Stretta è la foglia che impiega il Sole per irretire la sua preda

Le prime ad accorgersene furono le zanzare. Creature ematofaghe che pur non provando alcun tipo di desiderio nei confronti di nettare o sostanze affini, all’improvviso cessarono di essere minacciate, all’interno dell’appartamento, dall’occasionale dittero asilide, ragno salticida o piccolo insetto appartenente all’ordine degli odonati. Come un vampiro, che pur non potendo apprezzare il gusto del buon vino, ringrazia l’apertura della nuova locanda nel suo quartiere, per l’alta quantità di potenziali vittime ubriache che ne invadono improvvisamente le strade. Ronzando con enfasi, dunque, esse perlustrarono attentamente ogni recesso di quel mondo artificiale, ove grossi animali soggiornavano ponderosi concedendo mansueti il vermiglio fluido che da la vita, alla ricerca della nuova monade, possibile oggetto fuori del contesto, capace di alterare gli equilibri micro-ecologici vigenti tra quelle invalicabili mura. Finché i due possibili responsabili furono individuati, a guisa di spareggio finale, nella minacciosa riproduzione in gomma dell’alieno xenomorfo alta 35 cm, lì trasportata dall’inconsapevole padrone di casa, oppure il bizzarro oggetto situato alla sua sinistra, all’interno di un piccolo vaso di terracotta. “Bzz-bz!” esclamò l’esploratrice, rivolgendosi a una collega nuova del settore, incaricata a questo compito nuovo dal consiglio segreto delle succhiasangue. La quale rispose, dopo aver considerato con serietà ogni aspetto della vigente situazione: “Bzzz-bz-bzz!” La pianta era alta quanto il soprammobile a lato, ramificata come gli alberi visibili dalle finestre prive di zanzariere e rossa, rossa quanto il fuoco dell’alba nel giorno del Ragnarok profetizzato dai cantastorie. Un termine di paragone tutt’altro che scelto affrettatamente, concordarono le vere padrone di casa, quando notarono il modo in cui la luce battente attraverso i vetri colpiva quelle preminenze oblunghe, facendole baluginare alla maniera di un lago pieno di larve in attesa di scaturirne verso il principio della successiva generazione. “Bzzz-bz.” Affermò a questo punto la prima, con palese desiderio nei piccoli suoi occhi sfaccettati, iniziando a svolazzare convinta verso il mirabolante orpello così apparso nel territorio di caccia dell’orda notturna, desiderosa soltanto di poter condurre una vita pacifica e tranquilla. “Bzzz-Bzzz…” Tentò di fermarla la sua compagna, ma a quel punto a quanto sembrava, era ormai troppo tardi. E tutto ciò che poté fare la seconda zanzara, secondo i dettami del suo codice comportamentale piuttosto semplicistico, fu seguire l’amica, poggiando anch’ella i sei arti sull’accogliente serie di escrescenze pilifere dell’arboscello. “Do-dolce?” Fece allora all’indirizzo dell’amica, apparentemente immobile come fosse stata colta da un sentimento d’orrore ed autocommiserazione. La quale, ormai delirante per una sorta d’evidente attacco di panico, pareva muoversi a scatti, scuotendo violentemente il suo piccolo corpo ed agitando l’inutile coppia d’ali. Come se il mondo si stesse muovendo al rallentatore, quindi, la capa esploratrice provò a sollevare la sua zampa anteriore sinistra; con un senso di sorpresa piuttosto blando, constato a questo punto come fosse già irrimediabilmente diventata tutt’uno con l’appiccicoso strato di mucillagine vegetale. Con sguardo clinico quasi disinteressato all’ora della sua dipartita, la zanzara guardò quindi la punta di quella foglia: “Possibile, o forse è soltanto una mia sensazione causata dalla fine di ogni speranza, che la trappola abbia iniziato a chiudersi, molto, molto lentamente?”
Possibile, persino probabile, se stiamo parlando della Drosera capensis. In realtà la più facile, e quindi diffusa come decorazione domestica, tra tutte le appartenenti alla sua famiglia cosmopolita, presente in ogni continente eccetto l’Antartide. Benché tutto ciò possa essere riconducibile, senza particolari dubbi, all’opera di propagazione effettuata, inevitabilmente, per la cupidigia ed il senso di curiosità degli umani…

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L’estemporaneo merletto floreale della zucchina-serpente

