La piccola belva spinosa nel deserto del Karakum

Gli amanti della natura in televisione guardano ai cartoni animati “carini” con un senso d’insoddisfazione latente: quale dovrebbe essere il significato educativo di un animale che parla ed agisce con evidente compassione? Dove potremmo effettivamente collocare, una simile creatura, all’interno del sistema ecologico di azioni e reazioni che costituisce la catena alimentare? Perché la forma di ragionamento e il sistema di valori che permettono di definire il comportamento di un buffo personaggio, ogni singola volta, conduce a un fondamentale fraintendimento dello schema circostanziale di fondo. Più qualcosa, o un qualcuno, sembra piccolo e aggraziato, maggiormente possiamo aspettarci da lui un approccio alle cose spontaneo e per così dire, scevro di considerazioni ed orpelli morali affini al comportamento umano. Ecco un concetto scomodo dinnanzi a un certo tipo di pensiero comune, per il quale risulta piuttosto semplice trovare delle dimostrazioni pratiche. Vedi le scene come quella montata ad arte in questo breve documentario, offerto a scopo dimostrativo sul sito inglese del canale statunitense Discovery, oggi famoso soprattutto per il grande numero di reality e programmi istruttivi su come sopravvivere in varie tipologie di scenari “estremi”. Protagonista: il porcospino dalle orecchie lunghe del Karakum (Hemiechinus auritus megalotis) sottospecie di una delle varianti più diffuse nel vicino Oriente, lievemente più piccolo della variante europea, con i suoi 23-28 cm e 700-900 grammi di peso. Eppure perfetto per continuare la tradizione americana, esistente da almeno un paio di decadi, di mostrare la natura per quello che è, perseguendo una verità spietata e dunque proprio per questo, a suo modo, spettacolare.
È anche la risposta ad una domanda che non sapevamo di avere: quale connessione dovrebbe mai esserci tra l’azzurro e dinamico Sonic, protagonista dell’omonima serie di videogiochi, e il placido mammifero che al risveglio del letargo non è abbastanza veloce neppure per schivare le automobili durante gli attraversamenti stradali? Una creatura pacifica e bonaria sotto il suo manto di spine acuminate, che tuttavia nasconde un’anima necessariamente combattiva. Non stiamo parlando di erbivori, dopo tutto, e nemmeno di roditori-raccoglitori, bensì veri piccoli mammiferi predatori come i toporagni o Soricidi, capaci di fagocitare l’equivalente del loro peso entro il termine della giornata, in insetti, vermi, lumache, uova d’uccello, rettili e carne di vertebrati, uccisi grazie alla sveltezza e relativa potenza del loro morso. Una visione concettuale che d’altra parte, va ulteriormente potenziata quando si parla di questo cugino adattato a sopravvivere nel deserto, il singolo ambiente più difficile tra quelli che possiamo trovare lungo la circonferenza del pianeta terrestre. Lo spezzone si apre con lo zampettante protagonista che si ferma in agguato, poco prima di fare la propria mossa ai danni di un’impreparata cavalletta, i cui riflessi non possono nulla contro il balzo ferino del riccio affamato, più che mai pronto a procedere alla masticazione. Senza soluzione di continuità a quel punto, l’animale viene mostrato alle prese con un centopiedi dall’aspetto piuttosto agguerrito, che finisce istantaneamente decapitato ed aspirato dal musetto ricoperto dalle vibrisse, gli occhietti vispi e del tutto indifferenti al gesto di convertire un’altra insignificante vita in pura e fondamentale energia.
Ma è nel proseguire del documentario, girato nel vasto deserto che costituisce il 70% del Turkmenistan, che le cose iniziano a farsi particolarmente interessanti. Perché appare evidente per la legge del karma che un così famelico divoratore, fatte le dovute proporzioni, debba vivere a stretto contatto con degli agenti altrettanto abili nell’arte difficile di trovare il cibo tra le sabbie eterne. E non tutte, purtroppo, più piccole di lui…

Le zampe lunghe dei porcospini dalle orecchie lunghe, come questo esemplare domestico egiziano, sono un adattamento alla vita in territori montagnosi e nel deserto, in grado di concedergli agilità e velocità decisamente superiori alla media della sua famiglia tassonomica.

