Il vetusto ritrovamento di tre capanne costruite con le ossa dei mammut d’Ucraina

Le lunghe picche dalle punte scintillanti e zigrinate, rigorosamente mantenute perpendicolari al suolo, si assiepavano in prossimità del dolce declivio, dalla cima del quale il miglior gruppo di cercatori del clan dei Lupi si assiepava in concentrata e silente attesa. All’altro lato della valle, in prossimità di un fiume che molti millenni dopo sarebbe stato chiamato Rosava, un’incombente forma si muoveva in controluce, come la montagna di un racconto mitologico degli sciamani del Culto Antico. Gloria? Senza dubbio. Abiti e cibo per l’inverno. Ma quest’oggi, il capocaccia col suo elmo in legno dalla forma triangolare era disceso in campo con un piano estremamente deciso: poter disporre finalmente, come i loro nemici ancestrali del clan del Gufo, di un edificio di rappresentanza degno di questo nome, un rifugio entro cui poter custodire le reliquie dei loro antenati, ma anche mantenersi al sicuro dalle gelide temperature di questa Era. Trascorsi 10, 15 minuti il Mol-grum-bath con la proboscide e la sua folta pelliccia marrone era ormai sufficientemente vicino da mostrare il bianco dei suoi occhi. Con un cenno della mano, egli fece quindi avanzare i ventiquattro lanciatori armati di giavellotti ed atlatl, il propulsore utilizzato per massimizzarne l’energia cinetica al momento cruciale dell’impatto. Sarebbero stati loro, nei primi determinati secondi del combattimento, ad attirare l’attenzione del pachiderma giustamente infuriato. Con una solenne preghiera rivolta nel suo cuore al Dio dell’astro diurno e la sua candida Consorte, affinché potesse accogliere le multiple anime della sacra bestia che dona la vita, il capocaccia dalla barba ghiacciata cominciò quindi a discendere diagonalmente verso il territorio dei giganti, ben presto seguìto dalle tre dozzine di assaltatori vestiti di leggere corazze in legno. In breve tempo, la dura selce delle loro armi avrebbe cozzato contro le ossa del suo bersaglio. Ed assieme alla determinazione a sopravvivere dei suoi esperti utilizzatori, sarebbe stata messa nuovamente alla prova nel corso dell’ultima grande glaciazione terrestre.
Uno dei singoli ritrovamenti archeologici più importanti dell’intero secolo scorso si sarebbe palesato nel 1965, quando il contadino di un paese da circa 1.000 abitanti non troppo distante da Kiev sentì l’ispirazione d’allargare la sua cantina, mettendosi solertemente a scavare. Una di quelle fortune degne di essere scritte nei libri di storia ed archeologia, visto come di lì a poco avrebbe trovato non soltanto una singola mandibola di mammut, bensì dozzine di queste, incastrate una con l’altra a formare quella che doveva essere una qualche sorta di struttura artificiale. Ovvero in altri termini, l’ulteriore, ma più antico e completo esempio di un tipo d’abitazione neolitica dalla forma circolare precedentemente attestata in altri luoghi europei, edificata interamente con il più accessibile materiale per determinati gruppi sociali di quell’epoca distante: la parte solida e pressoché indistruttibile delle imponenti prede animali che sappiamo aver costituito una fondamentale risorsa per la sopravvivenza, l’imponente Mammuthus africanavus che attraversando solidi ponti di terra ormai scomparsi, migrò in lungo e in largo attestandosi nella maggior parte dei continenti. Per poi sparire progressivamente, non soltanto in forza di pressioni ambientali e climatiche, bensì l’incapacità di moltiplicarsi abbastanza velocemente da contrastare l’impietoso eccidio perpetrato ai suoi danni da bipedi e socievoli abitatori degli stessi ambienti. Così come messo in pratica, in base alle nozioni facilmente desumibili, dagli ancestrali abitanti di questa località di Mezhyrich nel raion Cherkasy, il cui villaggio riscoperto e risalente in base alla datazione scientifica a 13-15 mila anni fa avrebbe restituito i resti, sotto diverse guise e contesti d’impiego, di una quantità stimata di 149 antenati degli odierni elefanti. Le cui ossa furono impiegate al tempo per la costruzione di strumenti, oggetti rituali dal possibile significato religioso ed alquanto incredibilmente, come materiale sostitutivo per l’ancora fantascientifico cemento di pozzolana…