Lunga e complicata riesce ad essere, senza limiti o confini nazionali, l’annosa questione su cosa possa essere definito un “frutto” e cosa di suo conto, una “verdura”. Così che tecnicamente, la definizione scientifica secondo cui la parte della pianta che contiene i semi rientri nella prima delle due categorie ed invece tutto il resto, viceversa, decade non appena ci si sposta nel contesto culinario, dove gusti, tradizioni ed abitudini riescono a modificare le acquisite convenzioni. Basandosi sul gusto, invece che l’essenza naturale del prodotto vegetale; così che nessuno, normalmente, penserebbe che il cocomero e la zucchina possano venire dalla stessa famiglia tassonomica, così come la zucca ed il melone, sia estivo che d’inverno. Il che del resto si applica, in maniera parimenti valida, a una pianta assai particolare dei climi tropicali e sub-tropicali, largamente associata con il suo nome scientifico Trichosanthes cucumerina ad India, Cina e Sud-Est Asiatico, benché abbia saputo trovare terreno fertile anche in Africa, Australia e Sud America. Che pur non arrivando a fare parte del mondo “animale” parrebbe richiamarsi vagamente ad esso, data l’oblunga forma serpeggiante che saremmo istintivamente inclini a paragonare a quella di una serpe in agguato. E chi potrebbe, senza un’adeguata preparazione preventiva, soffocare un sentimento di stupore innanzi alla visione di tali e tante infruttescenze, che discendono formando spire dalle propaggini più alte di quel forte rampicante. E forte deve essere, per forza di cose, quando si considera l’eccezionale lunghezza e peso di quegli oggetti, come si confà ad una degna portatrice dell’emblema delle cucurbitacee, che ogni essere riescono ad affascinare, con l’aspetto notevole dei propri peponidi carnosi.
Ciò detto e nonostante la striatura appetitosa, non aspettatevi un sapore dolce o zuccherino, né a dire il vero in qualsivoglia modo appetitoso, da una simile abitante della giungla, in grado d’invaderla grazie al servizio di distribuzione semi offerto da insetti ed uccelli. Lei che nasce, e assai rapidamente cresce, a partire dall’ora tarda del tramonto, quando il notevole fiore che la caratterizza inizia puntualmente ad aprirsi, arricciarsi ed attorcigliarsi, verso la creazione di uno spettacolo assolutamente unico al mondo: incredibile non è in effetti un aggettivo sufficiente, per riunire sotto un solo termine l’eccezionale visione di tali e tanti piccoli asterischi bianchi, la cui eleganza e regolarità parrebbero richiamarsi a un chiaro tipo d’intervento da parte dell’artistica mano degli umani. Proni ad arricciarsi ed attorcigliarsi su loro stessi, creando l’illusione che decade, puntualmente, al sorgere del Sole quando tali odorosi doni del paesaggio cominciano rapidamente ad appassire, avendo assolto al compito affidatogli con enfasi dal sistema tecnologico della natura. Il che si applica sia ai fiori maschili generalmente alti e solitari, che a quelli femminili raccolti sul ramo sottostante, di un organismo monoico in cui il principio dei due sessi convive senza nessun tipo di conflitto. Per lasciarsi dietro il timido germoglio, di quel ramo profondamente modificato il quale lentamente, inesorabilmente, si trasforma nella vipera tentatrice. Chi avrebbe mai potuto resistere all’aspetto non del tutto falsamente appetitoso, d’altra parte, di una tanto mirabile ed insolita creazione vegetale?

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Nella nuova Düsseldorf, un bosco di siepi ricopre il centro commerciale

Braccati e sotto assedio per la pandemia, gli esseri umani si chiusero all’interno delle loro case per mesi e mesi, nell’attesa dell’arrivo di un momento migliore… Un qualche presupposto di possibile riscossa. E mentre le città diventavano deserte, fatta eccezione per i fotografi costantemente intenti a immortalare le “Città Diventate Deserte” coi loro delfini, orsi e scimmie ribelli tale natura continuava a fare il suo corso, entrando in occasionale rotta di collisione con il mondo di cemento che avevamo usato, senza troppe cerimonie, al fine di ricoprirla. Così come Gustaf-Gründgens-Platz, nella capitale della Renania Settentrionale-Vestfalia, un letterale tappo carrabile edificato sopra la voragine fatta dall’uomo, contenente uno dei principali parcheggi sotterranei della regione. Luogo fino a pochi anni fa fa percorso da una strada di scorrimento, qualche anno fa dismessa a favore di altri più pratici, e meno ingombranti, sentieri di collegamento urbano. Ecco dunque comparire in maniera surreale, a poca distanza dallo storico teatro un letterale parallelepipedo di colore verde, dell’ampiezza di 42.000 mq e il punto più alto collocato a 27 metri dal suolo, oggetto totalmente fuori dal contesto perché i parchi pubblici, nella maggior parte dei casi, si sviluppano al livello del terreno. E soprattutto, non vengono portati a termine durante i periodi di quarantena…Giusto? Fatta eccezione per il caso del Kö Bogen (arco) 2, che non è il frutto di un cespuglio rampicante replicato casualmente a oltranza, né l’effetto dei semi di kudzu trasportati dal vento, bensì un’opera cosciente, e desiderabile, frutto della commissione data allo studio architettonico locale di Christoph Ingenhoven, per il rinnovamento dell’eponimo quartiere cittadino e la trasformazione dello stesso in un diverso polo di attrazione del turismo e il traffico locale, costruito per la prima volta sul principio della corrente Land Art, un movimento nato negli Stati Uniti del 1967, mirato a “restituire alla Terra” più di quanto siamo soliti pretendere da essa, mediante strutture o opere d’arte che in qualche maniera si integrano nel paesaggio, piuttosto che tentare di dominarlo. Ecco dunque l’idea, nata nelle prime fasi del progetto, d’integrare nel vero e proprio pièce de résistance 8 km di siepi ordinatamente disposte in filari paralleli, fino all’ottenimento della più estesa ed imponente facciata verde d’Europa. Fatti da parte Bosco Verticale di Milano dunque, per un’interpretazione dell’intera faccenda che risulta essere assai più prevedibile e ordinata, data l’installazione assolutamente geometrica dei trogoli ricolmi d’erba che ospitano questo solenne omaggio alla natura vegetale. Terreno fertile per le radici di Carpinus betulus o “bianco” pianta scelta per la sua capacità di rimanere verde l’intero anno e proprio a causa di questo particolarmente amata in urbanistica, assolvendo con particolare efficienza allo scopo di mantenere eretta e solida una desiderabile barriera contro gli sguardi di natura inappropriata. Laddove in questo caso, piuttosto, la sua funzione dovrà essere quella di offrire lo spunto per piacevoli passeggiate iniziate al livello del terreno e portate al culmine mediante il lieve declivio dell’edificio triangolare antistante, parte del complesso ospitante a sua volta un prato sopra cui rilassarsi, prendere il sole o conversare amabilmente. Ragionevolmente lontano, eppure fisicamente a contatto, con la più chiara conseguenza dell’urbanizzazione a oltranza…

