L’avvitamento eccentrico di un museo che attraversa il fiume

Ponti che collegano, ponti che avvicinano, che mettono in sequenza. Nell’esplorazione progressiva di un luogo, si verifica un momento memorabile, in cui la propria percezione d’individualità ed il significato di quanto stiamo sperimentando si uniscono in un tutto indivisibile, soltanto per qualche secondo, o addirittura minuto, d’introspezione profonda. Il raggiungimento di uno stato transitorio d’importante consapevolezza, traducibile attraverso l’ideale diagramma dei propri spostamenti presenti, passati e futuri: in altri termini, ciò che prima si trovava in un discorso orizzontale, d’un tratto viene fatto ruotare, lungo l’asse dello spazio e del tempo, per l’istantanea messa in opera di una connessione diversa. Ciò che era per la nostra visita, continuerà ad essere, ma verso una direzione nuova? “Fai un avvitamento, pilota” E tutto quanto avrà un senso… Questo sembra essere il messaggio, tramite la propria stessa identità strutturale, dell’opportunamente nominato The Twist, struttura/ponte/museo del Parco Scultoreo di Kistefos, attrazione artistica a qualche chilometro a nord della capitale della Norvegia. Luogo noto alla gente di Oslo ed ai numerosi turisti che la visitano ogni anno per la lunga storia di questa valle fluviale in mezzo ai boschi, originale sito di una cartiera per la produzione di cellulosa per l’opera di Anders Sveaas (1840-1917) e trasformata dal suo stesso nipote Christen a partire dal 1993 in un importante sito culturale, dedicato inizialmente alla sola creatività e storia industriale del suo paese. Almeno finché la fama di una tale iniziativa, raggiungendo ogni angolo del mondo, non avrebbe portato molti celebri autori internazionali a proporre il proprio contributo specifico, per lo più di tipo statuario e monumentale, ad una simile collezione di meraviglie. Gruppo tra cui l’ultimo di quelli maggiormente rilevanti, senz’ombra di dubbio, potremmo identificarlo nell’architetto olandese Bjarke Ingels a capo dell’omonimo gruppo a soli 46 anni e già firma d’innumerevoli edifici modernisti, qui chiamato nel 2015 a risolvere un significativo duplice problema: in primo luogo, la mancanza di un addizionale punto di attraversamento fluviale sul Randselva, in aggiunta al ponte originariamente presente, per permettere un’agevole visita del parco senza dover ritornare a un certo punto sui propri passi. E secondariamente, l’esigenza di disporre di un ulteriore spazio espositivo al chiuso oltre agli edifici della vecchia cartiera, ove realizzare mostre temporanee o altri tipi di eventi. Così che in maniera inaspettata, riuscendo a vincere l’appalto contro le altre proposte pervenute in quel frangente, il capo e volto del BIG (niente male come acronimo, davvero!) pensò bene di unire le due cose, giungendo a un progetto le cui effettive specifiche operative sfuggivano decisamente dalla convenzione.
Nella sua descrizione ingegneristica di base, The Twist non è sostanzialmente altro che un ponte a traliccio con struttura in acciaio, integralmente coperto e situato in un punto in cui gli argini presentavano un significativo dislivello, problematica in grado di presumere un qualche tipo di soluzione asimmetrica di base. Così che al centro del progetto, formato da una struttura orizzontale ed una verticale sull’altra sponda a 80 metri di distanza, l’architetto ha deciso di disporre il più semplice e risolutivo punto di collegamento: una letterale torsione di 90 gradi, attraverso cui le pareti diventano pavimento ed il soffitto, uno dei margini situati a lato. Mentre dall’altro una grande finestra panoramica realizza l’intento ideale di comunione tra struttura umana e splendore inusitato della natura, attraverso la versione funzionale e pratica di una riconoscibile spirale di Fibonacci…

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I tre volti dell’artista Murakami: Buddha, manga e re Louis

