Rotatoria di un ponte tondo, situato sulla punta del mondo

Riesco facilmente a immaginare la Perplessità. Di un ipotetico straniero della Terra, che scorrendo le immagini catturate al binocolo del suo vascello interstellare, dovesse giungere a un particolare segmento del contesto sudamericano: giusto dove termina l’acuminata lama di coltello, puntata con fermezza verso il Polo Sud, che noi chiamiamo l’Argentina. E poco dopo l’ampia insenatura del golfo noto come Rio de la Plata, presso il territorio che possiede il nome di Uruguay. Ed oltre a quello, molte meraviglie, incluso il luogo in cui una lunga striscia di sabbia divide le acque dell’Atlantico da una laguna ricca di risorse faunistiche assai varie. In un punto strategico del tragitto tra i centri costieri di La Paloma e La Pedrera, dove trova posto, alquanto stranamente, una gigantesca lente d’ingradimento… O almeno così sembra tale segmento, per non dir una racchetta o l’elemento in plastica che forma le bolle di sapone, poco prima di trasformarsi in un ponte, dividendosi in due biforcazioni totalmente simmetriche. Per poi congiungersi di nuovo, all’altro lato delle acque intonse. Laguna Garzòn è il nome di questo luogo, e “Ponte della” quello dell’UMG (Oggetto Misterioso che Giace) con chiarissima dimostrazione di un’intento descrittivo, perché non è sempre necessario tendere ai confini della fantasia, rispettando chiaramente quello stile che da sempre è lecito associare al suo creatore: l’architetto che proprio in questo luogo trascorse un’importante parte della proprio gioventù, Rafael Viñoly Beceiro. Potreste conoscerlo, anche se non ricordate il nome, grazie ad importanti opere come l’alto palazzo residenziale 432 Park Avenue che si affaccia sul Central Park di New York o il bizzarro “Walkie Talkie” di Londra, alias 125 Greenwich Street, celebre per la problematica tendenza della sua facciata parabolica a concentrare la luce solare in un raggio della morte che squaglia la plastica delle auto parcheggiate innanzi. Una possibile segreta antipatia, nei confronti del principale mezzo di trasporto dell’umanità contemporanea che potremmo immaginare di trovare anche in questa sua più recente opera, completata nel 2016, apparentemente contraria a qualsivoglia principio di convenienza nel metodo scelto per percorrere una distanza tra punti A e B, proprio perché aumenta, senza dubbio, la lunghezza progressiva tra i suddetti & arbitrari punti. Ma l’alieno in questione, ragionandoci per qualche tempo, giungerebbe presto ad una chiara conclusione: che se un’auto compie quel tragitto in base ad un copione chiaramente considerato desiderabile dai committenti, il ponte avrà evidentemente assolto al suo duplice ruolo: primo, ridurre la velocità dei veicoli stradali e in conseguenza il frastuono generato dai loro motori, a immediato vantaggio dei succitati animali, (tra cui preziose popolazioni del cigno dal collo nero, le oche delle nevi e il fenicottero rosa) e secondo, permettere ai guidatori di passaggio di trasformarsi momentaneamente in osservatori del panorama, mentre tenere lo sguardo fisso innanzi ed il volante lievemente girato da una parte gli fa scorrere il paesaggio come fosse la scenografia di un’impressionante opera teatrale. Dedicata, per l’appunto, all’incommensurabile splendore della Natura…

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Il mercato futuribile di una sgommata che perpetra se stessa

