Un ponte che riunisce la Cornovaglia con gli spiriti del suo passato

Il vento soffia sull’alta scogliera, passando attraverso i molti spazi vuoti: le strutture scomparse, in mezzo ai ruderi, dell’antico castello brevemente abitato dalla corte del conte Riccardo di Cornovaglia nel 1200, prima che il richiamo delle crociate lo portasse a fornire il suo supporto amministrativo e diplomatico ai soldati impegnati in Terra Santa. Sibila tra le pietre della grotta di Merlino, sotto le propaggini scoscese del faraglione, dove il volto scolpito del mago scruta accigliato il moto insistente della risacca, ricordando l’impresa compiuta ancor prima che aveva dato i natali al più famoso, e importante, di tutti i re d’Inghilterra. Colui che in forma di statua bronzea artisticamente fessurata, la fida spada ben stretta tra le mani, sorveglia il sito rimasto del castello di Tintagel, ove il padre Uther Pendragon avrebbe posseduto, grazie al sotterfugio fornito dal più sovrannaturale dei consiglieri, l’inconsapevole donna adultera che presto sarebbe diventata sua madre. Cambiare aspetto? Ingannare le guardie? Soddisfare il desiderio carnale di un sovrano incline a giacere con la moglie del duca Gorlois, protetta oltre simili mura invalicabili, unite alla terra ferma da un unico ponte naturale di pietra, che “soltanto tre uomini avrebbero potuto difendere da tutti gli eserciti di Britannia”… Questioni da nulla, per colui che i Celti conoscevano come il bardo-profeta Myrddin Emrys, prima che lo storico “fantasioso” Goffredo di Monmouth lo ribattezzasse in latino nel XII secolo, associandolo all’anziana figura del condottiero romano Ambrosio (Merlino) Aureliano. Ma preservare una simile preziosa, insostituibile via d’accesso, anche attraverso il transitare inarrestabile dei molti secoli che ci separano dall’Era di tali leggende, ciò avrebbe superato di gran lunga persino le sue possibilità. E fu così che in un momento imprecisato, il faraglione di questo forte venne spezzato dalla furia ricorsiva degli elementi, portando al crollo di quel sentiero, utilizzato con grande profitto dai conti, duchi e sovrani di tanti anni fa. Il che non fu, in ultima analisi, un’ostacolo insuperabile, come potrebbero testimoniare le circa 200.000 persone che ogni anno si recano presso questi luoghi, per visitarli passando attraverso il villaggio omonimo di Tintagel, quindi giù per una lunga serie di gradini, attraverso un camminamento all’altezza approssimativa dei flutti e poi di nuovo su, faticosamente, oltre i molti metri che li separano verticalmente dalle antiche mura. Tutto è possibile, se c’è il desiderio, e in Eoni particolari diventa possibile ricreare persino il particolare spirito creativo della natura. Su appalto e suggerimento dell’English Heritage Fund, l’associazione non a fine di lucro incaricata di preservare e promuovere alcune delle più importanti località storiche d’Inghilterra. Che giusto nel 2015 indisse un concorso per la progettazione del nuovo ponte, costruito all’altezza massima concessa dalla scogliera in questione e per questo capace di ricreare l’antica via d’accesso dei nobili verso le mura che furono edificate da Riccardo di Cornovaglia. Selezione vinta dagli studi di architettura Ney & Partners e William Matthews Associate, collaboratori nel proporre quanto, giusto in questi estivi e salienti giorni, sta attraversando le ultime fasi del suo allestimento. Qualcosa che neanche il vento, potrà mai sperare di scardinare…

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Ricerca dimostra l’insospettata perizia canora delle foche

