L’attesa rivincita di un fiero trattorino samurai

Sembra quasi di sentire le loro voci: “Quell’auto è una barca!” oppure: “L’aereo che ci sta passando sopra in questo istante: un vero triciclo” affermazione equiparabile all’offesa imperdonabile per colui che naviga: “Il suo batiscafo, mio capitano, rassomiglia molto da vicino ad un camion frigo.” Per cui sembra, più di ogni altra cosa, che paragonare un qualche tipo di veicolo, indipendentemente dal suo impiego predeterminato, a quello di un differente contesto, rappresenti sempre un’affermazione carica di sottintesi, molti dei quali pesanti come macigni, che ben pochi soggetti si sognerebbero di definire positivi. Vale a tal proposito, la similitudine diffusa soprattutto nei paesi anglosassoni, che tende a ricondurre l’intero catalogo motoristica della Honda Giken Kōgyō Kabushiki Kaisha (nome aziendale generalmente ridotto al solo primo termine dell’insieme) come appartenenti a pieno titolo all’insieme dei trattorini tagliaerba, di cui comunque tale azienda resta produttrice rinomata sull’entusiasmante scena del giardinaggio internazionale. Ciò detto, nessuno vorrebbe vedere ricondotti i propri veicoli dalle prestazioni più elevate a un mezzo dalla velocità massima di 8-10 Km/h a seconda della pendenza, la cui efficacia prestazionale finisce nel momento in cui sconfina fuori dal precipuo prato d’appartenenza. Il che sottintende due possibili soluzioni: dissociarsi pubblicamente (sperando di non ottenere l’effetto contrario) oppure cavalcare la Grande (h)Onda, per così dire, innalzando sensibilmente il livello delle associazioni possibili tra le due cose: ovvero stabilendo il nuovo record del trattore tagliaerba più veloce al mondo. Una strada, questa, orgogliosamente percorsa dal team di marketing della potente multinazionale nipponica a partire almeno dal 2013, quando collaborando con la sua squadra di corse britannica Team Dynamics, scrisse il primo capitolo di una storia destinata a ricevere un secondo capitolo dai freddi paesi del Nord Europa. E in questo giugno del 2019, addirittura un terzo, presumibilmente l’ultimo (?) della storia.
Saga il cui titolo potrebbe essere, volendo usare il punto di vista titolare, quello di Mean Mower, più o meno letteralmente “Il Taglia-Erba Incavolato” nome scelto per l’allestimento dei suddetti del popolare modello di fascia alta Honda HF 2622, famoso per l’affidabilità e del particolare sistema di trasmissione idrostatica e il motore a quattro tempi da 21 cavalli e 688 di cilindrata GXV660. Che ovviamente non sarebbe stato valido allo scopo di tentare la scalata del Guinness dei Primati, ragion per cui fin dalla prima versione del progetto, i meccanici inglesi coinvolti guardarono con interesse verso il dipartimento delle due ruote dei loro committenti estremo orientali, scovando la soluzione potenzialmente ideale nel CBR 1000RR “Fireblade”, carenata stradale sportiva derivante dall’esperienza in campo sportivo della compagnia, capace di raggiungere agevolmente i 13.000 giri erogando la considerevole cifra di 200 cavalli. Il che, a bordo di un trattorino dal peso complessivo di 254 Kg appena, risulta sufficiente a garantire una rapporto peso-potenza paragonabile a quello di una Bugatti Chiron, benché la velocità massima resti condizionata da fattori contingenti di natura trasversale (come per l’appunto, l’incolumità del pilota). A sostegno ulteriore dell’iniziativa, quindi, l’integrale riprogettazione del telaio ed eliminazione delle lame per ovvi motivi di sicurezza, premurandosi di sostituirle con un filo tagliente rotativo come previsto dal regolamento, per il quale il mezzo avrebbe dovuto mantenere “aspetto e funzionalità” di un tagliaerba. Detto ciò, il veicolo fu scatenato in pista, dimostrandosi capace di raggiungere i 186 Km/h, un record che sembrava destinato a durare molto a lungo. Se non che giusto l’anno successivo, un altro tipo di guerriero, famoso per le sue navi affusolate e gli stereotipati, anti-storici elmi cornuti, sarebbe sorto a dimostrare cosa significa essere un vichingo dell’asfalto con capacità di sfoltimento vegetativo incorporata…

