Lo stravagante verso dei turaco, variopinti uccelli della foresta africana

Un valore che non figura particolarmente spesso nel novero dei comportamenti istintivi messi in atto da una creatura del mondo animale: l’altruismo. All’interno di una serie di circostanze, ed un ambiente di riferimento, in cui soltanto il più forte, scaltro ed attento può riuscire a sopravvivere contro le mosse reiterate di un Universo fondamentalmente ostile. Eppure nel tipo di relazioni mutualistiche capaci di determinare i rapporti inter-specie, esistono dei casi in cui un animale agisce in base a linee guida utili pere gli altri, senza trarne in cambio dei vantaggi particolarmente evidenti. È questo l’esempio offerto dal cosiddetto “uccello-scappa-via” o più semplicemente, da un’espressione onomatopeica, turaco. La cui analisi etologica non può prescindere dal lancio preventivo di un richiamo, tremulo e non sempre facilmente riconoscibile sulla distanza, per la marcata somiglianza alle grida di un gruppo di scimmie. Suono capace di mettere in evidenza l’incombente avvicinarsi di un predatore, permettendo in questo modo a chi lo sente di restare all’erta, e potenzialmente, fuggire via per tempo all’interno della propria tana. Un gesto utile per tutti (salvo il carnivoro affamato) ma che non parrebbe sufficientemente giustificata dal comportamento collettivo di uno di questi gruppi di fino a 30 sgargianti musofagidi, precedentemente ritenuti imparentati con i cuculi o persino l’hoatzin (Opisthocomus h.) bizzarro pennuto maleodorante dell’America meridionale. Il che pone interrogativi niente affatto trascurabili, quando si considera la natura endemica di questi arguti volatori del continente africano, rappresentando nei fatti uno dei pochi esempi di uccelli originari di quel particolare recesso geografico. Come avrebbe fatto, dunque, un uccello non-migratore e dotato di ali relativamente piccole, ad attraversare l’Atlantico in un’epoca successiva alla scomparsa di alcun ponte di terra percorribile, come dimostrato da un fossile piumato scoperto nel 1982 in Wyoming? Difficile immaginare punti di partenza maggiormente misteriosi, per analizzare questo amichevole genere di creature, tra le poche in grado di rivaleggiare nei colori alla ben nota ed apprezzata genìa dei pappagalli.
Prendiamo, per esempio, il turaco dalla cresta rossa (T. erythrolophus) dell’Angola, considerato l’uccello nazionale di quel paese. Un volatile di 45-50 cm, paragonabile ad una versione più smilza ed agile di un piccione, caratterizzato a differenza di quest’ultimo dalla più sgargiante e memorabile delle livree: una testa bianca incoronata da piume vermiglie, cui fa seguito il corpo verde lucido come quello di un coleottero, che sfuma gradualmente verso la blu di un color blu intenso. Qualcosa che richiama non soltanto, per la strana legge delle coincidenze, i colori della bandiera italiana, ma anche l’ideale immagine che potremmo custodire nella nostra mente per un uccello fiabesco o leggendario, convenientemente trasferito in un formato facile da maneggiare, ed accudire qualora se ne presenti l’opportunità. E non a caso, i turaco risultano tra gli uccelli più comuni all’interno degli zoo di tutto il mondo, intrigando i visitatori con le loro tonalità cangianti e tanto distintive, tra le caratteristiche capaci di motivarne l’inserimento in uno dei due soli ordini di volatili creati dall’evoluzione entro i vasti confini d’Africa, assieme ai Coliidae o uccelli topo. Dal che deriva la primaria conclusione raggiunta mediante l’analisi chimica del loro organismo, che dimostra caratteristiche capaci di concretizzarsi esclusivamente in quel particolare luogo di tutta la Terra…

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La vecchia teoria dell’albero che aveva bisogno del dodo per proseguire la propria specie

