L’uomo che sorvola la città col gatto delle nevi

Levi LaValee St. Paul

Se c’è una cosa che non ti aspetti dal tipico video di acrobazie urbane, questa è certamente l’originalità. Da quanto il pilota di rally Ken Block rivoluzionò il mondo dei video per YouTube sponsorizzati, rilasciandovi gratuitamente il suo celebre video Gymkhana 2 nel 2009, tutte le aziende con velleità sportive hanno, prima o poi, fatto in modo di riprendere gli atleti delle proprie scuderie alle prese con gli scenari più improbabili dei centri cittadini in giro per il mondo. Ma quello che ha in modo particolare questo nuovo video di Red Bull è, prima di tutto, l’appropriatezza di contesto, con perfetta identità di luogo scelto, provenienza del pilota, condizioni climatiche e situazionali: a St. Paul, nel Minnesota, la prima delle due Città Gemelle che costituiscono la principale megalopoli dello stato. E poi, l’avevate mai viste figure simili, realizzate tramite l’impiego di due pattini sterzanti e un solo cingolo motorizzato? Il gatto delle nevi, come tipologia di mezzo, rientra senz’altro nel gruppo di quelli che ispirano un senso latente di imprudenza e voglia di fare follie. Forse per il suo aspetto inusuale, specie dal punto di vista di chi vive a latitudini diverse dalle alci o gli orsi canadesi. O magari per l’ottimo rapporto peso potenza, una necessità pressoché irrinunciabile per simili veicoli, concepiti originariamente per portare assistenza in luoghi estremamente remoti e del tutto privi di strade. Eppure, stiamo parlando di un veicolo che può raggiungere tranquillamente i due quintali di peso, specie se in versione adatta all’impiego professionistico e di gara, e che in conseguenza di ciò risulta inevitabilmente meno agile di una leggiadra moto da cross. Così, ci vogliono capacità fuori dal comune per fare apparire facile il gesto di saltare, da un lato all’altro delle varie gaps (termine proveniente dal mondo dello skateboard) sfrecciare tra gli incroci, infilarsi dietro a questo o quel muretto… Doti come quelle, per l’appunto, di Levi LaVallee, l’artista della snowmobile (così la chiamano da queste parti) nato nel 1982, e che dal 2004 sta collezionando medaglie prestigiose a ogni singola edizione dei Winter X Games di Aspen, per non parlare dei titoli vinti all’ISOC, il principale campionato di gare su neve degli Stati Uniti, e l’essere stato nominato il 19° sportivo più influente del mondo dalla celebre rivista ESPN. Niente male, per il praticante di uno sport talmente settoriale, da risultare essenzialmente sconosciuto a livello professionistico al di fuori di specifici paesi!
E dove poteva nascere, un simile fulmine di guerra, se non tra le nubi del destino di un luogo simile, parte inscindibile del vasto bacino idrico dei Grandi Laghi, dove il fiume Mississipi s’incontra con il Minnesota e all’altro lato di quest’acqua sorge Minneapolis, secondo centro abitato dell’intero Midwest, sorpassata unicamente da Chicago. Un luogo che veniva chiamato, agli inizi del 1940, niente meno che “l’Occhio del Maiale” perché qui sorgeva la taverna, e luogo di scambio commerciale, di proprietà del cacciatore di pelli franco-canadese Pierre Parrant, così detto in funzione di una parziale disabilità visiva. Finché Lucien Galtier, il primo prete cattolico della regione, non vi costruì vicino una cappella di tronchi dedicata a San Paolo di Tarso, ribadendo a più riprese che la regione dovesse essere intitolata al suo beniamino, principalmente perché si trattava di un nome composto da una sola sillaba, “Facile da pronunciare per tutti i cristiani.” E caso volle che nel giro di un paio di generazioni, la sua volontà fu assecondata. Fin ad un tale punto che è ancora possibile, oggi, osservare l’evoluzione remota di detto edificio religioso nella cattedrale cittadina, attorno alla quale LaVallee esegue alcune delle sue migliori evoluzioni di apertura: il salto in verticale verso una piattaforma elevata, ed un coreografico “superman” (il gesto di lasciarsi trascinare in aria dal veicolo aggrappandosi al sellino) con la cupola ecclesiastica raffigurata a lato dell’inquadratura. È una vista agile e leggiadra come quella di un angelo, ma che al tempo stesso pare incorporare le fiamme del baratro infernale di colui che non teme la morte, un peccato per definizione. Ma così tremendamente facile, da perdonare…