Leggi tutto

La differenza tra un cane russo e neozelandese al volante

Certe aziende tecnologiche ad ampio spettro, soprattutto quelle con forti interessi nel campo della pubblicità online, hanno un debole particolare per le automobili con elementi di forma tondeggiante posizionati al di sopra del parabrezza. Strumenti come la telecamera sferica a 360 gradi, il cui sguardo digitale è stato sperimentato da molti di noi, mentre percorrevamo distrattamente una delle molte città sottoposte al trattamento di digitalizzazione per il portale di localizzazione più utilizzato al mondo. Ma Google Maps, di questi tempi, è notoriamente “out” mentre il colosso di Menlo Park sembra interessarsi, ormai da svariati anni, al passo successivo di un simile approccio all’innovazione, costruire veicoli per il trasporto umano in cui quest’ultimo si trovi a rivestire l’unico ruolo che dovrebbe, idealmente, appartenergli: quello di un prezioso e insostituibile carico, da preservare accuratamente mentre un computer, intelligentissimo, si occupa della guida. Basandosi, a tal fine, sulla percezione sensoriale di una serie di dispositivi, il primo tra i quali è il preminente sistema LIDAR (Light Detection and Ranging) dalla forma di un appariscente cilindro al posto dell’array d’obiettivi che ci era stato insegnato a riconoscere nel corso delle nostre esperienze pregresse. Un oggetto che suscita diffidenza, per la sua soltanto presunta funzione di riconoscere e (si spera) evitare l’impatto coi malcapitati pedoni che dovessero ipoteticamente attraversagli la strada. Qualcosa d’inquietante e malevolo nell’idea di molti, come l’occhio privo di palpebra di un Terminator veicolare. Ecco dunque una possibile soluzione che potrebbe spedire in avanti, di molti mesi o anni, l’accettazione della guida automatica da parte dei distinti popoli di questo mondo: ricoprire di pelo il meccanismo e inserirlo al posto di guida. Aggiungere due orecchie, una coda e un muso a tartufo umido, capace di percepire le benché minime variazioni nella composizione chimica dell’atmosfera. Anzi, ho un’idea migliore: perché non usare un cane Vero?
Alla stessa maniera di quanto dimostrato dal popolare personaggio di YouTube Vladislav Barashenkov, il meccanico della città siberiana meridionale Novosibirsk che, costituendo la mente e il volto del celebre format “Garage 42”, ci delizia da tempo con le sue fantastiche e inusitate invenzioni veicolari. Iniziative come l’automobile-sedia-a-dondolo, quella triplice con funzionalità fidget spinner, il SUV costruito interamente di ghiaccio o ancora esperimenti soltanto parzialmente riusciti, quali riempire gli pneumatici di cemento, ricoprirle di chiodi o allungare la benzina nel serbatoio con l’urina d’asino, come in una famosa commedia cinematografica russa. E che forse stanco di essere continuamente fermato e riconosciuto per le strade, ha questa volta deciso di procurarsi quella che sembrerebbe essere a tutti gli effetti una BMW Serie 5 del 1988-1996 (lui la chiama soltanto “Beemer” utilizzando un nomignolo generico per le auto di questa compagnia) in condizioni ragionevolmente integre, per sostituire tutti i finestrini della parte posteriore con vetri fumé ed aggiungere una seconda posizione di guida interconnessa con quella principale, ricavata dal volante e altre componenti meccaniche prelevate direttamente da una vetusta GAZ M21 Volga (auto, c’è anche da dirlo, dotata di un suo fascino senza tempo) Per poi andare a farci un giro ma non prima di aver fatto sedere al posto di guida il fidato pastore tedesco Max, perché giustamente serviva poter disporre dell’immagine, se non le zampe, di un cane capace di vantare eguale provenienza. Che offrisse il suo sguardo disarmante agli automobilisti in strada, mentre almeno apparentemente, conduceva con palese perizia l’ampia serie dei gesti necessari a realizzare la principale funzione di un veicolo nella società…