Era il 1973 quando l’ornitologo dell’Università del Wisconsin, Stanley Temple notò un gruppo d’alberi molto particolari durante un’escursione nell’entroterra delle isole Mauritius. Alti e contorti, dal tronco fibroso formato da una serie di steli attaccati l’uno all’altro in maniera non dissimile dal banano, quasi come fosse un’amalgama di piante differenti. Confrontando un tale vista memorabile coi resoconti degli abitanti locali e la documentazione di cui poteva disporre, quindi, non ci mise molto ad attribuire un nome alle 13, stranissime piante: doveva trattarsi di un raro gruppo di tambalocoque o albero calvaria (Sideroxylon grandiflorum) un rappresentante della famiglia delle sapotacee tenuto un tempo in alta considerazione per la durezza del suo legno. Nonché legato a uno stereotipo secondo il quale, essendo diventato progressivamente più raro attraverso i secoli, il suo ciclo vitale traesse fondamentale beneficio dall’assistenza di un particolare uccello, noto alle cronache come il dodo o dronte. Figura particolarmente nota nel senso comune, col suo poderoso becco e le piccolissime ali, il cui primario ruolo ecologico avrebbe potuto fare ben poco per salvarlo dai marinai dell’epoca delle grandi esplorazioni, che ben presto diventarono soliti ucciderlo per farne un banchetto degno del giorno del Ringraziamento, oppure catturarlo e mantenerlo in vita sulle navi per qualche tempo, per diversificare occasionalmente la ripetitiva dieta dell’equipaggio. Effettuando una stima soltanto approssimativa sulla durata della vita di tali alberi, data l’assenza di cerchi da contare all’interno del loro fusto plurimo, Temple si convinse quindi che dovessero avere un’età superiore ai 300 anni, antecedente all’inevitabile estinzione del grande e compianto uccello. Dal che fu soltanto naturale, per lui, ipotizzare un qualche tipo di relazione mutualistica tra la specie animale e quella vegetale, come dal soprannome indigeno della pianta utilizzato localmente di “albero del dodo” dal cui derivava la problematica situazione che si capace di dipanarsi nel proseguire dei tempi odierni. Poiché girando pedissequamente l’intero arcipelago, l’ornitologo non avrebbe purtroppo trovato altri esempi di alberi del tambalocoque, giungendo a convincersi che il gruppo precedentemente oggetto delle sue annotazioni fosse l’unico rimasto su questa Terra. E che non avrebbe mai più potuto continuare ad esistere, senza l’assistenza del suo non-volatile e compianto alleato!
Egli aveva infatti una teoria ben precisa su quale potesse essere, nella realtà dei fatti, la principale origine del contrattempo: possibile che la durissima scorza del frutto di questa pianta, fino a 10 volte più resistente del guscio di un anacardio, fosse in effetti la ragione del suo basso grado di successo riproduttivo? Dal che deriverebbe come fondamentale condizione sine-qua-non, nella propagazione riuscita dell’albero, un passaggio all’interno del sistema digerente di un grande uccello ed in particolare il ventriglio, la parte pilorica dello stomaco in cui tali esseri sono soliti tenere una certa quantità di sassolini, utili a massimizzare la triturazione dei bocconi preventivamente ingeriti, non importa quale potesse essere la loro coriacea resistenza. E nel corso di un tale processo, scorticare tra le altre cose quelle impenetrabili noci, creando una situazione paragonabile a quella del cosiddetto frutto dell’elefante africano (Omphalocarpum elatum) che diventa maggiormente propenso a germogliare se fa il suo ritorno alla terra assieme alle feci dell’eponimo animale. Un appartenente anch’esso, non a caso, della stessa famiglia delle sapotacee, gruppo di alberi particolarmente inclini a trarre beneficio da una tale tipologia di mutualismo. Dopo un primo attimo di smarrimento, dunque, il convinto seguace del metodo scientifico pensò di fare un esperimento…

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Sostenendo lo sguardo ipnotico dell’airone dal becco a cucchiaio