Nelle viscere del centro di ricerca, entro la vasca piena delle acque lasciate entrare dall’Oceano appena fuori queste mura, qualcosa sembra muoversi in maniera erratico. Quando a un tratto, la testa sbuca in riva alla piscina: è una lontra! No, deve trattarsi del famoso… Cane d’acqua! Con le pinne al posto delle zampe anteriori, e una grande coda da sirena. Il grigio essere anche detto “maiale di mare dal naso uncinato” (letteralmente in latino: Halichoerus grypus) che con agile sussulto, sale su all’asciutto, prima di mettersi a fissare qualcuno oppure… Qualcosa? Con suono penetrante, d’un tratto, qualche altoparlante inizia a emettere la melodia riconoscibile della famosa ninnananna inglese “Twinkle Twinkle Little Star”. La foca sembra pensarci solamente per un attimo. Quindi in modo soltanto lievemente stonato, inizia attentamente ad abbaiarne le salienti note…
Nostro quasi-gemello dalla fronte aerodinamica, le sopracciglia sporgenti e il naso sovradimensionato, l’uomo di Neanderthal trovò modo di esprimere tutta la propria intelligenza e capacità tecnica durante il periodo Paleolitico Medio. Finché un giorno, senza neppure l’accenno di un preavviso, cessò di esistere improvvisamente, lasciando il mito di un’alternativa razza umana che poteva ancora esistere in parallelo, se soltanto l’intera faccenda si fosse risolta in modo differente. Questo poiché niente è più importante, nella formazione di una civiltà capace di oltrepassare le generazioni, dell’apprendimento di un sistema realmente efficace per comunicare i propri bisogni, sentimenti e direttive ai propri simili, verso la definizione di un qualche tipo d’obiettivo comune. E questo è vero per gli ominidi, almeno quanto gli animali, dove il grado di sofisticazione del comparto di vocalizzazione costituisce un importante tratto distintivo nella valutazione dei rispettivi percorsi evolutivi pregressi. Vedi per esempio il caso delle scimmie più simili a noi, scimpanzé, gorilla ed altri primati, che pur possedendo pollice opponibile, massa cerebrale, strutture familiari complesse, non sono capaci d’elaborare neanche l’accenno di un suono articolato, laddove un semplice pappagallo, per non parlare del fantasmagorico uccello lira (Menuridae/Menura) possono agevolmente rivaleggiare l’ampia gamma di suoni prodotti da un umano del mondo moderno.
Eppure, quante e quali cognizioni possiamo realmente trarre sull’origine del linguaggio a partire da un qualsivoglia tipo d’uccello, creatura molto più simile ai dinosauri che hanno anticipato la nostra esistenza su questa Terra, piuttosto che a noialtri pur sempre bipedi, benché privi di piume, becco e coda per tenersi in equilibrio sopra i rami? Ben poche comparativamente parlando, potrebbero rispondere a pieno titolo Amanda L. Stansbury e Vincent M. Janik, ricercatori dell’Università di St. Andrews in Scozia, al termine di un lungo anno trascorso ad approfondire le capacità vocali del loro animale preferito, dimostrando qualcosa che già in molti sospettavamo: il fatto che i mammiferi marini, fatta eccezione per gli adattamenti dovuti al loro specifico ambiente d’appartenenza, sono tra le creature più simili a noi su questo pianeta. E che tra tutti loro, particolarmente i pinnipedi (foche, leoni marini, trichechi…) sono quelli dotati di una laringe dalle proporzioni familiari, labbra, lingua e addirittura la coppia di plichi vibranti nelle profondità della gola che noi siamo soliti chiamare “corde vocali”, particolarmente utili a produrre effetti sonori abbastanza simili e riconoscibili, sia fuori che dentro le profondità marine. Grazie alle particolari forme controllabili dell’onda sonora, definite in gergo tecnico “formanti”. Che permettono di creare suoni adatti, letteralmente, a una vasta serie d’occasioni…

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L’eccellenza italiana del treno che credeva di essere una moto