Leggi tutto

Dai futuristici anni ’80, l’anello mancante tra la macchina e la moto

Tolta la curva parabolica, l’entusiasmante rettilineo. Senza più l’elettrizzante discesa o il preoccupante dosso, l’intollerante cordolo, l’appiccicosa trappola di sabbia. Cosa resta di una guida che potremmo definire, a pieno titolo, capace di fornire un’esperienza memorabile? Poiché tutti sappiamo, nel nostro profondo, che dotarsi di una rossa sportiva o l’enorme e potente SUV, piuttosto che l’agile ultraleggera mono e bi-posto, è un gesto futile per chi non suddivide i propri giorni tra la pista e il ruvido asfalto cittadino, poiché il traffico ed il codice (per ovvie e semplici ragioni) riducono drasticamente le opportunità d’esprimersi al volante. Rendendo l’una e l’altra cosa, in maniera indipendente dall’energia cinetica serbata nel motore, sostanzialmente del tutto identiche tra loro. Ecco dunque la ragione, per qualcuno, di cercare un modo per cambiare ciò che ci si aspetta dal veicolo, in quanto tale: quantità e posizione delle ruote, forma e tipo del volante, disposizione di autista e passeggero. E soprattutto, il comportamento del veicolo in curva. Difficile capire, a questo punto, se l’avveniristica natura della Litestar/Pulse di Jim Bede, all’epoca della sua prima costruzione nel 1982, fosse dovuta a un’effettiva ricerca di migliorare quanto precedentemente dato per scontato. Oppure, una mera coincidenza accidentale dei fattori ingegneristici in gioco. Ciò possiamo confermare, per lo meno: colui che ebbe ragione di crearla rappresentava e aveva rappresentato ancora (all’epoca del suo decesso nel 2015, all’età di 82 anni) un vero e proprio genio dell’ingegneria applicata ai desideri della gente, dando al pubblico americano quello che avevano ragione di desiderare più di qualsiasi altra cosa: tecnologia innovativa, a un costo relativamente accessibile a chiunque. Di questo grande progettista americano abbiamo già parlato, qualche tempo fa, restando nell’ambito del suo lascito più celebre, quello dei veri micro-aerei in scatola di montaggio con i più svariati allestimenti motoristici, che più di una vita finirono per costare agli sconsiderati acquirenti, fin troppo approssimativi nel seguire le fondamentali istruzioni. Non tutti sanno, tuttavia, di come verso la fine degli anni ’70, dopo il collasso economico della sua azienda Bede Aircraft nell’ennesimo capitolo dei suoi molti guai con i finanziamenti e la consegna per tempo di quanto evidentemente pre-ordinato, l’eclettico Jim ebbe modo e tempo di dedicarsi a un qualcosa di completamente diverso. Costituendo quella la realtà sarebbe stata iscritta ai registri aziendali come Jim Design, dichiaratamente dedita a rivoluzionare il concetto di automobile e tutto ciò che questa tendeva a comportare. Ulteriore sogno da cui vennero due cose perfettamente distinte: la prima fu la Bede Car, iper-futuribile macinino dall’economia notevole dei consumi, ma basato sulla tecnologia piuttosto fuori luogo di una grossa elica intubata e per questo quasi del tutto incapace di effettuare una partenza in salita. La seconda era l’assai più utilizzabile, nonché intrigante Litestar.
Immaginate a questo punto una giornata di sole primaverile, che batte insistentemente sopra quella fabbrica di Owosso, Michigan, dove fino al 1990 fu prodotta la maggior parte dei 325 veicoli venduti al tempo (fatta eccezione per la singola serie proveniente dallo Iowa) di cui una parte significativa, in quel fantastico momento, sembrava trovarsi solennemente riunita in un singolo e tanto importante luogo. Ciascuno di un colore diverso, una livrea fantasiosa, oppure decorato come fosse quel jet da combattimento a cui, a suo modo, sembrava desiderasse assomigliare; è tutto ciò nient’altro che l’annuale raduno dei proprietari del primo cosiddetto “autociclo” un qualcosa di motoristico che non avrebbe mai, realmente, conosciuto eguali….

