L’impressionante linea bianca, precario cimento dei ciclisti dell’Arizona

Pedalando verso ulteriori destinazioni, il gesto ripetuto che prolunga il momento e definisce il senso finale dell’escursione; manubrio mantenuto perpendicolare al suolo, strada che scorre ai lati del campo visivo. Ed è allora che l’attrito al contatto del suolo, all’improvviso, diminuisce in maniera esponenziale. Cosa è successo? Entrambe le ruote si trovano perfettamente in linea, un po’ come se si trattasse di un binario, con la candida linea al centro del sottile nastro asfaltato. Vernice acrilica bianca, continua o tratteggiata, segnaletica orizzontale trasformata in canale privilegiato verso l’ottenimento di un sentiero dall’efficienza superiore. Ed è questo un po’ lo stesso concetto, dell’insolito strato geologico situato in prossimità della cittadina turistica di Sedona, contea di Coconino. Seguito dai suoi maggiori estimatori fino alle più estreme conseguenze. Che potrà un giorno anche includere, a seconda delle circostanze ipotetiche, la morte.
Siamo a Chicken Point (Il Punto del Pollo) una collina rocciosa di tipo butte, ragionevolmente simile a quelle che in Sardegna prendono il nome di “tacco”, non fosse per l’alta concentrazione mineralogica di ematite, il riconoscibile ossido polverizzato capace di tingere l’intera zona di un color rosso intenso simile alla ruggine del ferro. Fatta eccezione, s’intende, per l’eponima sezione del panorama indimenticabile, situata ad almeno 40 metri da terra e che partendo da una cornice relativamente accessibile gira tutto attorno al precipizio, in maniera analoga a quanto potrebbe fare un volontario segno di riconoscimento prodotto dalla mano umana. Effetto stratigrafico delle antiche maree in realtà, che un tempo caratterizzavano questi luoghi coperti da uno scomparso mare. E che oggi diventa pista d’atterraggio, o decollo che dir si voglia, per i sogni più sfrenati di un particolare tipo di amante della mountain bike. Persone come il coraggioso Michal Kollbek, che nel video di apertura ripreso via drone possiamo ammirare mentre spinge il suo veicolo velocipede fino al punto più distante prima che un simile passaggio si faccia eccessivamente scosceso. Quindi, mentre il pubblico maggiormente empatico trattiene spaventosamente il fiato, rivolge il manubrio direttamente verso le profondità del baratro, in una manovra delicata della durata di pochi istanti, che lo porta a discendere per circa 8 metri e come se niente fosse, voltarsi e tornare al punto di partenza. Nessun dubbio rimane in tali circostanze agli spettatori, che se soltanto avesse sbagliato leggermente i tempi, se un sassolino si fosse trovato in posizione inappropriata, se la pressione degli pneumatici avesse avuto un valore eccessivamente basso, se i freni non fossero stati in condizione ottimale… Questi avrebbero potuto essere gli ultimi secondi della sua esistenza. Ed è ciò il motivo per cui l’esatta posizione di Chicken Point, Google Earth permettendo, resta un segreto preferibilmente ben custodito dagli abitanti del posto. Anche se bastano poche decine di dollari per partecipare al tour geologico a bordo di riconoscibili Jeep color rosa fuchsia, occasionalmente ed accidentalmente completo di spettacolo adrenalinico gentilmente offerto dal ciclista privo di senso del pericolo o dubbi in merito alla sua preparazione tecnica pre-esistente.
Perché intendiamoci, l’effettiva manovra richiesta per fare ritorno integri dalla linea bianca non è in se particolarmente difficile, almeno dal punto di vista di praticanti ragionevolmente esperti. Con l’effettivo elemento limitante individuabile, più che altro, nella posta in gioco sottintesa da un eventuale errore. Frutto innegabile di una circostanza paesaggistica che, nel frattempo, meriterebbe almeno un breve approfondimento…

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Lo strano fenomeno che sta lentamente ingrandendo l’oceano Atlantico