Murakami Baozhi

Come certamente ben sapranno i fan di Dragonball o una qualsiasi altra serie fantastica di arti marziali, uno dei concetti più importanti nella rappresentazione estremo orientali del potere sono le aure luminose, che permeano la figura corporea di tutti coloro che hanno raggiunto una stazione più avanzata sulla strada verso l’illuminazione. Connotazione estetica che nelle statue, nella pittura e perché no, anche nella moderna cultura di massa, gli studiosi d’iconografia amano definire mandorla, per la sua forma piatta in corrispondenza del suolo, ed allungata verso il lato superiore della scena. Il che dimostra, incidentalmente, il modo in cui la frutta secca fornisca la perfetta metafora per molti aspetti di una delle religioni più diffuse d’Asia, come quella particolare circostanza, sorprendentemente desiderabile, di vivere la sbucciatura di una noce… Nel Museo Nazionale di Kyoto, su gentile concessione del tempio di Saion-ji, è custodita da oltre un secolo una statua lignea particolarmente affascinante risalente addirittura all’epoca Heian (794 – 1185) e che dovrebbe raffigurare, almeno secondo le fonti filologiche a disposizione, la figura semi-mitica del monaco Baozhi, vissuto durante la vita dell’imperatore cinese Wu dei Liang (regno: 502–549) e che fu un discepolo diretto del sommo patriarca Zen, Bodhidarma. Costui, raffigurato sopra un piedistallo a forma di fiore di loto, in abiti da pellegrino e con in mano una bottiglia, presenta una condizione somatica particolarmente inusuale: la sua faccia è infatti spaccata longitudinalmente, con le due metà che si separano ed al centro un nuovo volto, identico, che spinge per conquistarsi uno spazio fra le orecchie e al centro della testa. E chi sarebbe mai, costui? Secondo alcuni, nient’altro che il bodhisattva Kannon (anche detto/a Avalokiteśvara, Guānyīn) personificazione della misericordia, a volte donna, a volte uomo, con la caratteristica di innumerevoli volti e braccia, usati per assistere chi soffre sulla Terra. Secondo altri, un diverso aspetto del monaco stesso, la sua essenza liberata finalmente dalle catene e dai pesanti bisogni della vita terrena. Ed è certamente verso questa seconda ipotesi, che tende la neo-rappresentazione della stessa cosa messa in scena dal quotato artista giapponese Takashi Murakami in occasione dell’inaugurazione della sua nuova mostra “I 500 Arhat” presso il museo Mori nel quartiere Roppongi di Tokyo, che rimarrà aperta al pubblico fino al 6 marzo del 2016, dopo un’assenza ormai protratta per un tempo superiore ai 14 anni. Prima di tornare, come un fulmine variopinto, accompagnato da una vasta serie di opere tra cui quella che dà il nome all’evento, ovvero un titanico dipinto lungo circa 100 metri, che rappresenta nelle sue quattro “regioni” dedicate alle direzioni cardinali le innumerevoli figure dei titolari santi del buddhismo, coloro che per primi o con effetto duraturo scelsero di seguire gli insegnamenti della figura storica di Śākyamuni. Un soggetto dalle forti implicazioni filosofiche, a cui l’autore mise mano per la prima volta nel 2012, assieme ai giovani creativi del suo collettivo Kaikai Kiki, incontrando significativi ostacoli ad un rapido completamente. Eppure, non occorre un’approfondita analisi critica o di contesto, per comprendere come molti degli aspetti estetici che scaturiscono dall’incontro tra l’artista e la religione abbiano un intento di rottura col passato, quando non addirittura, pienamente satirico ed irriverente. Molte delle figure, sembrano orchi, mostri, diavoli cornuti!
Particolarmente evocativa, a tale proposito, potrebbe anche dirsi la maschera di sicuro impatto indossata dal principale figurante reclutato in occasione dell’apertura della mostra (potrebbe anche essere stato l’artista stesso, chi può dirlo) con il volto di Murakami colto nell’attimo in cui sta subendo la stessa trasformazione di Baozhi, con tanto di occhi mobili e il rosso sangue visibile sotto la finta “pelle”. La pagina Facebook ufficiale ne mostra l’attenta preparazione, attraverso l’impiego di materiali plastici e componenti mobili meccanizzate. Di certo, l’antico autore religioso della statua del tempio di Saion-ji sarebbe rimasto assai colpito dalla parte tecnica di un simile progetto. “Ma c’era proprio bisogno…” Avrebbe presto aggiunto, perplesso dall’intramontabile preponderanza dell’ego: “…Di usare un volto uguale a quello dell’autore?”

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Con questo pallet, la strada sarà solo mia