“Benvenuti al Copal Resort, fate come foste a casa vostra. Non c’è sovrapprezzo per le bevande all’interno delle vostre capanne e la cena sarà servita alle ore 19:30. Ma per quanto possa essere forte la tentazione, vi chiedo di ascoltarmi: non andate nella giungla di notte. Ci sono… Cose, là fuori.” Una risatina nervosa percorse il pubblico, sebbene nessuno sembrasse eccessivamente colpito. Simili cose venivano dette, il più delle volte, al fine d’incrementare il senso d’avventura. Il mero concetto di serata gradevole non arrivava neppure a descrivere le circostanze. Lasciati all’altro capo dell’oceano i molti problemi del lavoro e della sua famiglia, Ethan scrutò il verso il rossastro tramonto sopra i picchi dell’entroterra colombiano. Per tutta la sera aveva conversato amabilmente con gli altri ospiti di animali, natura e le molte meraviglie incontrate nel corso del loro itinerario non meno avventuroso. Ora, seduto sul soffice divano, sorseggiando whisky di segale, immaginava una mattina di esplorazione e birdwatching mentre tirava fuori la reflex dal suo borsone, prima dell’affollato inizio delle visite programmate. E fu allora che sentì quel suono per la prima volta. Come il clacson di una piccola automobile, suonato in maniera stranamente ritmica ed insistente. “Dev’essere qualcuno che vuol fare uno scherzo!” Pensò quietamente tra se e se, spostandosi lentamente verso la finestra. “An, an, an, an…” udì nuovamente, seguìto da “Ha, go, go, go, go…” Le stelle splendevano alte nel cielo, lontano da qualsivoglia fonte d’inquinamento luminoso urbano. Socchiusa la porta, quindi, vide qualcosa di totalmente fuori dal contesto: occhi brillanti che scrutavano nel profondo della sua anima, perfettamente immobili in mezzo ai cespugli, posti all’altezza approssimativa di un bambino di 5 o 6 anni. “Un…Saci?” Sussurrò tra se e se, pensando al folletto dispettoso del folklore sudamericano. Poi cedendo alla tentazione, prese la torcia elettrica e iniziò ad avviarsi in quella direzione, immaginando la leggendaria creatura che saltellava sussultando sull’unico piede posseduto. Lentamente iniziò a perdere la cognizione del tempo e dello spazio, mentre distanti sussurri costituivano soltanto l’eco distante del richiamo originariamente udito. Ora il terreno si faceva cedevole, mentre gli alberi diventavano sempre più contorti al punto di attorcigliarsi su loro stessi. Alte diramazioni si presentavano come il parapetto di un unico percorso programmato, o anche soltanto possibile nel sottobosco: “Radici di mangrovie… Avevo capito che eravamo vicino alla palude, ma non COSÌ vicini.” Ethan puntò il fascio di luce verso l’alto. Improvvisamente in mezzo ai rami, il discorso dell’oscura controparte riprese come se non fosse mai stato interrotto: “An, an, AN” fece la creatura, sottolineando l’ultima sillaba con il battito roboante di un qualche tipo di strumento a percussione. Oppure, possibile che si tratti di un…? Come in un capitolo di Alice nel Paese delle Meraviglie, una mezza dozzina d’ombrelli caddero allora dalla sommità degli alberi di Rhizophora, come all’esecuzione di uno specifico segnale. Le creature adesso erano tutto attorno a lui, con altrettante paia di occhi che riflettevano chiaramente il fascio proveniente dalla torcia. I loro volti un oceano di tenebre, soltanto gradualmente identificato con l’aspetto di un grosso becco nero. Il capo della congrega fece due passi avanti d’impeto, sulle zampe di color grigio azzurrino, mentre la più fantastica cresta si ergeva sulla testa all’altezza approssimativa della vita di un uomo adulto. Come un baratro cupo, la sua gola spalancata comparve al centro del campo visivo dell’osservatore, che udì con surreale chiarezza: “Non andate nella giungla di notte, non andate nella giungla di notte!”
Perché per restare in un campo d’analogia cartoonesco, stranamente adatto alla descrizione pratica di questi animali, la più simile creatura immaginifica all’aspetto dell’airone dal becco a cucchiaio, anche detto in modo onomatopeico l’arapapá, o più scientificamente Cochlearius cochlearius, è l’uccello Aracuan della cinematografia Disney degli anni ’40, un dispettoso clown concepito al fine di simboleggiare forse l’aspetto distintivo ed insolito di tanti volatili sudamericani. Ma non c’è molto da temere, per gli umani, in merito a questa versione tangibile. A meno di essere un piccolo pesce, o gamberetto…

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Come il volo dei dinosauri sopravvive, nell’antica strategia di fuga del chukar