Nel 1960, il professore di geologia americano Harry Hammond Hess avanzò una proposta rivoluzionaria. Grazie all’impiego di un sistema tecnologico che aveva imparato a conoscere durante la seconda guerra mondiale, come capitano del trasporto truppe USS Cape Johnson, era riuscito a far propagare una serie di onde sonore fino al fondale del Pacifico tre le Filippine, le isole Marianne ed Iwo Jima. Così sfruttando la potenza del sonar, egli aveva scoperto l’esistenza di una serie di catene montuose in punti arbitrari dell’oceano, punteggiante di vulcani attivi dalla cima piatta, che decise di chiamare guyot. La presenza di una simile, continua emissione magmatica, aprì la sua mente a un’imprevedibile possibilità. Che non soltanto il fondale marino si stava spostando lateralmente accompagnando la deriva dei continenti elaborata dal suo collega Alfred Wegener, ma che in particolari punti (le cosiddette dorsali) esso tendeva naturalmente a separarsi. Mentre copiose quantità di flusso magmatico, spinte verso l’esterno dalla convezione termica del mantello terrestre, fuoriuscivano a colmare costantemente quel vuoto. Il che sollevava, inevitabilmente, una serie d’importanti interrogativi: se nuovo fondale tendeva ad aggiungersi riversandosi costantemente verso le vaste pianure sommerse, perché la Terra non stava diventando ogni anno più grande? E visto che le dorsali continuavano ininterrottamente il loro processo d’eruzione, dove andava a finire tutto il materiale in eccesso? Domande la cui unica riposta possibile sarebbe stata destinata a restare lungamente difficile da dimostrare, benché Hess ne avesse immediatamente intuito la possibilità. Sarebbe quindi stato il suo collega George Plafker, nel 1964, a mettere tale ipotesi in correlazione con il grande terremoto che si verificò il 27 marzo di quell’anno in Alaska, identificandolo come il probabile risultato di un fenomeno di subduzione: la tendenza di una placca tettonica ad infilarsi sotto i confini di un’altra, scendendo al di sotto e lasciando che le rocce che la compongono tornassero a circolare nel grande flusso convettivo all’interno dell’astenosfera sottostante. Il che determina, essenzialmente, il metodo attraverso cui l’intero fondo degli oceani finisce per assomigliare a un titanico nastro trasportare, in cui attraverso un intero ciclo di svariati milioni di anni, ciascun singolo granello di sabbia sarà totalmente diverso dai suoi antichi predecessori. Dal che consegue, essenzialmente, l’esistenza di due diversi tipi di dorsale oceanica, che potremmo definire “additiva” e “di sottrazione” a seconda dell’ordine operativo che determina i suoi processi d’interazione in senso perpendicolare alla superficie. L’entità dei fenomeni e le loro più profonde implicazioni, tuttavia, sono tutt’ora oggetto di lunghe disquisizioni all’interno del mondo accademico, con uno studio condotto nel 2013 da scienziati dell’Università di Lisbona pronto a giurare sulla presenza di una linea di assorbimento della crosta a largo del Portogallo, la cui più probabile funzione potrebbe essere quella di avvicinare un giorno le coste dei due continenti eurasiatico ed americano. Mentre il consenso attuale, sulla base di osservazioni effettuate a largo dell’Islanda e analizzato anche in una recente pubblicazione (Matthew R. Agius dall’università Roma Tre e colleghi presso quella di Southampton, UK) sulla rivista Nature del gennaio 2021, vede convenire gli interessati sulla teoria che il processo inverso sia continuamente in atto nel punto geograficamente denominato dorsale Medio-Atlantica, con una quantità di emissioni tale da aver generato progressivamente un accumulo di sedimenti capace di far sollevare il livello del fondale marino. Riuscendo a spiegare, finalmente, lo strano aspetto dei fondali oceanici ogni qualvolta venivano sottoposti all’osservazione mediante un ulteriore tipologia di strumenti…

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Il bosco contorto dove il diavolo teneva i suoi segugi

