Gli aculei dell’asparago gigante che interrompe l’orizzonte della Namibia

L’albero del giorno è la vegetazione che sussiste, l’aspetto interpretabile che può riuscire a caratterizzare, declinare ed alterare il fondamentale aspetto di un luogo. Vi è forse qualcosa di simile, in altri luoghi del catalogo delle nazioni? Per certi versi è possibile individuare tratti simili nella dracena del drago, l’arbusto distintivo dalle plurime diramazioni dell’isola di Socotra. E nell’aloe arbustiva del Mozambico e della Namibia: anche l’albero della faretra, dopo tutto, è una forma particolarmente imponente della pianta che ben conosciamo, come l’ingrediente attivo d’innumerevoli cosmetici, prodotti per la salute della pelle ed altri ausili al benessere della persona. Ben pochi tuttavia si sognerebbero d’istituire un’industria sistematica di raccolta e sfruttamento in questi luoghi inaccessibili, dove le temperature sono sufficientemente elevate da crepare il duro letto tra le sabbie di lateriti neri, che i geologici sono soliti indicare con il termine ysterklip. In modo tale da creare sul versante di colline simili a onde l’apertura necessaria alle radici di qualcosa, qualunque cosa, l’opportunità di suggere l’umidità del sottosuolo distante. Ed ecco, allora, il risultato. Un tronco rigido e verticale, incline a ramificazioni duplici più volte ripetute fino all’altezza di 7-8 metri. Con le propaggini apicali dove, in ciascun caso, riesce a campeggiare una magnifica rosetta di foglie appuntite. Accantonata quindi la ricorrente metafora della corona di spine, sarà possibile comprendere gradualmente le caratteristiche dell’essere che abbiamo di fronte. Un appartenente, con la maggiore probabilità, della specie relativamente diffusa dell’Aloidendron dichotomum, “soltanto” vulnerabile in base agli indici internazionali, un singolare rappresentante dell’ordine delle Asparagales, piante dai tepali sgargianti ma del tutto prive di amido nel loro endosperma. Oltre ad adattamenti altamente specifici dei rispettivi territori di appartenenza, che nel presente caso permettono alla pianta di sopravvivere, ed addirittura prosperare in una regione dove cadono mediamente 269 mm di pioggia l’anno e le temperature superano già in primavera abbondantemente i 40 gradi. Caratteristiche che in genere conducono a forme di vita vegetale dalla crescita straordinariamente lenta, così come la propagazione al trascorrere delle rilevanti stagioni. Laddove il ciclo biologico che caratterizza questo albero, e gli altri due appartenenti allo stesso genere, presenta connotazioni tali da colpire per la rilevante flessibilità ed alto grado di efficienza, al punto da averne visto l’impiego anche all’interno di giardini in luoghi ecologicamente ben diversi dal loro originario territorio d’appartenenza. In quale altra pianta, d’altra parte, è presente lo stesso catalogo di formidabili elementi fisici ed esteriori? Quante altre vantano una storia comparabilmente lunga ed articolata in merito all’importanza rivestita per un popolo incline a vivere in condizioni estreme, ed in tal modo trarre il massimo vantaggio da ogni dono che gli è stato concesso dalla natura…

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Quando un finocchio taumaturgico valeva il doppio del suo peso in denarii