All’avvicinarsi della terza curva che consentiva d’immettersi sulla strada di scorrimento urbana, verso il tragitto che portava a scuola, ebbi un’improvvisa realizzazione: il fatto che ad analizzare con il senso critico l’intera faccenda, il modo più sicuro per immettersi non fosse dopo tutto, fermare il motorino in mezzo alla corsia, come fatto fino ad ora. Bensì limitarsi ad una breve decelerazione, anticipando con i gesti il movimento in grado di modificare il vettore di movimento nel senso della marcia, procedendo con certezza verso l’obiettivo finale. Fu quello il singolo momento in cui ogni aspirante centauro, attraverso l’inclinazione del suo punto di vista, sperimenta per la prima volta l’effetto della forza centrifuga alla guida. Sensazione strana ed inebriante, in grado di aumentare al tempo stesso la percezione gravitazionale che ti spinge nel senso contrario al cambiamento desiderato, eppur toglie momentaneamente ogni consapevolezza della propria singolare transitorietà. Quando smetti di essere una mente in viaggio, trasformandoti nel corpo spinto innanzi dalle circostanze, secondo i crismi di una macchina che avrebbe senso definire “Moto (non più) lineare ed uniforme”.
Ed è così che nacque, assai probabilmente, la cognizione assai diffusa nei primi anni ’70 e particolarmente in Europa, che dovesse esistere un modo migliore per spostare le persone, come il singolo, così la moltitudine, attraverso l’invenzione rinnovata di cosa fosse, e la maniera in cui dovesse comportarsi, un treno. Giusto mentre due nazioni, in modo particolare, investivano copiose risorse finanziarie nella costruzione di un diverso binari, ragionevolmente rettilinei nonché conformi a standard produttivi più elevati, capaci di permettere una marcia a un ritmo di plurime centinaia di chilometri orari: la Francia, con i suoi lignes à grande vitesse (LGV) ed il Giappone degli iconici 新幹線 (Shinkansen, nuovi tronchi ferroviari). E che dire invece di tutti quei paesi che, avendo recentemente investito copiose risorse nel potenziamento delle proprie reti, a quel punto non potevano, o volevano cambiarle nuovamente per accomodare gli ultimi progressi in materia di motori, pena spese ancor maggiori e difficili da sobbarcarsi… Luoghi come la Spagna, l’Inghilterra, la Svizzera, la Svezia e perché no, l’Italia, il cui primato tecnologico-industriale grazie a grandi aziende nazionali come la FIAT, a quei tempi, non era ancora stato messo in dubbio da nessuno. E fu quindi proprio quest’ultima, grazie a un progetto collaborativo tra la Ferrovie di Stato e la sua Sezione Materiale Ferroviario di Torino, a percorrere per prima la strada che avrebbe potuto condurre alla domanda maggiormente risolutiva, che riporterò a seguire. Se non è possibile cambiare il percorso ferroviario per favorire l’impiego delle nuove locomotive, perché non modificare il funzionamento dei vagoni? Sfruttando quel concetto largamente noto secondo cui non sono le macchine trasportatrici, intese come attrezzatura tecnologica capace di svolgere una funzione, a presentare il limite ultimo di quale metodo possa servire allo scopo. Bensì coloro che le usano, ovvero i limitati, problematici, esigenti umani. Persone come i passeggeri, che salendo a bordo di un convoglio perfettamente in grado di raggiungere i 200 Km/h in tratte serpeggianti come Roma-Napoli, Roma-Ancona o quella pressoché leggendaria tra Trofarello ed Asti, pretendevano persino di non ritrovarsi disorientati, mentre l’oggetto perfezionato al fine di rispondere a una simile esigenza, voltava e poi voltava ancora il suo senso di marcia, con precisione millimetrica seguendo le precise indicazioni dei binari. Almeno finché nel 1971, sotto gli occhi della commissione deputata, fece il suo debutto l’innovativo prototipo del FIAT V 0160, primo treno “ad assetto variabile attivo” (mediante l’impiego di pistoni idraulici) nella storia di questo particolare modo di spostarsi da un punto A a B. La cui caratteristica del tutto inusitata, per riprendere il discorso motociclistico d’apertura, era quella d’inclinarsi letteralmente fino a una pendenza di 35-40 gradi, nel preciso istante in cui il suo prezioso e vociante carico si ritrovava ad affrontare una curva, in direzione opposta ad essa, mediante i dati raccolti da una serie di sensori elettronici. Il che permetteva di ridurre, in modo apprezzabile, le forze soggettivamente sperimentate da costoro, con conseguente ritorno ad un disagio tollerabile, per non dire appena apprezzabile, persino sulle succitate tratte dal tenore più rallistico e insicuro. E fu quello l’inizio della storia dell’indimenticato Pendolino, primo concetto di un treno super-veloce letteralmente adatto a “tutti i terreni” (o per meglio dire, anzianità dei tragitti d’impiego) lasciando un segno indelebile nella storia delle ferrovie europee. Al punto che non pochi altri paesi tra quelli citati, in epoca coéva, tentarono di riprodurre le sue prestazioni senza pari…

