Uno sguardo al sistema di allerta nazionale giapponese

Dopo il 1855, a seguito del grande terremoto che scosse gravemente la città di Edo (Tokyo dei nostri giorni) costando la vita a una quantità stimata di fino a 10.000 persone, gli abitanti del paese più a Oriente del mondo sembrarono ricordare un fatto di primaria importanza: che sotto il fango divino da cui aveva tratto origine l’arcipelago secondo le antiche  cronache, soggiaceva da tempo immemore un mostruoso pesce gatto di nome Namazu. E che persino l’essere celeste Takemikazuchi, incaricato di tenerlo incatenato e bloccato con la sua spada, era prono a distrarsi di tanti in tanto, con la conseguenza che in molti, purtroppo, si ritrovavano a pagare con la vita un tale scivoloso margine di fallibilità. Dovete considerare che il Giappone, in quell’epoca così relativamente recente, era ancora il paese dei samurai, delle feste folkloristico-religiose concepite per acquietare la furia degli dei shintoisti e le misteriose creature sovrannaturali o criptidi, avvistate di tanto in tanto tra le nebbie dei sentieri montani. La modernizzazione di governo e costumi destinata qui a giungere, con la furia comparabile a quella di una catastrofe naturale, nel giro di soli 13 anni a seguito della Restaurazione del potere imperiale, non era ancora attesa da nessuno e indossare giacca e cravatta, per i burocrati, era ancora più raro che presentarsi in parata con l’armatura e le insegne del proprio clan. Di conseguenza, il popolo si affidava a ciò che aveva sempre conosciuto; nella fattispecie, la personificazione e venerazione di varie tipologie di eventi o concetti naturali, mediante il culto delle immagini che da sempre, aveva fatto parte della loro cultura. Nelle xilografie apotropaiche dal nome di Namazu-e (鯰絵) compariva dunque l’eterno nemico delle strutture urbanistiche, spesso mostrato in mezzo a una profusione di figure umane, intente a balzargli addosso ed in qualche modo, tentare di bloccarlo o punirlo per le sue malefatte passate. Mantenendo al centro della percezione pubblica la sua esistenza, si riteneva, la furia del pesce non avrebbe avuto ragione di manifestarsi ancora, né ora, né mai.
Molte guerre, tifoni e terremoti dopo, possiamo affermare con ragionevole certezza che il metodo non funzionava. Eppure ancora adesso, all’interno degli edifici governativi e dentro le centrali di polizia e pompieri, ancora compaiono figure della minacciosa quanto letargica creatura baffuta. Non più rappresentate con lo stile fiorito e accattivante del mondo fluttuante, bensì quello schematico e chiaro dei logotipi contemporanei impressi sui dispositivi elettronici, come una simpatica faccetta piriforme con baffi, labbroni e un’evidente antenna sulla testa. Il chiaro marchio, istantaneamente riconoscibile in patria del sistema noto come Kinkyuujishinsokuhou (緊急地震速報 – Sistema di allarme anticipato dei terremoti) identifica un’importante risorsa a partire dal 2004 nell’avvisare anticipatamente la popolazione dell’arrivo di una grave catastrofe, dando almeno l’opportunità di spostarsi alla ricerca di un luogo per mettersi al riparo. Ma il suo funzionamento, basato sull’intervento umano, è inerentemente fallibile per quanto ciò avvenga raramente. E soprattutto, anche quando tutto funziona nella maniera corretta, sarà comunque ignorato da una quantità stimata di circa il 10-15% dei riceventi. Sul perché ciò tenda a succedere, esistono diverse teorie. E una possibile soluzione; che permette di comprendere, possibilmente, la maniera stessa in cui simili approcci al problema possono garantire la riduzione ai minimi termini delle vittime rimaste impreparate alla catastrofe incipiente.
L’impiego più famoso di questo protocollo d’avviso divenne tristemente famoso in occasione della più recente apocalisse generazionale del paese, il terremoto e maremoto del Tōhoku del 2011, che a causa di una magnitudine impressionate di 9.0, colpì fatalmente fasce di popolazione superiori di una volta e mezzo rispetto all’evento di 153 anni prima. Come più volte dimostrato durante le esercitazioni, e in occasione di almeno un paio di falsi allarmi, un numero di almeno sette addetti specializzati del JMA (Servizio meteorologico giapponese) rilevarono sui loro schermi presso la sedie tokyoita la presenza di un’oscillazione preoccupante, come registrato dalle centinaia di sismografi dislocati attraverso il paese e nelle isole limitrofe in mezzo al Pacifico Settentrionale. In quel preciso momento, raggiunto urgentemente il consenso, premettero il pulsante capace d’inviare un segnale ai satelliti in orbita geostazionaria della serie SUPERBIRD, dai quali avrebbe raggiunto i recipienti pre-determinati. Ovvero, nell’ordine: le speciali ricetrasmittenti col logo del pesce gatto, nel giro di un secondo al massimo, e stazioni radio, televisive, antenne dei telefoni cellulari e altoparlanti strategicamente dislocati entro 4-20 secondi, una velocità stimata come sufficiente a battere sul tempo la naturale propagazione delle onde del sisma, e sopratutto, quelle ancor più pericolose del mare stesso. E benché da  un punto di vista tecnico, quella volta, tutto abbia funzionato per il meglio (si stima che molte vite furono salvate grazie all’allerta) non mancò tra i commentatori dell’episodio un serpeggiante scontento. Dovuto al modo stesso in cui i vari commentatori televisivi, trasformati loro malgrado in dei potenziali eroi, trasmisero il messaggio alla popolazione…