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120 anni dopo, come sopravvivono le capanne costruite per il terremoto di San Francisco

Nell’autunno del 1906, come conseguenza del quinto peggior disastro naturale ad aver mai colpito gli Stati Uniti (e di gran lunga il peggiore a non avere un’origine meteorologica) la brava gente ancora gravemente scossa della Città Dorata si ritrovò ad affrontare un dilemma di rara e significativa entità. Come assicurare la sicurezza di molte migliaia dei suoi abitanti, ancora costretti a vivere all’interno di tendopoli create per rispondere alla grave crisi degli alloggi, conseguente dalla distruzione di una percentuale stimata dell’80% dei suoi edifici? Di certo, lo spirito del mutuo soccorso aveva aiutato fino a quel momento e il clima della California era stato d’aiuto, ma il progressivo abbassarsi della temperatura non stava facendo altro che accelerare l’inevitabile: c’era bisogno di un approccio abitativo migliore e sarebbe stato meglio, se possibile, muoversi in tal senso prima dell’aumento esponenziale dei disagi e potenziali problematiche per il benessere comunitario. Dal che l’iniziativa, in prima battuta teorizzata dal membro della commissione finanziaria della Croce Rossa, il Dr. Edward T. Devine, di stanziare tra i 3 e i 4 milioni dollari di aiuti pubblici al fine di costruire un nuovo tipo di ricoveri semi-permanenti, da affittare e vendere ad un prezzo calmierato utile a garantirne la distribuzione il più possibile democratica tra coloro che ne avevano maggior bisogno. Un approccio così distante dallo stereotipo del capitalismo permanentemente alla ricerca di possibili occasioni di guadagno, che tuttavia piacque a tal punto al sindaco Eugene Schmitz ed il suo comitato speciale, costituito da 50 rappresentanti e suoi concittadini, che in breve tempo vennero coinvolte personalità dalla qualifica rilevante, affinché l’idea potesse trasformarsi in una concreta verità. Dovete considerare a tal proposito come l’epoca vigente fosse ancora ben lontana dal potersi affidare a soluzioni prefabbricate o catene di montaggio parzialmente automatizzate, rendendo perciò opportuno l’immediato impiego di ampie maestranze finemente addestrate al fine di garantire rapidità, standardizzazione, qualità del prodotto finale. Le due persone chiave del progetto furono per questo fin da subito il maggiore generale Adolphus W. Greely per la parte tecnica, e dal punto di vista dell’ergonomia e design, niente meno che John McLaren, l’esperto ed eccentrico orticoltore di origini scozzesi, già da una quindicina d’anni a capo dell’Ente Parchi cittadino nonché assoluto supervisore del Golden Gate Park. Uno dei luoghi designati, in maniera imprescindibile, come punto d’assemblaggio e schieramento delle nuove abitazioni, assieme agli attuali spazi verdi di Dolores, Precita, Camp Richmond, Columbus Square e il Presidio. Luoghi dove venne infine concordata la messa in opera di un gran totale di 5.610 case, che sarebbero giunte ad ospitare all’apice del loro impiego all’incirca 17.000 persone. Nello spazio oggettivamente ridotto di 4,2 x 5,4 metri per ciascuna famiglia, tuttavia efficientemente protetto dagli elementi e costruito in base ai migliori crismi possibili con la tecnologia dell’epoca. Tanto che in molti avrebbero successivamente dichiarato di aver visto migliorare esponenzialmente la qualità delle proprie condizioni abitative a seguito del terremoto, sebbene nessuno di loro avrebbe mai potuto immaginare l’aumento drastico di valore a cui sarebbero state destinate le proprie anguste capanne, capaci al giorno d’oggi di sfiorare, e qualche volta addirittura superare, il milione di dollari cadauna…