Seduto rigido sopra il sedile, il pilota creativo affronta il rally col tenore di una sola pennellata: al termine di ciascun tratto rettilineo, quando giunge l’attimo cruciale della svolta, gira il suo volante “appena il giusto” affidandosi all’intuito del momento. Egli può esser abile, se vanta un certo grado d’esperienza, ma ogni sfida può della sua carriera è inerentemente soggetta ad influenze esterne: sta piovendo? Quanto sono consumate le sue gomme? C’è uno spettatore sull’interno della problematica banchina? Gli imprevisti che persistono, possono portarlo ad un errore. Mentre la sua controparte, per così dire, scientifica, può essere considerata ben diversa. Perché giunge a un tale gesto sopra le ali di una precedente Conoscenza; il senso esatto, frutto di precisi calcoli, di quanto sia possibile spingersi oltre, piuttosto che frenare con un’enfasi frutto di calcoli profondi. Il pilota razionale: ciò che tutti aspirano a poter infine diventare, se riescono a durare sufficientemente a lungo nei recessi impegnativi di quel mondo. Che è poi anche il NOSTRO mondo, se soltanto ci pensi: poiché questo è quello che succede, specialmente in inverno, quando l’aderenza delle ruote si trasforma in un fattore ormai facoltativo. Per l’effetto di quel ghiaccio, oppur la pioggia assieme al vento, l’auto si trasforma in un proiettile fuori controllo destinato all’autodistruzione.
Attimi, momenti dal profondo dramma dell’introspezione. E non sono molti, tra gli autisti del comune quotidiano, a potersi dir capaci di restare calmi in tali circostanze, affidandosi a un principio di ragionamento. Il che potrebbe relativamente presto, d’altra parte, cambiare: già perché per quanto ne sappiamo, da qui a 20-30 anni, le strade potrebbero trovarsi popolate di una nuova stirpe di piloti. Senza volto e senza corpo, a meno che per “corpo” non s’intenda il mezzo stesso di metallo dentro cui si trovano gli umani stessi. Ed è questa, per l’appunto, la domanda che hanno scelto di porsi J. Christian Gerdes e i suoi studenti del Dipartimento di Progettazione Dinamica dell’Università di Stanford, con la creazione a partire dal 2015 di un nuovo tipo di veicolo, chiamato niente meno che Multiple Actuator Research Test bed for Yaw control (o MARTY) data la passione duplice di questo professore per gli acronimi e una certa serie di film iniziata negli anni ’80. I più attenti tra voi avranno infatti già notato come il mezzo in questione abbia l’aspetto esteriore di niente meno che una DMC DeLorean l’iconica (terribile) automobile frutto del desiderio d’innovazione dell’ex direttore del marketing di varie importanti compagnie motoristiche statunitensi John Zachary D, successivamente trasformatosi nel promotore del più disallineato parto della sua mente: un’auto dall’aspetto sportivo che era tutto, fuorché sportiva. A meno prima che scienziati più o meno sani di mente, provenienti dalle regioni maggiormente irriverenti del cinema di genere, riuscissero a trasformarla in una piattaforma straordinariamente solida del sogno umano di viaggiare nel tempo. E chi l’avrebbe mai detto, sul finire esatto del 2019, che un simile proposito potesse tornare nuovamente rilevante…

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Le catene da neve che si attivano con la pressione di un interruttore

Il tempo è denaro, indubbiamente, il tempo è può essere un tiranno. Ma può anche capitargli di rappresentare, in determinate circostanze, la linea divisoria tra la vita e la morte. Immaginate ad esempio il caso di stare guidando a velocità sostenuta lungo una strada dell’Ohio, del Wisconsin o del Minnesota… Qualcosa di relativamente pesante, come un furgone, scuolabus, camion dei pompieri o autoarticolato dall’alto numero di ruote. Quando a un tratto vi rendete conto che il tempo di risposta ai movimenti del volante si è allungato, i freni non funzionano, il veicolo è del tutto fuori controllo! Immagino sappiate già di che si tratta: il temutissimo ghiaccio nero, conseguenza del fenomeno meteorologico noto come gelicidio, che diventando un tutt’uno inscindibile con l’asfalto, lo rende totalmente impervio alla trazione veicolare e al tempo stesso Imprevisto. Perché ovviamente, non è certo possibile montare le catene come precauzione, laddove il ricorso a un simile espediente in condizioni d’assenza di neve, oltre ad essere contrario alla legge per i danni causati al manto stradale, accorcerebbe la durata dei nostri pneumatici in maniera esponenziale. Niente paura, tuttavia! Poiché è quello l’unico momento, nel corso del nostro scenario ipotetico, in cui il fantasma di un anziano maestro Jedi dal color verde oliva comparirà dinnanzi al vostro parabrezza, declamando con voce stentorea: “Il pulsante devi premere, soltanto in questo modo sopravvivere potrai” E… CLANG!
Non è magnifico? Non è forse un’incredibile miracolo della scienza? Nel giro di appena un secondo, un secondo e mezzo, il sufficiente numero di ruote sotto la carrozzeria ritorneranno a fare presa lungo l’impossibile sentiero. Proprio come se fermando momentaneamente il tempo, il vostro angelo custode nella Forza avesse provveduto ad installare l’unico sistema in grado di risparmiarvi il pericoloso incidente. Ed è in effetti proprio questo l’episodio a cui abbiamo assistito, con la sottile differenza di esser stato il frutto di una tangibile invenzione umana, piuttosto che l’intervento sovrannaturale di un qualcuno oltre lo spazio “visibile” del mondo. O per esser più precisi, frutto del progetto originariamente disegnato da Mr. W.H. Putnum di New York nel 1915, benché, molto probabilmente a causa delle possibilità tecniche relativamente limitate dell’inizio del secolo scorso, non sarebbe stato lui a portare a compimento le più estreme conseguenze dell’idea. Bensì lo svedese Göran Törnebäck di Linköping, che aveva acquistato il brevetto nel 1977, al fine di proteggere la propria piccola flotta di furgoni per la consegna del latte dal terribile pericolo del ghiaccio nero. E non soltanto quello: anche permettergli di navigare adeguatamente, senza le perdite di tempo dettate dalla continua applicazione e rimozione delle catene da neve, per le strade spesso congelate della sua città. Ma le drop chain o automatic tyre chain (entrambe definizioni previste dall’odierna anglofona nomenclatura) possono essere molto più di questo, proprio per la capacità di entrare in funzione nel giro di pochi attimi e con il veicolo già in movimento. Grazie all’ingegnoso principio che caratterizza, ad oltre trent’anni, il loro semplice funzionamento. Avete presente in parole povere, il leggendario funzionamento dell’arma di Xena, regina guerriera delle Amazzoni dal volteggiante disco chakram preso in prestito direttamente dalla dinastia indiana dei Moghul?