Lungo la Strada della Morte nell’antica contea del Devon l’agricoltore ubriaco camminava nella nebbia dopo la sua lunga serata di svago presso il pub di Princetown. Il suo nome? Oliver, Jacob, George? L’anno, il 1400, 1500, 1600… Attraversando un’aria tanto umida che solamente chi viveva presso l’altopiano di Dartmoor, penisola della Cornovaglia, poteva anche soltanto remotamente pensare di trovarsi a suo agio, come ogni sera e ogni mattina in quella brughiera dannata. A un tratto l’ululato distante tagliò l’aria come la testa di una zappa, giusto mentre una figura dai contorni scuri, appena visibile nella sua giacca di tweed e il cappello da cacciatore, sembrò stagliarsi contro un qualche tipo di luce inesistente. Un gelo improvviso s’impossessò delle sue membra, quando facendosi coraggio, pensò che fosse necessario apostrofare lo sconosciuto: “Buonasera a lei, signore! Ha fatto buona caccia, stasera?” Un ringhio soffuso s’impossessò dell’agognato silenzio, mentre movimenti appena udibili tra l’erba tradivano l’avvicinamento del branco: “Oh, oh, oh, ECCOME!” La voce orribilmente cavernosa, rispose: “Guarda qui, mio caro!” Fece lui, assumendo dei contorni lievemente più distinti, quasi come se una fiamma misteriose ardesse in mezzo alle querce contro cui si stagliava l’individuo inquietante. Quindi sollevò tra le sue mani un grosso sacco e senza troppe cerimonie, lo lanciò all’indirizzo del contadino. Oliver, Jacob o George, riuscito miracolosamente ad afferrarlo, venne preso come da una frenesia indistinta. Tremando e battendo i denti, iniziò a frugare tra le pieghe della stoffa, nel tentativo di trovare coi suoi occhi il contenuto del regalo maledetto. E fu così che con lo sguardo fisso, si ritrovò scrutato di rimando da una piccola testa morta e mozzata di un qualcuno, che primo acchito, gli sembrava stranamente familiare. Dopo qualche attimo di panico, comprese la tremenda verità: c’era null’altro che il suo neonato e unico FIGLIO, là dentro!
Casistiche impreviste dalle implicazioni mai narrate, sebbene tutti, in quel contesto, riuscissero a conoscerne la semplice ragione. Poiché non vi sono luoghi del potere, o convergenze delle ostili linee della Terra, maggiormente chiari che la contorta foresta di Wistman, ultimo residuo di un’epoca in cui il mondo era più selvaggio, crudele e incomprensibile di adesso. Prima che i greggi di pecore percorressero i prati; che i turisti con il cellulare alla mano scattassero fotografie ai pony; che i lampioni, a gas o d’altro tipo, illuminassero il sentiero dei viventi. Un luogo noto in senso etimologico alternativamente come Wiseman’s Wood, ovvero il bosco dell’uomo saggio, oppure Whisht Wood, la selva stregata, a sempiterna testimonianza della sua duplice funzione, in qualità di luogo di raduno dei druidi celti, che qui avrebbero avuto l’abitudine di compiere sacri rituali e in seguito confine abbandonato tra lo scibile ed il sogno della ragione, patria di mostri sempre pronti a ricordare all’uomo la sua posizione nello schema naturale dell’esistenza. Tanto che proprio tra queste fronde umide, le rocce muschiose e i tronchi ripiegati su loro stessi di alberi impossibilmente deformi, si diceva che avesse inizio e fine la Grande Caccia, svago demoniaco che era solito finire in modo tragico ed inevitabile, oltre il calar di sere senza una data specifica sul calendario (altrimenti, troppo facile sarebbe stato trovare rifugio dinnanzi al rassicurante focolare domestico!) E la valida assistenza, per i loro conduttori, di una razza di cani reincarnazione dei bambini morti prima del loro tempo, chiamata talvolta Yeht per il grido (yell) del loro abbaio, dal colore delle tenebre e gli occhi di brace, le grosse fauci spesso spalancate e la capacità di correre alla velocità di un treno a vapore. I cui ululati, ben presto, diventarono un richiamo noto per coloro i quali necessariamente, dovevano convivere con tali ostinate leggende.
Tra cui quella, particolarmente pregna, secondo cui una simile foresta isolata, dall’estensione di appena 3,5 ettari, esistesse grazie all’opera intenzionale di Isabella de Fortibus (1237-1293) figlia del sesto conte di Devon, che dopo aver perso tutti e sei figli venne costretta a firmare, sul letto di morte, un documento in cui cedeva tutti i suoi titoli al Re Edoardo I d’Inghilterra. Ma non prima che il suo rancore, trasformato in legno nodoso e impossibile da bruciare, mettesse solide radici nella terra vulnerabile dell’isola di Britannia…