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L’acrobatismo degli idraulici e del ragno umano

Super Mario Parkour

Che cosa magnifica, il Fair Use! La norma legale, vigente negli Stati Uniti, secondo cui personaggi, concetti o creazioni di proprietà di un’azienda anche straniera possono essere impiegate da creativi terzi, con la finalità di mettere assieme un qualcosa di sostanzialmente originale, utile o davvero interessante. Sarebbe infatti questa, fra i tanti, uno dei pilastri più importanti del web. Ovvero il fatto che il copyright, pur restando sacrosanto, possa talvolta essere piegato o reso collaterale, all’accrescere il patrimonio cognitivo della collettività. Perché resta fondamentalmente vero il fatto che nell’attimo del click selvaggio, quando una persona è in cerca disperatamente d’intrattenimento, il suo browser tenda a muoversi come il proverbiale mulo che conosce già la strada. Se io dicessi: guarda, il nuovo video dei Dark Pixel! Quanti saprebbero di cosa sto parlando? Mentre prova tu, a presentare l’opera come l’insieme di tre parole chiave: “Super”, “Mario” e “Parkour” per assicurarti una visibilità di certo assai maggiore, nonché la ripubblicazione del tuo materiale presso l’esercito dei siti di settore, o canali tematici quali YouTube Games. È una semplice realtà dell’era digitale, quella secondo cui ottiene il successo unicamente il volto noto. Mentre tutti seguono, belando, l’impronta fantasmagorica del brand. Mentre storicamente non tutti gli executive d’azienda, all’altro capo della filiera produttiva, si sono dimostrati in grado di capirlo. La stessa pluri-ventennale Nintendo, ad esempio, ha alle sue spalle dei lunghi periodi di diffidenza verso l’uso non direttamente autorizzato dei propri beneamati personaggi, con ordini di rimozione o vari tipi di lettere inviate dai legali, finalizzate alla rimozione di questa o quella re-interpretazione. Benché si giunga eventualmente ad un momento, particolarmente significativo, in cui la quantità, e talvolta addirittura qualità, di quanto viene prodotto dalla moltitudine dei fan tecnicamente competenti, finisce per superare quella degli spin-off per così dire, ufficiali. Ed a quel punto, che fermarli diventa contro-producente, sia dal punto di vista pratico, che dell’immagine internazionale. È una sorta di applicazione digitale, gioiosa e coloratissima, del principio della vecchia vita di frontiera. Chiamiamolo, se vogliamo, una sorta di Fair West.
Gente che comprende l’immaginazione. Persone che, acquisita l’abilità di impiegare il computer per creare ogni sorta di mondo fantastico, sono rimasti con i piedi bene saldi a terra, riuscendo a intravedere, dietro semplici muretti o vari tipi di arredo stradale, dei portali verso gli infiniti regni del divertimento. Sono quattro persone, volendo ridursi al nucleo degli autori fissi, ciascuna con un ruolo chiaramente definito. Landon Sperry, grafico degli effetti speciali. Suo fratello Casey, regista e addetto al montaggio. Mike Brown, musicista. Matt Morrel, specialista del compositing (l’amalgama dei diversi elementi visivi). Già gli autori di innumerevoli cortometraggi dedicati al mondo del cinema e dei videogiochi, liberamente disponibili sul loro vasto canale di YouTube, i Dark Pixel non sono soliti ripetersi, né reimpiegare vecchie idee. Ma hanno recentemente deciso di fare un’eccezione, con questo secondo episodio di quella che potrebbe a questo punto diventare anche una serie, visti gli alti valori di produzione e stilistici, finalizzati a mostrare due dei personaggi più famosi di questa generazione, il rosso e il verde idraulico del Regno dei Funghi, alle prese coi consueti pericoli più o meno semoventi, ma per una volta in un contesto niente affatto virtuale: i due campus delle Università dello Utah e della Utah Valley, entrambi siti nello stato di provenienza del fenomenale gruppo di filmmakers, senza comunque rinunciare alla partecipazione di due attori d’eccezione. Entrambi figure degne di nota all’interno dello sport in questione, che a sua volta, non sarebbe stato di certo sconosciuto ai grandi salvatori in tuta delle principesse rosa in difficoltà.