Apparentemente felice è la vita del superpredatore, colui che pur essendo nemico di tutti non ha nemici, e può vivere serenamente il proprio impegno quotidiano nell’attività della caccia, fatta eccezione per le eventuali quanto indesiderabili interazioni con l’imprevedibile umanità. Tutto questo, ad ogni modo, non potrà mai essere sperimentato dagli appartenenti alla specie Hemiechinus auritus (o la sua sottospecie diffusa dal Karakum all’Afghanistan) vista l’evidente necessità di presentare un mano di spine relativamente impenetrabili, nonché certamente indigeribili, lungo l’intero estendersi della propria schiena. Questa evoluzione del concetto di un manto peloso, caratteristica dominante di tanti appartenenti all’ordine degli eulipotifli, presuppone la presenza di una serie di muscoli specializzati, capaci di puntare verso l’esterno le punte acuminate mentre l’animale si arrotola e richiude su se stesso, presentando un boccone decisamente indesiderabile per chiunque non sia inerentemente dotato di coltello e forchetta, o analogo strumento naturale. Vedi ad esempio… Il becco di un gufo. Ecco che giunge, dunque, l’affascinante primo piano di un gufo-falco eurasiatico (Bubo bubo) rapace che caccia in picchiata, ghermendo in un attimo qualsiasi piccolo animale di terra che sia tanto imprudente da agire senza la copertura della notte. Va anche considerato come i ricci del deserto, generalmente più piccoli e dunque dotati di una minore quantità di spine rispetto a quelli europei, preferiscano fuggire quando possibile, piuttosto che fare affidamento sulla dura scorza del loro metodo innato di protezione. Il porcospino viene quindi mostrato mentre compie il gesto indissolubilmente connesso con la sua specie di correre via e scavare in profondità nella sabbia, creando una buca con cui sottrarsi allo sguardo attento del predatore dei cieli. E proprio quando sembra che stia per essere catturato all’ultimo momento, gli autori del documentario giocano la carta stereotipata di mostrare che la preda scelta era in effetti un’altra: un gerbillo ben più arrendevole, e assai meno problematico da mandar giù.
Dopo un breve excursus esplicativo sulla depressione di Darvaza, il famoso buco nel paesaggio del Karakum che rappresenta un tentativo fallito di costruire una miniera di estrazione del gas naturale nel 1971, trasformato da quella data in fossa infuocata e letterale “Porta dell’Inferno” senza dare alcun segno di esaurimento del proprio infiammabile carburante, cala la notte sullo scenario e di conseguenza, anche sul piccolo riccio da mantenere al centro dell’inquadratura. Ed è allora che sotto i nostri occhi increduli, viene mostrato un altro pericoloso incontro: quello con una vipera della famiglia Echis, comunemente detto serpente tappeto o dalle scaglie a sega. Questo perché, quando si arrotola sinuosamente su se stesso, produce un suono inquietante grazie alla superficie ruvida del suo corpo, presumibilmente usato con lo scopo d’intimidire i suoi potenziali nemici, poco prima di morderli ed inoculare il veleno. E non è difficile immaginare in quale categoria il serpente annoveri la spinosa creaturina, quando gli si para innanzi, per caso o effettiva fame, sulle sabbie ancora calde molte ore dopo il calar del sole. Col risultato che… Chi può dirlo? Dati, assai stranamente, non pervenuti? Qui, va pur detto, gli autori commettono un errore oggettivamente evidente, omettendo di mostrare l’effettivo comportamento dei due animali. Secondo la versione dei fatti propinata attraverso un montaggio ad arte, ci viene dato ad intendere che il riccio attacchi e decapiti rapidamente il rettile, ennesima vittima della propria scorribanda alla famelica ricerca di cibo. Ed è stato effettivamente più volte ipotizzato sulla base del contenuto del loro stomaco che gli eulipotifli di questa regione, in determinate circostanze, si nutrano anche di simili creature, presumibilmente prevalendo su di loro a seguito di strenui confronti condotti sul letterale filo del rasoio. Ma in assenza di tale prova documentaristica, è altrettanto ragionevole ipotizzare (come fatto nei commenti al video su YouTube) che il serpente sia stato ucciso da mani umane e successivamente, nella migliore delle ipotesi, dato in pasto al riccio in attesa di un pagamento per la sua ottima recitazione.

Anche se questa famigliola di Hemiechinus auritus ispira simpatia, sarebbe semplicemente folle avvicinarsi alla loro tana. Questi animali, molto vulnerabili ai parassiti, sono spesso ricoperti di zecche pericolose per l’uomo e portatori sani di malattie gravi, come la febbre di Boutonneuse.

Attraverso la storia della civiltà umana, i ricci non hanno costituito il polo concentrato di un repertorio di leggende particolarmente ricco, come avvenuto per altre bestie più chiaramente nobili, quali falchi, lupi o coccodrilli. Ciononostante, possiamo osservare associazioni di tipo culturale fin dall’epoca degli antichi Egizi, quando i lontani antenati dello stesso protagonista del documentario made in USA venivano raffigurati sui geroglifici e usati come soggetto per vari amuleti di pietra dura, inclusi nella dotazione sepolcrale dei defunti. La funzione presunta di questi esseri, abitualmente cacciati e cucinati dai membri di tale antica civiltà, era quella di rappresentare un tributo ulteriore, ovvero il simbolo di ricchezza, fortuna e prosperità. Una considerazione completamente rovesciata spostandoci maggiormente a Oriente, nell’Asia Minore in cui l’abitudine dell’animale a camminare col muso rivolto verso il basso veniva considerato sinonimo di un sentimento subdolo e il desiderio di non mostrare i propri veri pensieri alle persone presenti. Ancor più estrema risultava essere la visione nell’Inghilterra medievale, dove le creaturine venivano convenzionalmente associate all’attività delle streghe mutaforma, capaci di assumere un tale aspetto per nascondersi dopo aver compiuto un terribile maleficio. E non a caso proprio su quelle isole, tra tutto l’areale europeo, oggi sussiste la minore concentrazione di porcospini, più volte sterminati attraverso ondate successive di caccia indette dai poteri temporali e la chiesa, altrettanto indifferenti al valore di un così piccolo quanto “insignificante” animale.
Possibile alla fine, che soltanto nella dura legge della sopravvivenza in territorio desertico, il riccio possa esprimere il senso della propria notevole energia vitale… Che la violenza chiami violenza eppure finché si resta tra gli animali, anche un tipo di grazia che sembra trascendere le condizioni di partenza… Riuscire a farcela, correre a perdifiato verso l’azzurro domani. Dentro gli anelli d’oro e di fuoco, salvando il mondo per l’ultima volta. E dopo aver sconfitto il boss tornare, nel secondo livello, per farlo ancora.

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