La società non era pronta per il primo monopattino motorizzato del Novecento

Qual è la vera origine del tipo di veicolo individuale dotato di due ruote, oggi maggiormente utilizzato negli ambienti urbani di tutto il mondo? Molti libri di storia dei trasporti o analisti degli scorsi secoli si affretterebbero a citare l’azienda parigina Werner, con il suo brevetto del 1897 per il veicolo denominato Motocyclette, capace di coniugare l’impianto di un motore a quattro tempi e singolo cilindro alla forma, il funzionamento e la meccanica di quello che fino a poco tempo prima sarebbe stato definito un velocipede, piuttosto che il termine dall’uso più specifico di “bicicletta”. Eppure se si osserva con occhio critico la posizione di guida ed il tipo di manovre possibili con l’iterazione più diffusa, soprattutto in Europa ed Asia, del veicolo moderno che consegue dallo stesso paradigma di mobilità e convenienza, sarà impossibile tralasciarne le differenze: in primo luogo la posizione di guida, più seduta che a cavalcioni, ed in secondo, la maniera in cui si guida e affrontano le curve di entità media o superiore, girando il manubrio con enfasi decisamente maggiore. Questo perché il motorino, o scooter che dir si voglia, deriva da un dispositivo simile ma totalmente parallelo e distinto. Pensate, a tal proposito, al tipico monopattino per bambini (o quello elettrico dei nostri giorni). Aggiungetegli adesso un sellino e BAM! Non saremo innanzi ad una Vespa o Lambretta, ma è innegabile che per lo meno dal punto di vista concettuale, ci siamo andati vicini. Un po’ come fecero, esattamente 24 anni prima, nella fabbrica newyorchese dell’azienda Autoped di Gibson Arthur e Hugo Cecil, una realtà incidentalmente tanto simile al funzionamento di un’odierna startup aziendale, da utilizzare lo stesso nome operativo del suo brevetto principale, nonché unico prodotto proposto ai clienti. Che poi sarebbe diventato anche lo slogan pubblicitario: “AUTOPEDING” un verbo fantasioso creato per indicare l’utilizzo dell’innovativo sistema di trasporto. “Per il pendolare, il messaggero, il dottore, chiunque altro desideri risparmiare. [sui costi della benzina]” Fattore particolarmente significativo quest’ultimo, visto come l’iniziale commercializzazione della meraviglia in questione, non elettrica bensì dotata anch’essa di un motore a combustione interna, fosse avvenuta proprio nel 1915, l’anno in cui le trincee cominciarono a risuonare dei colpi di fucile delle maggiori potenze europee. L’effettiva realtà della questione d’altra parte è che prima del momento in cui ogni singola città moderna iniziasse ad essere costruita in base all’esclusiva idea urbanistica dell’automobile e tutto ciò che questa comporta, c’era una quantità persino maggiore di ragioni per ricorrere all’impiego di sostegni veicolari dal più elevato livello di efficienza. Come cominciarono a scrivere gli articolisti in materia, con particolare (e sensazionalistico) riferimento alle gang di malviventi, che si trovavano perfettamente a loro agio nell’impiego di un dispositivo simile per poter sfuggire alle vetture della polizia, infilandosi all’interno di vicoli e luoghi di passaggio ancor più angusti…

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Il vecchio cuore nella ruota della leggendaria moto a trazione anteriore

