose, persino quelle più importanti per noi. Così all’inizio del video qui riportato, in cui lo youtuber H.I.S Survival ci mostra come fare la cioccolata “da zero” ci si può anche aspettare un certo grado di perplessità da parte dello spettatore medio. E persino disagio. Lo sapevate, ad esempio, che la barretta più amata da tutti i bambini è un prodotto della fermentazione, come la soia, la birra, o il cavolo coreano?

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Giovani cuochi creano un geode di ametista dalla cioccolata

Non tutti conoscono la leggenda del mistico eremita Ru Li. La cui sapienza non aveva limiti, poiché acquisiva le nozioni tramite il più istintivo dei sensi, quello che risiede presso le papille gustative umane. Ogni qualvolta il grande saggio percepiva la necessità di comprendere profondamente qualcosa, egli usciva dalla piccola caverna sopra le montagne di Mo Su. Camminando col nodoso bastone da passeggio, guidato da un’intuito quasi soprannaturale, raggiungeva l’obiettivo, ne prendeva un pezzo e lo mandava giù. Ru Li mangiava funghi, frutta, radici. Ru Li mangiava insetti, corteccia, piume. Ru Li mangiava persino, talvolta, piccoli pezzi di pietra. Tuttavia nella sua vita, permaneva un rigido senso del rimorso esistenziale. In quanto non aveva mai potuto, nonostante il desiderio, divorare la quarzite. Roccia metamorfica, spigolosa, semitrasparente, durissima, affilata e sfolgorante. Tanto che persino il più barbuto degli Immortali, per quanto avesse mai potuto concentrare il sommo spirito durante il pasto, avrebbe riportato danni all’apparato digerente. Allora sapete cosa fece, costui? Mangiò un libro di cucina, proveniente dalle terre d’India, ben oltre l’ultima montagna ad Occidente di Mo Su. E quando ebbe terminato l’ultima pagina, come ben sapeva che sarebbe successo, nella sua mente prese forma un’idea. E se…Pensò scrutando la foresta sottostante mossa da un’alito di vento…E se creassi da me un’imitazione della pietra, usando i limpidi cristalli di khanda, che la gente di quei luoghi estrae dalla pianta di zhū zhè? Certamente, la sapienza artificiale non è pari a quella che si fonda sulla pura e incommestibile realtà. Ma resta, pur sempre, una minima parte dello scorrere del Tutto…
Di sicuro, ricreare in cucina qualche cosa che proviene dalle regioni meno visibili del mondo naturale non è semplice. Soltanto in pochi, possono riuscirci. E sembra impossibile pensare che anche nella nostra generazione, così lontana dalla gemma dell’antica Età dell’Oro, possa vivere qualcuno in grado di riuscirci. Eppure, è capitato. All’inizio del mese, è capitato: grazie all’opera di due (+1) studenti del Culinary Institute of America (CIA) a New York. Alex O’Brien Yeatts (portavoce, grazie ad Instagram) e la sua collega AbbyLee Wilcox, che pare abbia sostituito un terzo senza nome, costretto ad abbandonare il progetto causa di un cambiamento di programma negli studi. Abbandonare, si. Perché volete sapere quanto ci è voluto, a completare l’incredibile forma di questo giganteggiante geode ricoperto di cioccolata, oltre ai molti altri simili di colore rosso, arancione, giallo…? Sei interi mesi. Abbastanza perché molti cibi, se tenuti in modo inappropriato, potessero letteralmente andare a male. Ma non questo, custodito all’interno di un qualche grande frigorifero o dispensa, in una delle più prestigiose istituzioni gastronomiche degli interi Stati Uniti! Oltre 180 giorni, trascorsi a ruotare regolarmente gli oggetti, nella speranza che al loro interno i cristalli si formassero nella maniera corretta… Il che ha fissato una data sul calendario “quasi” perfettamente adeguata. Il geode, dopo tutto, è una metafora decisamente efficace dell’uovo di Pasqua, con la sua struttura esterna opaca e priva di attrattive particolari, nascondente al suo interno materiali variopinti e preziosi. Una scrigno senza serratura o cardini… Stiamo parlando, in natura, del tipo di roccia che si forma in occasione di colate laviche, con la presenza di bolle di un qualche tipo di gas. La circostante pietra di derivazione ignea, solidificandosi con un gradiente di temperatura, sviluppa quindi uno spazio vuoto, all’interno del quale si sviluppano raggruppamenti di cristalli in funzione della composizione chimica e le infiltrazioni di liquidi entrati per il processo di percolazione. Attraverso centinaia di migliaia di anni, ad una velocità tale da permettere agli atomi di disporsi seguendo il proprio rigido reticolo cristallino. Il contenuto del geode può essere di vario tipo: zeoliti, carbonati, solfati, persino celestite o opali. Il geode di gran lunga più comune, tuttavia, resta certamente il quarzo, di cui una delle qualità più stimate, al conto del gioielliere, è l’ametista. Nient’altro che una varietà impura, contaminata dalle radiazioni e una certa quantità di ferro, che gli dona la caratteristica e molto apprezzata colorazione viola. Ora naturalmente, persino se ricoperto di cioccolata, non stiamo parlando di un materiale particolarmente piacevole al palato. Proprio per questo Alex e AbbyLee hanno deciso di sostituirlo con dello zucchero, trattato secondo l’antica metodologia del nabat persiano…

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