Tra le pietanze più pregevoli citate nel De re coquinaria, ricettario del III-IV secolo d.C. basato sull’opera e la vita di Marco Gavio Apicio, celebre cuoco dell’epoca dell’imperatore Tiberio, un ingrediente tenuto in alta considerazione sembra essere una preziosa erba proveniente soltanto da una piccola regione dalla Cirenaica, grosso modo corrispondente all’attuale Libia orientale. Tagliato a pezzi, sminuzzato, trasformato in succo o messo crudo nelle salse, parrebbe esserci davvero poco in grado di rivaleggiare con il cosiddetto silphium, quella che per inferenza parrebbe essere stata una pianta ombrellifera del genere Ferula, appartenente alla stessa famiglia del sedano, le carote ed il prezzemolo. Proprio perché rimpiazzabile con la Ferula assa-foetida o concime del diavolo proveniente dall’India, dotata di alcune proprietà comparabili ma un gusto, e soprattutto un aroma decisamente meno invitanti. Eppure in base al resoconto di Plinio il Vecchio nel suo Naturalis historia (77-78 d.C.) ad essa restavano impossibili da replicare i benefici dell’originale, che includevano la cura della pleurite, l’epilessia, le infiammazioni, la calvizie, il mal di denti e addirittura i morsi di cane o le punture di scorpione. Potendo inoltre agire se assunto in quantità copiose come afrodisiaco e al tempo stesso, anti-concezionale (o abortivo) entrambe doti particolarmente desiderabili in particolari frangenti. “Tuttavia” continuava il grande storico: “È oggi sempre più raro poter disporre di questa pianta miracolosa, i cui prati d’origine vengono acquistati dai repubblicani avidi, che vi fanno pascolare capre o pecore causandone la distruzione. Tanto che ad oggi, il prezzo del silfio si avvicina ormai a quello dell’argento.” Il che introduce a margine della questione il punto maggiormente problematico: la maniera in cui, nonostante le significative ricerche condotte sull’argomento, non sappiamo e non possiamo disporre al di la di ogni ragionevole dubbio di questo miracoloso ingrediente. Da molti considerato la prima vittima storicamente riscontrabile del sovrasfruttamento ad opera dell’uomo, che potrebbe averne causato l’estinzione a causa del suo valore percepito, coadiuvato dall’impossibilità egualmente riscontrata di coltivarlo in cattività. Se non addirittura del mutamento climatico, a causa del progressivo inaridimento dell’intera regione del Maghreb. Fino al tragico momento, anch’esso raccontato nel testo di Plinio, in cui l’ultimo preziosissimo gambo venne offerto in dono a Nerone, che lo mangiò senza eccessive cerimonie ponendo il suggello all’irrimediabile capitolo finale di questa vicenda.
Incoraggiati dalla reputazione semi-leggendaria di una simile pietanza, tuttavia, diversi studiosi d’epoca contemporanea hanno esplorato la possibilità che il silfio possa ancora esistere e che semplicemente, ad oggi, siamo diventati incapaci di trovarlo perché non abbiamo compreso esattamente la sua natura. Uno tra questi è Mahmut Miski, professore di farmacologia all’università di Istanbul, convinto di averne ritrovato un’intera colonia in prossimità del monte Hasan, nella Turchia centrale…

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Gli aspetti meno trasparenti nel consumo sistematico del frutto della palma di acai

Visivamente simile ad una sorta di mirtillo dalle dimensioni quattro volte superiori, quindi pari a 2 cm di diametro, l’acai è una drupa di colore scuro dal sapore aspro ed earthy (“terroso”) che è stata gradualmente trasformata da un sapiente marketing, nel corso degli ultimi trent’anni, in una sorta di super-cibo dei miracoli capace di curare una pluralità di afflizioni, contribuendo nel contempo alla salute ed il mantenimento di un fisico esteticamente perfetto. Per un’analogia soltanto vagamente giustificata, mediante l’inerente trasferimento al contesto contemporaneo di una costellazione di antiche credenze dell’Amazzonia, particolarmente attribuite alle popolazioni fluviali dei Ribeirinhos, che erano soliti consumarne ampie quantità con fini sia gastronomici che medicinali. Tanto da esser giunti, nel loro sistema mitologico tramandato per via orale, ad attribuirne la provenienza alle particolari circostanze di una carestia pregressa, durante cui un antico capo aveva dolorosamente decretato che i nuovi nati dovessero essere lasciati morire per l’intero anno a venire, affinché la tribù potesse riuscire a sopravvivere alla crisi. Norma applicata, spietatamente, al nipote messo al mondo dalla sua stessa figlia che dopo averlo seppellito, vide spuntare nel giro di pochi giorni dalla terra stessa un nuovo albero svettante, sotto cui decise di lasciarsi morire. Ma quell’albero (chi l’avrebbe detto?) cominciò di lì a poco a dare numerosi frutti nutrienti, che permisero alla gente del villaggio di sopravvivere fino al ritorno dell’auspicabile sostenibilità ambientale. Il nome della sfortunata donna: Iaca, ovvero acai al contrario. Non è certamente un caso. Ancorché l’etimologia effettivamente studiata del termine lo veda provenire dalla lingua portoghese , come adattamento della parola in lingua tupi ĩwasa’i, letteralmente traducibile come “frutto che piange acqua” in riferimento ai suoi notevoli presupposti d’idratazione. In aggiunta ai ricchi e più recentemente scoperti ingredienti attivi di numerosi flavonoidi ed antiossidanti, almeno in linea di principio associati alle presunte qualità benefiche di questa pianta. E ciò sebbene, resta fondamentale specificarlo, nessuno studio scientifico in materia le abbia mai davvero confermate, lasciando significativo spazio al cosiddetto passaparola online, molto spesso veicolato tramite l’opera degli stessi venditori o trattazioni tutt’altro che oggettive delle rilevanti circostanze. Da dove verrebbe, dunque, l’attuale successo internazionale, soprattutto concentrato negli Stati Uniti, che ha portato all’elaborazione di numerosi sistemi per l’esportazione di un simile frutto, tutt’altro che durevole e facile da conservare? Tutto ha inizio, o almeno questo è ciò che si dice, con il boom delle palestre di arti marziali miste all’inizio degli anni ’90, cui fece da apripista la celebre famiglia Gracie, considerata l’origine della moderna disciplina dell’MMA. Nelle cui gremite istituzioni, veniva insegnata l’importanza del mantenimento di una dieta sana, di cui una delle colonne portanti era proprio il frutto dell’Euterpe oleracea, ben presto contestualizzata in un crescente numero di coltivazioni intensive, non sempre etiche nei confronti dell’ambiente e rispettose dei confini della foresta. Un altro inaspettato problema, per così dire, dell’attuale condizione della Terra e tutti coloro che devono condividerne le limitate risorse…