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Il principale intralcio filosofico al successo di un super-palazzo elicoidale a Taiwan

L’impressione di un grande centro urbano dell’Asia Orientale, in base allo stereotipo acquisito, lascia intendere un’impressionante densità demografica, spazi angusti ed alti alveari abitativi, non dissimili dal concetto ingegneristico di un’essenziale arcologia de facto: edifici vasti simili ad ambienti naturali separati, per il clima interno, l’economia vivente, le regole d’interazione tra i diversi fattori pendenti. Il che può avere basi nella verità dei fatti, per luoghi futuribili come la capitale Taipei, di una delle isole più facoltose, economicamente influenti dell’intera zona rilevante, l’isola nota ai primi esploratori come Formosa e al giorno d’oggi particolarmente problematica nel sistema di relazioni internazionali geograficamente contigue. Ma Taiwan, alimentata dal profitto dei commerci con l’Occidente e l’innegabile primo piano nel campo dell’industria tecnologica globalizzata, è anche è soprattutto patria di una quantità di miliardari superiore alla media, direttori, proprietari e capi di altrettante aziende con bilanci annuali simili a quelli di una nazione indipendente di media entità. Persone caratterizzate da un certo livello di stile di vita, benché fondamentalmente dedite al lavoro sopra ogni altra cosa, almeno finché non raggiungono l’età di un tardivo e ingresso nell’epoca del pre-pensionamento. Da qui l’idea, finanziata dalle compagnie di sviluppo immobiliare multinazionali Viking Group e DTM, di costruire nel quartiere Xinyi, a poca distanza dal centro cittadino e l’iconico grattacielo a cassettoni sovrapposti del Taipei 101, un nuovo tipo di residenza di lusso, egualmente caratterizzata da praticità, convenienza e stile. Il che tende a sottintendere come principio, nell’epoca corrente, un certo grado di attenzione alla natura e sostenibilità, valori per la prima volta mantenuti in alta considerazione nello schema generale della società multilivello. E forse anche per questo, niente meno che centrali nella produzione pregressa dell’architetto belga Vincent Callebaut, già promotore di concetti come il Dragonfly, orto verticale da costruire sull’isola di Manhanttan, ed il Lilypad, una piattaforma galleggiante per ospitare i profughi fuggiti dai paesi che verranno progressivamente sommersi a causa del mutamento climatico terrestre, ponendosi tra i principali proponenti di una nuova branca dell’architettura, definibile come biomimetica o ispirata alla vita stessa. Concetti accompagnati da un accurato e razionale studio di fattibilità, che trova una dimostrazione quanto meno parziale nell’effettivo aspetto completo dell’Agora Garden, alias Giardino di Tao Zhu Yin, con riferimento al nome postumo della celebre figura di politico, stratega ed economista Fan Li, vissuto in Cina nel sesto secolo a.C. all’apice del periodo di conflitti noto come primavere ed autunni. Considerato dagli storici come uno dei primi a dimostrare pubblicamente la percorribilità dell’altruismo, reinvestendo una parte delle sue risorse finanziarie nel miglioramento delle condizioni lavorative del popolo e i suoi sottoposti. E chissà che cosa avrebbe potuto pensare costui, di fronte all’aspetto strabiliante dello svettante condominio ultimato nel 2019, caratterizzato dal suo nome ed una forma che la critica internazionale ha definito a più riprese “chirale”, essendo in grado di riprendere, all’inverso, l’aspetto della molecola di acido desossiribonucleico, più comunemente definita con l’acronimo D.N.A…