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Gli insidiosi laghi dell’Australia ricoperta di sale

Quando si considerano gli aspetti orografici del territorio, non si è soliti prendere in considerazione l’entità della minaccia custodita nel particolare rapporto tra gli elementi sotterranei e l’esistente falda acquifera, normalmente raggiungibile soltanto tramite un’approfondita trivellazione, subito seguente alla prima costituzione dell’insediamento umano. E così sarebbe andata, per un tempo ragionevolmente lungo, anche nel più nuovo dei continenti, inteso come terra coloniale dell’impero inglese, presto destinata a trasformarsi nella nazione australiana. La questione si sarebbe palesata, quindi, un po’ alla volta, per la progressiva rimozione di uno stato in essere delle pre-esistenti cose. Ed alberi, cespugli, siepi dalle radici naturalmente profonde. Tali da mantenere un più proficuo tipo d’equilibrio…
Di laghi come quelli che compongono il gruppo effimero che persiste, ormai da tempo, qualche chilometro a sud-est della città di Perth nello stato di WA (Western A.) ve ne sono parecchi disseminati nell’intera regione ed anche oltre, propensi a comparire a seguito di piogge intense e quindi rimanere in essere per tempi sufficientemente lunghi da guadagnarsi un nome. Ma non abbastanza, nella maggior parte dei casi, per comparire sulle guide turistiche internazionali. E così questo particolare cluster, fotografato assai probabilmente via drone e pubblicato periodicamente su diversi social network, finisce per diventare la simbolica costellazione di un’antica serie di cause ed effetti, che con il procedere dei giorni non potrà fare altro che raggiungere le sue più estreme conseguenze finali. Milyunup, Racecourse, Munrillup, Balicup (e molti altri privi di un appellativo) compaiono per questo in asse l’uno rispetto all’altro, come residui molto successivi dell’antico corso di un fiume ormai scomparso, e di una serie straordinariamente varia di tonalità distinte: rosso, arancione, azzurro, persino viola. Le quali tendono a scomparire e ricomparire in base alle condizioni ambientali, qualche volta scambiandosi di posto. Perché conche come queste, a meno di 100 Km dalla costa, sono soliti funzionare come punti di raccolta dell’aria salmastra proveniente dal Pacifico, entro cui nei secoli dei secoli riesce a concentrarsi una quantità di sodio sufficiente a generare una vero e proprio ecosistema. Di alghe alofitiche come la Dunaliella salina, la Dangeardinella saltitrix e molti altri organismi pirrofiti, inclini a pubblicizzare la propria presenza tingendo in modo variegato le accoglienti acque d’appartenenza. E se questo fosse il nesso dell’intera questione, nonché il suo solo effetto, non ci sarebbe poi granché di cui preoccuparsi. Ma l’equilibrio salino del suolo australiano è da sempre una problematica sotto stringente sorveglianza, in modo particolare da quando, verso l’inizio del Novecento, una grande quantità di terreni agricoli iniziarono a diventare progressivamente meno fertili. Prima di essere riconquistati, progressivamente, dall’estendersi dei vasti deserti dell’entroterra. Con una motivazione che potremmo ricercare, ed individuare, proprio nel processo sito alla base della loro stessa implementazione nelle decadi antecedenti. Poiché l’uomo, con intento prevalentemente agricolo, aveva provveduto al disboscamento previa definizione dei terreni destinati alla produzione del suo sostentamento. E sempre l’uomo, continuando a fare quel che gli riesce meglio, ha continuato a costruire tutto attorno vasti insediamenti e veri e propri agglomerati urbani. E per quale ragione in ultima analisi, tutto questo avrebbe mai dovuto essere del tutto privo di conseguenze?

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