Leggi tutto

Il coraggio di una guida turistica di fronte alla furia degli elefanti

Molte sono le cose di cui tener conto mentre si percorre una strada sterrata sudafricana all’interno del selvaggio territorio del Kruger Park. Ci sono ostacoli sul sentiero? Pozzanghere dall’area sospetta, capaci di nascondere buche eccessivamente profonde? Ci sono branchi di bufali che minacciano di attraversare? Leoni, ghepardi, famiglie di antilopi o impala? Ciò che normalmente non preoccupa il sistema di sicurezza ereditario dell’istinto umano, è la possibilità di trovarsi all’improvviso di fronte ad un pachiderma alto all’incirca 4 metri per 6 tonnellate di peso, ovvero caratterizzato da dimensioni superiori rispetto allo stesso veicolo che diventa, in quel caso, un’ancora di salvezza capace di riportarci sani e salvi nel familiare reame della civiltà umana. E comprensibilmente arrabbiato, per la rumorosa intrusione all’interno del suo sacro territorio. Più o meno quello che capitò a Lee Fuller ed il suo collega Alan Yeowart (utilizzatore della telecamera l’uno, uomo al volante l’altro) durante una “tranquilla” lezione sul comportamento del genus Loxodonta, comunemente detto elefante africano. Ma aspettate, c’è dell’altro: poiché col progredire dei fatali secondi, mentre l’autista col ghiaccio nelle vene si affretta ad arrestare il veicolo al fine di non peggiorare ulteriormente la situazione, al propagarsi di un’inaudibile fruscio tra le fresche fronde della foresta, ombre nere si profilano all’orizzonte: non era questo in effetti un esemplare solitario, bensì il membro maschio di un branco al comando di una solenne matriarca proboscideale, con tutto il suo seguito di ancelle, spasimanti e almeno un cucciolo, momentaneamente visibile ai margini dell’inquadratura. Terrore. Ansia incrementata dall’eco di assordanti barriti sempre più prossimi al parafango. L’orribile realizzazione di trovarsi in quel doloroso attimo, essenzialmente, a pochi minuti dalla fine della propria esistenza in Terra. Tutti conoscono, ovviamente, la rabbia che una mamma orsa coi piccoli può scatenare al pensiero, più o meno giustificato, che la propria prole stia subendo un qualche tipo di minaccia. Ed ora immaginate la stessa cosa, moltiplicato fino al peso di un furgone delle consegne di Amazon, con due lunghe zanne che partono dal punto in cui dovrebbero trovarsi gli specchietti retrovisori! Ora, ci sono diversi comportamenti che possono essere scelti in un simile frangente: forse quello istintivamente più convincente potrebbe risultare il rapido inserimento della retromarcia, per dare massima potenza ai motori con la finalità di far scomparire il pericolo dietro una curva, per poi effettuare una rapida inversione a U. Ciò ha diversi vantaggi ovviamente, tra cui quello che gli elefanti, almeno in linea di principio ed in quanto erbivori, non dovrebbero presentare alcuna naturale pulsione all’inseguimento. Ma ci sono anche rischi significativi, il primo dei quali potrebbe essere sbagliare la manovra, finendo di traverso con il veicolo o peggio, contro un cespuglio poco visibile, quindi momentaneamente bloccati mentre i titani grigiastri avanzano con occhi di brace fino alla fiancata della scatoletta di metallo contenente quegli ospiti sommamente indesiderati. E non è affatto difficile immaginare ciò che potrebbe succedere, di lì a poco…

Leggi tutto