Se si considera la questione da un particolare punto di vista, la tipica moto presenta molti elementi non propriamente indispensabili al suo funzionamento. Quali sono i benefici arrecati all’esperienza di guida da semplici inezie quali un carburatore, la trasmissione, un sistema di marce o persino la frizione? I cavalli non possiedono simile caratteristiche, eppure siamo pronti ad associarli alla figura del centauro, che implicitamente veneriamo nell’ambito di questa particolare espressione dei trasporti individuali umani. Una creatura che ha sorpassato l’implicito limite degli esseri a due gambe. Per diventare qualcosa, o qualcuno d’infinitamente più veloce e resistente alla fatica. Almeno finché non termina la benzina. E non ci sono dubbi che il guidatore medio della strana motocicletta oggetto della nostra trattazione, la sincretistica Megola prodotta nel 1921 dai tedeschi MEixner, COckerell, e LAndgraf (a quanto pare il portmanteau MeGOla non piaceva o era già preso) si sarebbe reso conto dell’incombente verificarsi di una tale contingenza, vista la necessità frequente di “pompare” il contenuto del serbatoio principale sotto il suo sedile verso la piccola borraccia rettangolare situata a destra della ruota anteriore stessa. Questo per il piazzamento alquanto insolito del suo motore in corrispondenza del mozzo di quest’ultima, al tempo stesso un punto forte, ed importante limite, dell’approccio progettuale dei suoi creatori. Il che non definisce ancora l’effettiva portata rivoluzionaria del modello, quando si considera la natura e l’effettivo funzionamento di tale impianto. Superficialmente catalogabile nel gruppo dei motori radiali per la distribuzione a stella dei suoi cinque cilindri, a partire da un punto centrale in questo caso corrispondente al mozzo stesso dell’implemento. Perché analogamente a quanto fatto da taluni dispositivi di propulsione appartenuti agli aerei della prima guerra mondiale, in questo singolare caso, qui era l’intero assemblaggio a ruotare assieme allo pneumatico finalizzato a incorniciarlo, mentre borbottando egregiamente si occupava di spingere innanzi la restante parte della moto e il suo adattabile utilizzatore. Pensereste infatti, forse, che l’esperienza di utilizzo di una Megola possa essere in qualsiasi modo ricondotto a quello di un biciclo contemporaneo? Sappiate che ciò è molto vero e al tempo stesso, in maniera non del tutto prevedibile, molto difforme dalla verità dei fatti. Tanto per cominciare, a causa del fatto che l’ingegnoso marchingegno con la sua strana configurazione non poteva, in alcun modo fermare del tutto la sua marcia a meno di uno spegnimento completo. Motivando l’inclusione per niente ironica nel manuale d’uso e manutenzione del diagramma a forma di otto che il coraggioso uomo a bordo avrebbe dovuto percorrere, idealmente, durante le soste obbligatorie di fronte alle “luci robotiche” degli incroci. Che poi null’altro erano che i primitivi semafori del primo quinto del secolo scorso. Un’epoca in cui la carenza di traffico, se non altro, lasciava spazio sufficiente all’implementazione di simili strani, ed in qualche modo funzionali esperimenti…

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L’idea del camion ribassato per incrementare l’efficienza dei trasporti continentali

Due scuole di pensiero contrapposte, sui sentieri logistici dei tempi moderni: da una parte il camion a 18 ruote statunitense, con il suo lungo cofano ed il potente motore, aerodinamico, spazioso, confortevole castello su ruote. Dall’altra, la tipica motrice stradale europea, compatta, efficiente, maneggevole, lo strumento calibrato per assolvere a uno scopo estremamente preciso. E se potesse esistere, nel mondo, una terza via? Un approccio che potesse al tempo stesso ottimizzare i costi e allontanare contrattempi, distrazioni, problematiche tangenti d’imprevista e occasionale natura. Che cos’è dopo tutto il trattore di un autotreno, se non la piattaforma usata dall’autista per spingere innanzi un semirimorchio? E se la cabina di quest’ultimo potesse, in fase progettuale, essere del tutto eliminata? Premettendo dunque che non siamo qui a parlare oggi di camion del tutto autonomi (troppo presto per questo oltre quattro decadi a questa parte) il mezzo infine presentato al salone di Francoforte del 1983 dall’ingegnere e imprenditore di Stoccarda Manfred G. Steinwinter era la più perfetta realizzazione del principio secondo cui nei trasporti “Ogni lasciata è persa”. Con un particolare riguardo al limite, introdotto come parte dei regolamenti della Comunità Europea, per una lunghezza massima di quella classe veicolare, esplicitamente finalizzata alla movimentazione di carichi pesanti. Poiché questo faceva in poche parole lo Steinwinter SuperCargo 2040, alias Cab-Under, pur senza dimostrare particolari manie di protagonismo. Essendo situato ad arte, in base a un piano logico ben preciso, al di sotto, piuttosto che davanti, il contenitore rettangolare del suo rimorchio. L’approccio è stranamente familiare per chiunque abbia mai visto il tipico inseguimento dei film d’azione, in cui ad un certo punto l’auto sportiva del protagonista sfugge ai cattivi o ai poliziotti insinuandosi in modo acrobatico tra il l’avantreno e il retrotreno di un Transport Internationaux Routiers, più comunemente detto “TIR”. Ciò in quanto resta del tutto possibile, rispettando i regolamenti e le norme della condivisione stradale, costruire un veicolo non più alto di 1,2 metri. Soltanto nessuno aveva ancora pensato, all’epoca, di fare esattamente lo stesso con il mezzo da lavoro che potremmo definire il sinonimo dele consegne stradali a medio e lungo raggio.
Un camion, ma basso: di sicuro una presenza destinata a far voltare lo sguardo ad automobilisti innumerevoli, nel corso della breve storia di utilizzo e sperimentazione del suo prototipo. Che anticipando in modo significativo alcuni crismi progettuali destinati a diffondersi soltanto in futuro ancora nebuloso e per lo più teorico, avrebbe ahimé fallito l’ardua missione di trovare un mecenate o finanziamenti adeguati. Finendo irrimediabilmente per naufragare, come innumerevoli altri bastimenti nell’oceano agitato dei commerci internazionali…