Nota: la scena iniziale del video di apertura si svolge all’interno dell’edificio della Dieta, il parlamento giapponese, e mostra la maniera in cui i politici vennero allertati in lieve anticipo rispetto alla popolazione, grazie all’impiego dei dispositivi speciali installati dal JMA.

Il segnale d’allerta per i terremoti o altre catastrofi è associato a un particolare suono oscillante, istantaneamente riconoscibile a chi ne ha sperimentato le implicazioni almeno una volta nella vita. A margine di questi video dimostrativi, generalmente, viene consigliato in Giappone di abbassare il volume per non allarmare chi si dovesse trovare accanto a noi.

Quando il sistema di allerta nazionale si attiva, ogni dispositivo capace di riceverlo viene istantaneamente trasformato nel terminale di una singola rete operativa, concepita per inviare informazioni e instradare la popolazione verso la più vicina strada per la salvezza. I cellulari ricevono una notifica attraverso il gestore stesso, vibrando ed emettendo un suono assolutamente non impostato, né modificabile dall’utente. Tutte le stazioni radio vengono surclassate dal segnale governativo, mentre le moderne televisioni digitali, ricevendo uno speciale segnale tra la banda dei 470 e 770 Mhz, si accendono e sintonizzano automaticamente sulla Tv di stato NHK. Ed è qui, per tutti quelli che non hanno ancora iniziato a muoversi, che dovrà compiersi l’eterna battaglia tra la prontezza a correre ai ripari e il naturale senso d’indifferenza, che potrebbe avere un costo potenzialmente davvero molto elevato. Fu quindi affermato che, nel caso del terremoto e maremoto del Tōhoku, sarebbe stato possibile fare di meno, riuscendo a fare essenzialmente di più. Il problema è sostanzialmente questo: in Giappone, il valore più importante di tutti è la professionalità. Una volta iniziate le trasmissioni in diretta, mirate a far evacuare le zone costiere per l’arrivo imminente dello tsunami, gli addetti al notiziario apparvero calmi e controllati, invitando il pubblico a non lasciarsi prendere dal panico. Man mano che le nuove informazioni raggiungevano lo studio televisivo, aggiornarono quindi pacatamente l’altezza dell’onda anomala come riportata dalle scritte in sovraimpressione, mentre un poco alla volta, la loro voce saliva di tono e acquisiva la fermezza necessaria a esortare la popolazione a fuggire. Aggiungete a questo il fatto che la gravità della situazione senza precedenti, a causa della distanza dell’epicentro, venne inizialmente sottovalutata, portando molte persone a prendere l’allarme sottogamba. Fu detto in seguito che uno stile più spontaneo e frenetico delle trasmissioni, quasi disordinato, avrebbe potuto indurre la gente a fuggire con maggiore prontezza, aumentando la quantità di risposte positive al segnale. Un po’ come fatto in anticipo, al giorno d’oggi, durante le previsioni del tempo televisive negli Stati Uniti, all’arrivo previsto di un uragano, spesso accompagnato da dimostrazioni in computer graphic dell’assoluto stato d’inondazione o distruzione a cui potrebbero essere soggette le zone direttamente interessate. Un simile approccio, del resto, presenta la problematica inerente della fiaba “Al lupo, al lupo!” Per cui dopo un certo numero di falsi positivi o palesi esagerazioni, la gente inizierà ad ignorare del tutto l’avviso, ottenendo l’effetto contrario. Come in tutte le cose, occorre perseguire uno stato d’equilibrio ideale.
Negli ultimi anni, appresa la dura lezione del 2011, il sistema Kinkyuujishinsokuhou è stato rinominato in un più leggibile e generico J-Alert (un tipico inglesismo locale) anche perché ha trovato impiego, più volte, in caso di eventi diversi dai terremoti, e sono cambiati i protocolli stessi del suo metodo d’impiego. Molto importante, ad esempio, è diventato l’impiego dei termini takai (高い – alto) e kyodai (巨大 – enorme) al posto delle misurazioni precise del terremoto e onde anomale che venivano impiegati in precedenza, mostrando la preferenza per informazioni imprecise e immediate, incitando i recipienti ad agire, piuttosto che dati numericamente corretti e proprio per questo soggetti ad essere impropriamente sottovalutati. Una quantità maggiore di sensori sono stati inoltre installati e interfacciati tra loro attraverso un sistema di assistenza automatizzata al personale del centro operativo  della JMA, in maniera talvolta troppo sensibile. Come nel caso del falso allarme inviato nell’intera regione del Kanto lo scorso gennaio, per un terremoto potenzialmente disastroso che si sarebbe successivamente dimostrato come la mera coincidenza tra due piccole scosse, male interpretate dalla pletora di dispositivi e routine d’intelligenza artificiale. Prima di un tale evento, tuttavia, ad agosto del 2017, il sistema era stato di nuovo impiegato con risonanza internazionale, in occasione di una casistica particolarmente imprevista e in effetti, molto difficile da sottovalutare.