Superbe, gigantesche, ponderose creature, alte almeno quanto un pachiderma e non più agili di lui; questo continua ad essere, con l’aiuto d’innumerevoli illustrazioni e narrazioni popolari, l’interpretazione universalmente data per buona di quelle robuste presenze che un tempo dominavano la Terra. Il che potrà anche essere formalmente corretto, in una lunga serie di casi lungamente vissuti e svaniti attraverso un periodo di quasi 200 milioni di anni, ma non arriva neanche lontanamente a incorporare l’intera vasta portata della questione. Dove per ogni membro ed esponente della cosiddetta megafauna, ciascun incubo di denti, grossi muscoli e una coda irta d’aculei devastanti, uno svelto e scaltro corridore, dai sensi acuti ed affilati dal bisogno, percorreva le distese in cerca di un rifugio valido a poter sopravvivere un altro giorno. Tutti quegli erbivori e non solo, la cui dimensione oltre che l’aspetto poteva essere ricondotto vagamente agli odierni uccelli con la loro andatura dondolante, come gli oviraptosauridi e terizinosauri. Tacchini da guerra se vogliamo, ma del tutto privi di un aspetto che dovremmo definire assolutamente primario nella descrizione di quel pennuto: la presenza di un pur sempre pratico, sebbene poco utilizzabile paio d’ali. Così attraverso il trascorrere degli eoni, i loro discendenti come il deinoico, l’achillobator e ovviamente, il velociraptor, avrebbero iniziato a guadagnare un qualcosa di essenzialmente riconducibile ad un folto manto di piume. Ma nessuno aveva mai capito, essenzialmente, in quale maniera avessero imparato il segreto del volo, ovvero quale tipo di pressione evolutiva potesse indurre a sollevarsi da terra, dimenticando ogni potere residuo posseduto dal principio universale della gravità. Almeno finché al biologo Kenneth P. Dial dell’università del Montana non venne in mente d’osservare più da vicino, ed in maniera estremamente approfondita, l’essere più simile che ancora abbiamo a dimostrare chiara discendenza da una simile ed antica genìa: la graziosa e amata coturnice orientale, ovvero quella che viene chiamata su scala internazionale con il nome scientificamente onomatopeico di Alectoris chukar. Stiamo qui parlando di un fasianide originario della zona Paleartica con vasta diffusione in India e Pakistan, Iran, Turchia e parte dell’Est Europa, ma favorito dai cacciatori di mezzo mondo, per la sua facilità ad adattarsi ai climi non nativi ed un’innata fiducia nei confronti degli umani. Completamente all’opposto rispetto al comportamento schivo e riservato della nostrana Alectoris graeca, del resto esteriormente distinguibile soltanto per la presenza di un ulteriore piccolo trattino nero a concludere la linea che circonda gli occhi, il becco e il collo di entrambi. Eppure dotato fin dal momento della nascita, cionondimeno, di un potente meccanismo di sopravvivenza che potremmo ricondurre alla più chiara ed assoluta origine del volo. Identificato da un acronimo moderno che pare quasi derivare dal regno tecnologico dell’aeronautica umana: sto parlando del WAIR, o Wing-assisted incline running, locuzione che potremmo tradurre come “Corsa in salita con l’assistenza delle ali”. Questo erbivoro e spazzino opportunista di semi, frutta caduta ed altre fonti di cibo esclusivamente vegetali (sebbene non disdegni di andare in cerca di spazzatura negli ambienti urbani) appartiene in fatti a quel particolare gruppo di volatili che, pur essendo capaci di spiccare il volo mediante l’uso delle proprie corte e tondeggianti ali, preferisce mettersi in salvo da potenziali situazioni di pericolo semplicemente sfruttando le sue zampe rosse e potenti, correndo via veloce del sottobosco. E se possibile, lungo la superficie quasi verticale dei tronchi. Capite di cosa sto parlando? Qui siamo di fronte a una creatura il cui estinto, soprattutto quando recentemente fuoriuscita dall’uovo e il nido dei suoi genitori, generalmente costruito come un buco nel terreno nascosto tra felci o cespugli, possiede un istinto innato ad arrampicarsi, nonostante l’assenza di appositi artigli, arti prensili o altri ausili concessi dall’evoluzione. Ma un qualcosa, se vogliamo, di ancor più efficiente a tale scopo: la capacità di far muovere lo strumento aerodinamico delle sue ali. Prima ancora di annullare completamente la spinta verso il basso posseduta da qualsiasi entità materiale, ma riducendola abbastanza da poter correre in maniera quasi verticale. Un po’ come fatto da Neo di Matrix, in uno dei film più rappresentativi del passaggio di secolo tra gli anni ’90 e il 2000…

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