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L’ingegnoso popolo fluttuante del lago Titicaca

Sotto il sibilo del vento ad un quota superiore di svariate migliaia di metri a quella del mare, l’energia del mondo si era accumulata per un tempo sufficientemente lungo. Finché le radici serpeggianti, attorcigliate in un groviglio concepito per assolvere a uno scopo, scaturirono dal suolo tutto attorno a quel bacino vasto e calmo, dando vita a una foresta, che potremmo definire…Differente. Centinaia di metri quadri e poi chilometri di canne, parallela l’una all’altra, formate da quella lacustre forma di vita vegetale che oggi definiamo scientificamente Schoenoplectus californicus, ma che in tutta l’America Meridionale, sull’esempio peruviano, tutti chiamano totora. L’epoca non è del tutto chiara: qualche secolo, se vogliamo risalire a fonti storiografiche, benché per quanto desunto da un’analisi genetica degli abitanti locali questo popolo possa risalire fino a 3.500 anni prima dell’epoca moderna, con aspetti, usanze e tradizioni lievemente differenti. Ma probabilmente, lo stesso apprezzamento per la pianta che con cui è solito costruire le proprie case, imbarcazioni, ornamenti, mobili, cappelli, mantelli e addirittura, mediante l’impiego di una tecnica soltanto sua, lo stesso suolo sopra cui sorge la propria antichissima società galleggiante. Già perché gli Uru, o Uro che dir si voglia, possono vantare l’originale caratteristica di aver costruito l’interezza dei propri insediamenti al di sopra di vere e proprie isole artificiali di cui restano circa 120 allo stato attuale, create a partire dalle canne intrecciate di totora sopra uno strato di torba flottante, capaci di offrire un terreno ragionevolmente solido a patto di continuare ad effettuare continuamente la laboriosa manutenzione di tutto questo. In merito alla ragione di un simile modus vivendi, per inciso, abbiamo le idee piuttosto chiare: ancora dopo l’inizio dell’impero Inca nel XIII secolo, infatti, il bisogno primario dei popoli relativamente poco numerosi di queste regioni sudamericano era quello di mantenersi indipendenti e poter proteggere se stessi dalle imposizioni di gruppi etnici più forti. E quale miglior fortezza poteva essere immaginata, di un’intera città che poteva spostarsi nel momento di più grave e imprescindibile necessità?
Le piattaforme degli Uru, costituite da una serie modulare di blocchi chiamati idli di 4×10 metri, sono un vero capolavoro dell’architettura primitiva, capaci di offrire non soltanto l’equivalente sulla superficie acquatica di fondamenta solide ma anche un terreno fertile che poteva essere coltivato primariamente con patate o vegetazione adatta a nutrire il bestiame, benché la fonte principale di cibo resta tutt’ora quella tipica dei cacciatori-raccoglitori e soprattutto, pescatori delle antiche società umane. Altro interessante approccio alla sussistenza, nel frattempo, quello dell’allevamento degli uccelli, usati sia come aiuti nella cattura dei pesci (cormorani) che per le loro uova e la stessa carne (ibis sudamericano) mediante metodologie comprovate da molti secoli di prassi valida ad incrementare l’approvvigionamento delle rispettive famiglie “isolane”. Come per molti altri appartenenti a minoranze distinte dalla collettività moderna, dunque, viene mantenuta in atto la naturale solidarietà del gruppo nei confronti dei singoli individui, che ricevono aiuto nella costruzione delle proprie nuove case o piattaforme, mentre la stessa manutenzione dell’isola di appartenenza diviene un costante impegno collettivo, data la costante tendenza dell’umidità a infiltrarsi nei blocchi di torba facendo marcire le radici ed infine, distruggendo lo strato superiore di totora. Ragion per cui, giorno dopo giorno, anno dopo anno, la loro opera di costruzione continua indefessa, come avvenuto attraverso le interminabili generazioni…

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