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Cosa fare se vi cade il cellulare dalla seggiovia

Fast Forward Ski

Il luogo: il mega-resort sciistico de La Plagne, nella valle franco-alpina della Tarentaise, dove passa il fiume dell’Isère prima di andare a congiungersi col Rodano, in prossimità di Viviers. Il gesto: un inseguimento, una corsa folle, il susseguirsi delle pieghe e rettilinei, salti e variegate acrobazie (è innegabile, ci stanno sempre bene) di “una persona come le altre” che si trovi ad affrontare la più malaugurata delle situazioni: l’attimo in cui l’oggetto più costoso contenuto dalle proprie materiali tasche riesce a sfuggire per un attimo di mano, solo una frazione di secondo, ma purtroppo sufficiente perché inizi un’esiziale quanto rovinosa caduta verso il suolo. Quando il tempo sembra fermarsi, e la mente lavora ad un ritmo estremamente accelerato: “Si romperà? Posso prenderlo col piede? Sono assicurato?” E poi si susseguono le conflittuali considerazioni, delle notizie buone e cattive. Punti a favore, nel presente caso: la neve è soffice, la gente è onesta, la corsa è breve. “Ma è pur vero che mi trovo in alto, molto in alto!” Potrebbe quasi esclamare lo sciatore acrobatico francese Kevin Rolland, il tre volte medagliato degli X-Games, nonché bronzo nell’half-pipe durante le Olimpiadi Invernali di Soči del 2014. “Si romperà?” Ah, il nostro povero, sfortunato, campione…Tu non hai idea! Perché di certo non consideravi, essendo l’intera sequenza un’incredibile succedersi di coincidenze, che lì sotto per un caso del destino si trovasse a passare proprio lo sportivo veterano Julien Regnier, universalmente riconosciuto tra i fondatori moderni della vostra disciplina, il freestyle skiing, l’unico e il solo che fu in grado d’inventare, verso la fine degli anni ’90, un tipo di sci radicalmente differenti, non più fatti per “tagliare” la neve, ma larghi e piatti alla maniera di una fettuccina, e soprattutto dotati di due punte, l’una rivolta verso avanti, l’altra in contrapposizione. Onde poter meglio fare l’elicottero, ruotando su stessi vorticosamente, sopra le teste affascinate degli spettatori.
Ma adesso… Non andiamo fuori tema! Il tempo stringe e già gli eventi prendono una piega inaspettata: perché questo grande personaggio, che teoricamente doveva essere un amico (i due si conoscono da anni!) All’improvviso viene preso da dall’ispirazione problematica di far scivolare il prezioso oggetto smarrito dentro la sua giacca, come un membro onorario della Banda Bassotti, per poi prendere e scappare in gran velocità. Ci siamo! It’s On! Partenza, pronti, via! Sembra proprio una perfetta trama, di quelle preparate a tavolino per l’ennesimo video virale costruito attorno ad uno sport non-proprio-estremo, almeno non quanto il paracadutismo o la tuta alare, ma diciamoci la verità, davvero, potenzialmente, occasionalmente, Estremo. Un fatto che si nota chiaramente, nel procedere dei ripidi secondi, mentre l’improbabile ladruncolo inizia la discesa della pista e quello che c’è intorno con un’espressione trafelata, poi compie qualche salto folle oltre un muretto e fin dentro l’imboccatura del circuito di bob. Ed è proprio in quel tunnel serpeggiante, che la situazione inizia veramente a riscaldarsi.