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L’imprescindibile collegamento professionale tra i piloti di elicottero e le ciliegie

“È tutto andato secondo il mio piano” medito tra me e me, continuando a interpretare la parte del perfetto anfitrione “Un pranzo degno di essere chiamato… Da manuale.” Indossando un rapido sorriso di circostanza, afferro quindi con la mano destra un piccolo frutto vermiglio. Lo porto all’ingresso della bocca. E lo mangio. Una profonda sensazione di dolcezza assale quindi le mie percezioni, mentre risalgo con la mente la precisa e articolata filiera che ha contribuito a trasportarci tutti quanti in questa sede conviviale, all’apice di un giorno uguale a tutti gli altri. Soltanto… In apparenza? Semi, semi che attecchiscono nel suolo fertile di una pianura vasta ed accogliente. Teneri virgulti che all’unisono si ergono, dividono, fioriscono ed infine danno vari i tipi di quel frutto che i latini definivano cerasus, oggi radunato sotto il termine ad ombrello di ciliegia. Seguìti dal possente rombo dei motori aeronautici, intenti a segmentare l’aria con il massiccio potere di almeno due spade sovradimensionate da samurai. Ma soprattutto convogliarla nella sua relativa secchezza, con notevole insistenza ed energia, all’indirizzo di quel luogo da cui normalmente tende ad elevarsi, il suolo terrigeno ed ingombro di vegetazione, sia selvatica che ordinatamente posta in essere dall’operoso consorzio agricolo degli operatori umani. Che ha specifiche e decise aspettative gastronomiche, in materia di ciò che può essere chiamato di valore, o in altri termini venir venduto a prezzo rilevante nei mercati globalisti delle circostanze presenti. Per cui ad esempio quella naturale tendenza del fragile dono al termine del ramo, a spaccarsi dall’interno ogni qual volta entra in contatto con eccessiva umidità ambientale, non è giudicata ragionevolmente accettabile né in alcun modo produttiva, nel perseguire l’obiettivo principale di chi pianta pratici filari di alberelli verdi ed ordinati, con lo scopo di raccoglierne i preziosi frutti, sia in termini commestibili che finanziari. Ecce, dunque, il ruolo dell’Oggetto Volante Facilmente Identificato, ovvero l’aerodina largamente utilizzabile soltanto grazie alle logiche dell’economia di (larga) scala a partire da un’epoca individuata convenzionalmente attorno alla metà degli anni ’90. Laddove qui da noi in Italia, o in altri luoghi coltivati a ciliegi come la Turchia o la Grecia, ci si accontenta infatti di coprire i frutteti con immensi teli impermeabili o trattare i frutti stessi con appositi prodotti idrofobici, sussiste negli Stati Uniti, in Canada ed Australia un particolare approccio alternativo. Che potremmo facilmente immaginare accompagnato dall’epico susseguirsi armonico della Cavalcata delle Valchirie. Wagneriana e quasi bellica esultanza, nell’eterno perpetuarsi del conflitto senza limiti tra uomo e natura. Condotto al suono assai riconoscibile e assordante del secondo apparecchio volante più diffuso nell’odierno contesto commerciale dei cieli…

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