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Le turbine a gas che ritenevano di poter vincere la 24 ore di Le Mans

Nell’approccio alle operazioni finanziarie comunemente definito Top-Down Economy, l’investitore osserva la situazione generale per fare le sue scelte in base ai trend di tipo trasversale, piuttosto che prendere in considerazione la condizione dei singoli titoli o il successo e l’insuccesso delle aziende. Ciò potrebbe portarlo, nello specifico, ad acquistare solamente titoli ad alto rischio, mancando d’inserire nel suo portafoglio la “base solida” di obbligazioni, fondi o simili strumenti di supporto… Ossia decidere di spingere a fondo ogni qualvolta sembri di essere su un rettilineo, piuttosto che considerare l’approccio ragionevole che può venire dal naturale pessimismo umano. E se dovessimo pensare a quei piloti, nella storia dell’automobilismo competitivo, che sembrerebbero aver vissuto la propria intera carriera su di un presupposto simile, sarebbe difficile non dare spazio al nome americano di Ray Heppenstall, colui che nel 1968 sembrò decidere che se il turbo era abbastanza grande, non c’era semplicemente alcun bisogno di altre componenti del motore! Accendendo (letteralmente) quella serie di processi mentali e operativi che lo avrebbero portato, entro la fine di quei campionati di gare sanzionati dalla SCCA e FIA, al volante della Howmet TX (Turbine eXperimental) una macchina capace di ululare come un lupo alla ricerca del suo branco… Mentre si appresta a sorpassare i suoi rivali, senza neanche l’ombra di un cambio di marcia.
Spesso citata nei repertori antologici come uno veicoli più distintivi della sua Era, questa è stata l’automobile, più d’ogni altra, ad aver dimostrato che comprimere ed espandere dei fluidi all’interno del ciclo di Joule-Brayton poteva costituire una metodologia valida, oltre che nella motorizzazione aeronautica, anche alla creazione di sistemi per lo spostamento stradale. Rappresentando, nei fatti, l’unica rappresentante della sua categoria ad aver mai vinto una gara ufficiale (anzi, due) prima di doversi arrendere al flusso irrimediabilmente convenzionale della storia tecnologica a quattro ruote. E progettata con un certo senso di affinità al regno delle cose che volano nei Cieli, in un certo senso, lo era sempre stata, vista la provenienza dei suoi due motori, presi in prestito direttamente dal progetto per un elicottero militare della Continental Aviation & Engineering, poco dopo che l’appalto venisse inaspettatamente spostato altrove. Il che, naturalmente, non sarebbe certo bastato per aprire la pista ad un simile progetto rivoluzionario, se l’ideatore Heppenstall non avesse potuto disporre, in aggiunta alla sua mente visionaria, di almeno un paio di conoscenze nei luoghi giusti: primo, il vecchio amico Tom Fleming, parte del consiglio di amministrazione dell’eponima compagnia metallurgica Howmet, in grado di convincere il suo capo che la sponsorizzazione di un team automobilistico avrebbe potuto costituire, in quel momento, una mossa scaltra nel panorama competitivo del marketing di quel settore. E secondo, il costruttore e carrozziere Bob McKee della McKee Engineering di Palentine, Illinois, uno dei pochi tecnici che avrebbero potuto dare forma (ed un volante, pneumatici…) al suo strano sogno, benché non fosse mai stato in effetti totalmente privo di precedenti. Già il manager del team STP Andy Granatelli aveva provato in effetti, nel 1967, a far competere nell’Indy 500 un veicolo spinto unicamente da un grande turbo, così come la Lotus 56, all’inizio del ’68, era scesa in campo nella stessa gara per il tramite del progettista Maurice Philippe. Anche la Chrysler, nel frattempo, aveva iniziato pochi anni prima a dare in leasing temporaneo esemplari della propria rivoluzionaria Turbine Car. I quali tuttavia mancarono di fare breccia nell’interesse del grande pubblico, così come le controparti competitive, per una ragione o per l’altra, mancarono sempre di riuscire a vincere le proprie gare. Ma le cose, apparve chiaro fin da subito, stavano finalmente per cambiare…

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