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L’impennata veicolare dell’ovoide che rendeva omaggio alla Torre Eiffel

Senza un briciolo d’esitazione, l’uomo nella bolla imbocca il viale oggetto di un milione di fotografie l’anno. Disegnando una precisa traiettoria fino al punto di fuga prospettico desiderato, si ferma per qualche secondo a meditare. Quindi, con un rapido cambio di marcia, prepara il proprio mezzo di trasporto al movimento in senso rotatorio. Si gira a 45 gradi dalla telecamera e solleva, in modo asimmetrico, la singola ruota davanti. Ora punta con il mento, come la struttura posta sul fondale, verso il cielo spesso plumbeo della Città delle Luci. Dominando, come il destriero sull’emblema, lo spazio iconico degli Champs-Élysées.
Quando si confronta il mondo dell’alta moda con quello della produzione automobilistica, emerge chiaramente il tratto che distingue maggiormente queste due industrie: entrambe finalizzate alla risoluzione di un problema preciso, con ampia attenzione riservata all’estetica del prodotto finale. Ma che nel primo caso può spaziare in modo significativo nella tecnica, la finalità e i modelli di riferimento; mentre nel secondo si ritrova cristallizzato essenzialmente in una serie d’invariabili modelli di riferimento. Tutti sanno, dopo tutto, com’è fatto un veicolo su quattro ruote e quali sono i crismi progettuali cui è opportuno conformarsi, al fine di sfruttare al massimo i vantaggi derivanti dalla standardizzazione di strade, parcheggi ed altre tipologie di servizi. Jean-Pierre Ponthieu è “l’uomo misterioso”, a tal proposito, che tentò in un particolare momento storico di coniugare le due contrapposte scuole di pensiero a Parigi, evocando dalle nebbie impenetrabili della sua mente creativa un prodotto che sarebbe riuscito a cogliere il mondo del tutto impreparato: una vera e propria automobile ovoidale. L’ufo su ruote che si premurò di definire l’Automodule, per poi spiegare pubblicamente: “Il punto è che l’automobile è brutta. L’Automodule, invece, è bella.”
E chi siamo, noi, per dargli torto? Era del resto l’anno 1968, quando tutti provavano ogni cosa e in molti hanno scherzato in merito al ruolo avuto da sostanze allucinogene o psicotropiche nella creazione dell’ultra-eclettico veicolo in questione, in apparenza creato per spiazzare chiunque lasciandolo del tutto senza parole. Anche se, sfruttando le poche informazioni reperibili online, risulta comunque possibile una parziale contestualizzazione, tale da comprendere il modo in cui l’assurdo bolide non si fosse materializzato, in modo pressoché istantaneo, da uno spazio parallelo al nostro piano materiale d’esistenza. Risultando piuttosto a guisa di coronamento di una lunga e articolata carriera nel mondo della pubblicità, per quello che le cronache coéve avrebbero definito “il Salvador Dalì” dell’automobile. E con alcune valide ragioni, aggiungerei…

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