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L’arcano scheletro della foresta che univa le isole inglesi

Ombre scure tra le onde del bagnasciuga, come rocce o antichi fossili dimenticati. Dopo l’ultima tempesta, la spiaggia grigia di Ceredigon (a.k.a. Cardigan Bay) sulla costa occidentale gallese non apparve più la stessa… Qualcosa di diverso interrompeva la monotonia del familiare paesaggio. Era la fine di maggio del 2019, ma un evento simile aveva già avuto modo di verificarsi varie volte in precedenza, l’ultima delle quali nel 2013: quando il vento, la pioggia, il mare mosso avevano collaborato, nel colpire e spazzare via lo strato di sabbia mista a torba di un simile scenario, mettendo a nudo un incredibile reperto morto-vivo risalente a circa 4.500 anni fa. Schiere d’alberi infiniti, pini, querce, betulle, ontani e frassini, o per meglio dire i loro ceppi parzialmente integri, completi di radici. Niente affatto mutati in pietra, ovvero mineralizzati dai processi che trasformano creature organiche in reperti in grado di attraversare immutati gli Eoni; bensì caratterizzati dall’aspetto e quella consistenza, perfettamente riconoscibile, che tende a possedere il legno marcescente. Proprio così: pochi anni sembravano essere trascorsi, soggettivamente, dal momento della loro dipartita. E poiché si tratta di piante, espressioni vegetative del concetto di stesso di sopravvivenza sopra ogni cosa, non pare del tutto impossibile che da un giorno all’altro possano tornare a germogliare. Al canto degli pterodattili nei cieli, mentre in lontananza, sembrano risorgere le risplendenti torri del leggendario Cantre’r Gwaelod, il regno che un tempo si estendeva dal Galles all’Irlanda, prima che un’inondazione del tutto imprevista ne spazzasse via le mura e tradizioni . Un mito, il qui citato, tutt’altro che raro tra i popoli di tutto il mondo, e riconducibile al concetto assai diffuso del Diluvio Universale, benché in questo particolare frangente, l’evidente prova della vegetazione pregressa sembri richiamarsi ad un fatto realmente avvenuto: una colossale e sicura frana, avvenuta secondo i geologi attorno a 6 millenni fa, di tre altopiani sottomarini al bordo estremo della placca continentale norvegese. Nota convenzionalmente come evento di Storegga e capace, secondo una vasta serie di accreditate teorie, di portare alla scomparsa di ampi territori emersi noti come “Doggerland”, sia da un lato che dall’altro di quel luogo che un tempo era una penisola, oggi noto come arcipelago della Gran Bretagna. Niente volontà divina quindi, o alcuna punizione per le malefatte delle genti coéve; bensì pura e incomparabile disgregazione, frutto degli eventi e sconvolgimenti della Terra stessa, che con tanta assiduità, attraverso i secoli, ci nutre. Finché la misura e colma e giunge l’ora, lungamente paventata, di spazzare via i ricordi e dare inizio a un ulteriore capitolo dell’esistenza umana. Ma poiché la natura possiede questa innata tendenza, particolarmente rappresentativa, a resistere ai suoi stessi processi, può talvolta capitare che la particolare composizione del suolo anaerobico, capace di costituire una massa compatta e indivisa, agisca come un frigorifero senza elettricità, preservando ciò che tanto a lungo era stato nascosto agli occhi delle persone. Gente come gli abitanti dei villaggi di Borth e Ynyslas, ormai da molte generazioni rassegnati a convivere con l’avanzata lenta ma inesorabile del livello dell’oceano come dovettero fare, a un ritmo molto accelerato, i loro insigni predecessori. Ma anche i pescatori, bagnanti e turisti della terra emersa a fronte del braccio di mare antistante, quella spiaggia di Youghal in Irlanda, dove molto evidentemente lo stesso accadimento si verifica, a intervalli irregolari, esponendo quello che potrebbe anche essere l’altra estremità del perduto bosco. Dando luogo a un’ampia serie di speculazioni…

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