Tomas Moravec

Sono in ritardo, disse l’uomo. E trovò il modo nuovo di affrettarsi: il rettangolo di legno largo 1200 x 800 mm (misura standard) modificato con delle metalliche ruotine, larghe appena il giusto perché potessero transitare lungo le linee dei tram di Bratislava, in Slovakia. Lo chiamavano il bancale. Come uno skateboard, ma più largo. Pare un gommone, però fatto per l’asfalto. Sollevato da terra di un altezza di 144 mm, con una serie di piedi laterali che lo rendono, concettualmente, affine all’hovercraft col suo cuscino d’aria. Un attrezzo normalmente usato per spedire, che invece qui diventa un mezzo di trasporto per andare (spediti) senza motore o altri ausili di ulteriore brio, che la discesa, il peso e l’intenzione dell’artista: lui è Tomáš Moravec, nato nel 1985 a Praga. Che qui ci dimostra, nell’opera appropriatamente intitolata pallet, dal nome inglese dell’oggetto, un’utile implicazione delle misure standard, disponibile soltanto quando si ha il coraggio, straordinario, di evidenziare le strane corrispondenze tra le cose. Tutti possono infilare una cosa tonda, vedi ad esempio un pennarello, dentro al combaciante buco circolare. Nessuno riuscirebbe a farlo, invece, se quest’ultimo fosse quadrato. Ma che dire della via di mezzo, di un pertugio romboidale? Dove lo strumento metaforico, quell’oggetto colorato e scrivente, potesse entrare facilmente, con soltanto il rischio di incastrarsi…Ciò è in effetti il punto, in questo caso slovacco, di rotaie distanziate, tra di loro, giusto un metro, contro il metro e 435 millimetri della Praga natìa dell’utilizzatore; tentazione troppo grande. Tranne che l’eventuale blocco improvviso, del bancale che correva su rotaie, avrebbe avuto conseguenze alquanto più nefaste. Chi lo sa! A lungo ci aveva pensato, forse vagando per l’Europa, finché non gli è riuscito di trovare un luogo adatto al suo esperimento, questo centro urbano dalla lunga storia e il ricco patrimonio artistico, tra le maggiori capitali mitteleuropee. E adesso eccolo lì. Mentre scivola per le strade di Petržalka, lungo il Danubio, verso le antiche mura dello Staré Mesto, il centro storico di Bratislava. Lo sguardo è fisso, la posizione composta. Il contegno quello tipico di un supereroe dei nostri tempi. Grossomodo.
Perché il concetto è non soltanto interessante, dal punto di vista visuale, ma anche utile in potenza. Fu subito dopo la seconda guerra mondiale che gli spedizionieri civili, avendo osservato le pratiche dell’aviazione militare, scoprirono le implicazioni pratiche del mantenere il carico sempre sollevato dal terreno. Non solo per proteggerlo da eventuali infiltrazioni d’acqua nell’area del magazzino, bensì soprattutto affinché la forca del muletto, l’essenziale mezzo di trasporto e spostamento della nostra epoca moderna, potesse facilmente penetrare quel miracoloso spazio vuoto, ricavato dalle intercapedini del legno fumigato. Un pallet come questi, non lo getti mai via. Sarebbe un sacrilegio! Eppure una volta ricevuta la spedizione, se non ne hai una di ritorno, cosa mai potresti farci… se non diventare TU il carico…

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Demiurgo delle centomila macchinine

Metropolis II

Chi ha detto che l’arte contemporanea debba essere, per sua intrinseca natura, difficile da interpretare? Le opere di Chris Burden sono più dirette della scia di una cometa, forti e corpose quanto l’alba di una torrida mattina nel Sahara. Guardate questa, ad esempio. Un’intera flotta di automobili giocattolo, coloratissime, che percorrono senza posa la più straordinaria delle piste. Praticamente, una città; anzi, Metropolis II, la scultura cinetica su quattro livelli, con 18 superstrade di cui una a sei corsie, alti grattacieli e un’intera ferrovia, attualmente in mostra presso il LACMA di Los Angeles. I piccoli ed agili veicoli si muovono all’equivalente (in scala) di 240 miglia orarie, giù per le ripide discese, compiono maestose parabole e poi si bloccano, impattando rumorosamente contro il posteriore delle loro simili-partite-poco-prima. Quindi, imboccato il difficile sentiero di quel nastro, che lentamente le riporta al punto di partenza, avanzano affannose, riproducendo il traffico di una terribile ora di punta. Non c’è continuità, diversamente dall’autostrada di un lungo viaggio; si va lenti, poi veloci e così via; “È questa la ragione principale dello stress di guida” Spiega lui, mentre manovra i pochi interruttori “Il ritmo diseguale, l’accelerazione a seguito di brusche soste”. Anche la fonte dell’usura delle auto, con conseguente spesa, come ben sanno i precari e i pendolari urbani. Naturalmente, l’opera contiene molte tematiche ulteriori. C’è lo spazio architettonico irreale, fatto di palazzi svettanti, con le travi a doppia T e gli altri elementi dell’urbanistica disumanizzata. Che in un altro frangente lui schiantava nella terra, neanche fossero le fiocine del capitano Achab. Il tutto è mescolato con sapienza estetica davvero navigata. Vista dall’alto, questa pista-scultura potrebbe costituire il sogno di un bambino di qualunque età. E poi ritorna, con essa, il ricorsivo pluralismo delle cose indipendenti, tanto caro a chi l’ha costruita. Vedi ad esempio All the Submarines of the United States of America (1987), in cui l’autore aveva appeso alla rinfusa in una stanza 625 piccoli sottomarini, tutti uguali. La città di Metropolis II ha un che di selvatico, che sfugge all’immediata comprensione. Più che un meccanismo, pare un organismo.
La gente la circonda, osservandola da tutti i lati. Le auto girano vorticose, intorno all’edificio e poi pure dentro, sopra e sotto la scultura. Lo stesso fanno i globuli, gli zuccheri e le altre sostanze, nelle vene di colui che siede in centro. L’artigiano-demiurgo preme il tasto, avvia la giostra: il resto è rubiconda gravità.

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