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Jiaohe, l’antica città fortezza costruita sulla foglia della Via della Seta

Una nazione unita ed omogenea, per cultura, sistemi di governo, religione e metodi di mantenimento dell’ordine civile: questo è la Cina, agli occhi dell’opinione pubblica contemporanea, sulla base di una generalizzazione ereditata dalle superficiali trattazioni socio-politiche del tardo Novecento. Il che non fu mai realmente corretto, come può esserlo per certi versi quando si tratta l’arcipelago nipponico ad Oriente, sebbene sia del tutto ragionevole individuare nei preconcetti dell’uomo della strada un qualche tipo di collegamento tra le due culture, che trasversalmente non ha luogo in alcun modo ad essere, fatta eccezione per determinati tratti legati all’interscambio d’idee filosofiche e beni d’uso e consumo comunitario. Soprattutto visto come, fatta eccezione per l’ancestrale battaglia contro gli Ainu del remoto settentrione, i Giapponesi non ebbero frequentemente a che vedere con la pletora di popoli ed imperi contrapposti, ciascuno armato ed animato dalle proprie reciproche ambizioni di conquista. Entità come quella la cui storia dinastica, dinamiche di potere e sistemi d’organizzazione sono andati perduti nel tempo, dei parlanti delle lingue Tochariane, una periferica derivazione del ceppo identitario Indo-Europeo, che attorno al termine del primo millennio a.C. avevano costituito un vero e proprio impero nella depressione di Turpan, corrispondente all’odierna “regione autonoma” uigura dello Xinjiang. Essenzialmente formato da una pletora di piccole città e villaggi, ciascuno situato in corrispondenza di un’oasi mantenuta sulle sabbie grazie ad un’effimera pozza d’acqua potabile, eppure tutti detentori di una spropositata ricchezza materiale, grazie alla loro collocazione lungo l’estendersi di una delle più importanti vie commerciali del Mondo Antico, destinata a diventare nota in seguito col nome di Via della Seta. Non c’è perciò nulla di stupefacente nel notare come questo particolare popolo non meno eterogeneo, riunito sotto la bandiera nazionale del regno di Jushi, avesse potuto costruire una propria vasta capitale, posizionata in mezzo all’opulenza e lusso sfolgorante di due corsi d’acqua ai margini della catena montuosa del Tian Shan. Ciò che colpisce, piuttosto, è la specifica ubicazione e l’aspetto di questa metropoli ormai lungamente disabitata, edificata sopra l’armoniosa forma di una mesa sopraelevata all’altezza di circa 30 metri, lunga 1760 e larga 300, circondata dal fossato naturale più invalicabile contro il quale un esercito nemico abbia dovuto pianificare un tentativo d’assedio. Un centro urbano, in altri termini, condizionato profondamente nella sua dislocazione ed organizzazione da uno spazio chiaramente definito e impervio a qualsivoglia tentativo d’espansione, in modo tale da incentivare un tipo di pianificazione urbanistica decisamente anacronistica per l’epoca, in cui ogni quartiere aveva una funzione attentamente definita, senza tuttavia poter ricorrere alla simmetria tipicamente utilizzata in questa tipologia d’insediamenti. Il tutto tramite l’applicazione di uno stile architettonico particolarmente distintivo, originariamente fondato sullo scavo in profondità nella terra friabile della formazione composta di loess, per poi passare all’utilizzo dell’adobo o mattone di terra, sapientemente compattato al fine d’erigere grandi templi, maestosi stupa e veri e propri condomini adibiti a spazi abitativi per le diverse classi sociali (militare, nobile, religiosa e civile). Verso l’ottenimento di un complesso dedalo di strade interconnesse, le cui fonti d’ombra avrebbero potuto superare relativamente indenni le generazioni d’incuria a venire, grazie alle caratteristiche climatiche di una regione dove cadono comunemente pochi centimetri di pioggia l’anno. Con buona pace degli amanti di fontane e giardini…

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