L’estate scorsa, mentre il mondo appariva giustamente preoccupato per la minaccia missilistica nord-coreana, il viaggiatore di origini inglesi Chris Broad si trovava ad Aomori, proprio mentre la zona venne sorvolata dal pericoloso ordigno capace di trasportare una testata nucleare.

Venire svegliati dalle strane notifiche del telefono, mentre la televisione si accende improvvisamente e le sirene cittadine invitano tutti “A cercare riparo per potenziale impatto di un’arma di distruzione” non è propriamente un inizio piacevole della giornata, eppure una delle possibili reazioni venne ampiamente dimostrata dalla risposta del grande pubblico, che si affrettò a pubblicare la propria esperienza online. Alzarsi? Correre? E dove, poi? Il giapponese medio, come del resto ogni altro abitante del mondo moderno, non ha mai effettuato esercitazioni sul metodo in cui reagire all’arrivo di un missile nucleare. Mentre sarebbe ragionevole pensare, per un disastro di questo tipo, che chiunque si trovi all’interno dell’area d’impatto sarà completamente obliterato ancor prima di poter fare alcunché. Mentre nell’intera zona circostante, anche nella migliore delle ipotesi si verrà investiti dalla conseguente nube radioattiva. Fu quindi stimato che una grande parte della popolazione, anche a seguito dell’allerta, non fece altro che rimettersi a dormire. L’indifferenza, almeno in quel caso, aveva vinto l’eterna battaglia all’interno del territorio del cuore umano.
C’è del poetico, in tutto questo: il popolo unito, come una singola operosa colonia, che intrappola il gigantesco pesce Namazu e lo tiene bloccato a terra, punendolo al posto del divino e distratto Takemikazuchi. Verrebbe da chiedersi, a questo punto, perché altri paesi soggetti a catastrofi sismiche, come il nostro, non adottino sistemi simili al J-Alert. Il problema è una questione di scala: i terremoti che devastano l’Italia, come loro caratteristica inerente, hanno un’intensità molto inferiore a quelli della zona del Pacifico settentrionale. Il che implica che nel momento in cui si verificano i crolli, questi sono raccolti attorno all’epicentro del tremore stesso. Troppo vicino perché un segnale satellitare, per quanto istantaneo, possa sperare di riuscire a batterli sul tempo. L’unica speranza per tutti noi, e le nostre generazioni future, sarebbe cambiare i codici stessi del mondo dell’edilizia italiana, costruendo edifici conformi alle norme antisismiche importate dal tremante Oriente. Ma come sappiamo iniziative simili hanno un costo, sia in termini finanziari, che di credito politico concesso al governo nazionale di turno. E le priorità di chi è al vertice continuano, ancora oggi, ad essere di tutt’altro tipo.

Lascia un commento