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L’allegro popolo dei coltelli a farfalla

Balisong

Parte la musica, entrano gli attori. Un eterogeneo gruppo di giovani, adulti, alti e bassi, più o meno sedentari, sportivi e fisicamente agili. O pesanti. Costoro non schioccano le dita, ma mulinano attrezzi dall’aspetto acuminato. È comunque una ragionevole approssimazione delle più famose canzoni del musical West Side Story, in cui l’arte esecutiva e lieve incontra un senso di pesante minaccia, dovuto alla tematica di fondo, si, ma anche e soprattutto alla natura degli attrezzi di scena: una delle più onnipresenti armi nella storia dell’uomo, facile da nascondere, ancor di più da estrarre, rapida e letale nel suo trasformarsi in un secondo da semplice attrezzo per sbucciare mele, a un artiglio di assoluto e deleterio annientamento. Eppure, appare chiaro, qui non c’è alcun intento di far l’una o l’altra cosa: si tratta, dal nostro punto di vista, di un vero e proprio video di scoperta. Entusiasticamente realizzato da Cuyler McCoy, uno dei partecipanti alla community del sito Reddit dedicata al balisong, forse il più famoso oggetto collegato alla storia recente delle Filippine. Mettendo assieme le registrazioni fornite da molti dei suoi stimati ed abili colleghi. Straordinariamente svelti di mano…Si, nel fare quale cosa? Ecco, il filo della tagliente questione è che questa classe di coltelli, fin dall’incerta epoca della sua prima messa a punto, presenta la caratteristica di una progettazione semplice, nonché geniale: ovvero un’impugnatura suddivisa in due segmenti paralleli, che ruotando attorno a un perno centrale (il tang) può richiudersi sulla lama stessa e incorporarla in uno spazio vuoto al centro, proteggendola dagli urti, e incidentalmente pure sguardi, accidentali. Entrambi doti che per un paese occupato dagli occidentali fino alla fine della seconda guerra mondiale nel ruolo di colonia, prima della Nuova Spagna e quindi degli Stati Uniti, risultavano estremamente utili agli agricoltori, allevatori e perché no, aspiranti rivoluzionari, spesso veterani della breve guerra del 1898.
Ma passata l’epoca del suo utilizzo, come inevitabilmente avviene, il coltello restò. Subendo una vertiginosa migrazione di significato ed utilizzo primario. Fu proprio quel particolare meccanismo di chiusura ed apertura, inventato secondo una teoria locale dall’artigiano della provincia di Batangas sull’isola di Luzon, Perfecto De Leon, attorno al 1900, a renderlo interessante per l’esecuzione di tutta una ricca serie di figure acrobatiche e gesti di destrezza, concettualmente non dissimili da quelli di un moderno yo-yo; il balisong, in effetti, ha origine come attrezzo di lavoro laboriosamente preparato all’uso con due mani, con la finalità di usarlo per tagliare con il suo singolo filo. Ma mediante l’acquisizione di un particolare tipo di pratica, poteva altrettanto facilmente essere aperto in un solo fluido movimento, come un coltello a serramanico, diventando un’arma potenzialmente letale. Soprattutto quando ne venivano realizzate delle versioni a doppio taglio, come dei veri e propri pugnali. Non per niente, il coltello prese a costituire ben presto, all’interno del ricco repertorio delle arti marziali filippine, tra cui l’Eskrima, l’Arnis e il Kali, un vero e proprio caposaldo del guerriero, insegnato assieme all’impiego per l’offesa di un vasto repertorio di altri attrezzi dall’impiego originariamente pacifico, quali bastoni da passeggio, bolos (coltellacci simili a machete) penne o le chiavi di casa. Con una versatilità niente affatto dissimile dall’arte del kobudō di Okinawa, anch’essa frutto di un paese occupato da una classe dirigente percepita come straniera (in quel caso, i samurai) e altrettanto incline a reinterpretare il senso di oggetti che nessuno si sarebbe mai sognato di requisire, perché in massima parte utili alla vita quotidiana e al lavoro, nonché parte inscindibile della cultura dei locali. O almeno, questa era l’immagine che andava faticosamente preservata…

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