Quanti arcieri samurai servono per cambiare l’esito di una battaglia?

Immaginate di essere un comandante mongolo al servizio di Kublai Khan, impegnato nella campagna d’invasione del Giappone nel 1274, destinata a fallire a causa dell’improvviso insorgere del Vento Divino (Kamikaze) che avrebbe spazzato via l’intera flotta dell’impero più vasto che il mondo abbia mai conosciuto. Ma ancor prima di un simile evento, voi, la vostra armata e i soldati arruolati dalla Cina eravate impegnati nella conquista dell’isola di Tsushima, nel bel mezzo dello stretto di Corea, primo passo verso la conquista del Kyushu e il resto dell’arcipelago ai confini orientali del mondo. Dopo uno sbarco privo d’incidenti e la facile conquista della capitale, la vostra stima dei combattenti locali non potrebbe essere minore: soltanto uno stolto, come il capo clan locale, avrebbe potuto scegliere di affrontare le truppe nemiche a viso aperto, in una carica senza speranza contro un esercito molto più grande del suo. Riorganizzate le truppe e preparata una quantità sufficiente di frecce, principale implemento bellico dell’armata, i vostri soldati avanzano quindi verso le montagne dell’entroterra, alla ricerca degli ultimi focolai di resistenza. L’arco giapponese, in particolare, si era rivelato ai vostri occhi particolarmente deludente, con un corpo eccessivamente lungo e privo di resistenza. Senza particolari organizzazioni tattiche da parte dei nativi, il suo utilizzo tipico in battaglia sembrava consistere nel lancio di una o due raffiche, prima di metterlo da parte e caricare il nemico con spada e lancia. Mentre state meditando sulla questione, quindi, succede qualcosa d’inaspettato: un singolo soldato locale in armatura leggera, della sedicente e indisciplinata classe dei guerrieri samurai, si frappone nel bel mezzo del passo, tra le rocce scoscese e lo strapiombo, sollevando l’arma in segno di sfida. Avanzando con cautela, inviate alcuni esploratori a prenderlo, affinché il suo coraggio fuori luogo non possa nuocere la morale delle truppe. Poco dopo che avete dato l’ordine, tuttavia, un sibilo risuona nel vostro orecchio sinistro: è una freccia, proveniente dai boschi a valle della vostra posizione. In breve tempo seguita da una seconda, una terza e così via. “Il nemico ci ha teso un agguato!” Grida qualcuno nel disordine, mentre scudi di legno vengono frettolosamente eretti verso la direzione da cui proviene il fuoco dei tiratori. Proprio quando i soldati iniziano reagire, notate qualcosa di stranamente preoccupante: il samurai distrattore non sta fuggendo affatto dai vostri incursori, ma con l’espressione calma incocca la freccia nel suo poco maneggevole arco ricoperto in legno di bambù. Se non fosse impossibile considerata la distanza, direste che è puntata dritta verso il centro esatto del vostro cuore…
Le innovazioni tattiche nascono generalmente nel fuoco della battaglia, in cui le menti vengono forgiate dalla più cruda espressione dell’istinto di sopravvivenza umano. Lungi dall’essere traguardi collettivi, tuttavia, trovano generalmente l’espressione tramite il pensiero dei singoli, futuri capostipiti di una linea concettuale destinata a durare delle decadi, o persino secoli interi. Così il primo impiego letterario dell’arco giapponese in battaglia figura nel racconto degli Heike, cronistoria della guerra Genpei tra i due clan più potenti della storia (1180-1185) quando l’eroe Nasu no Yoichi, facente parte del seguito del grande condottiero Minamoto no Yoshitsune (fratellastro del futuro primo shogun, Yoritomo) si erse sul ponte della propria nave sulla costa di Yashima, per colpire con l’arco un’insegna del falso imperatore protetto dai Taira, calcolando correttamente l’oscillazione causata dal vento e il moto selvaggio delle onde. Ed è ragionevole pensare, come in molti hanno ipotizzato, che l’esperienza nata da un simile conflitto fosse sopravvissuta fin quasi a un secolo dopo, nel confronto tra culture che il Kamikaze avrebbe risolto in modo tanto irrimediabile e finale. Il concetto di un impiego bellico codificato dello yumi (弓 – arco) non sarebbe stato messo per iscritto tuttavia fino alla figura semi-mitica di Heki Danjo Masatsugu, un samurai vissuto attorno all’epoca della guerra Onin (1467-1477) destinata a sconvolgere ir rapporti di potenza della seconda dinastia shogunale, quella degli Ashikaga. Di provenienza familiare incerta, benché si ritenga avesse origine nella provincia di Yamato, il più grande arciere che fosse mai vissuto venne anche chiamato una manifestazione terrena del dio della guerra Hachiman, giunto per insegnare agli uomini la maniera corretta per combattere a distanza. Verso la fine del quinto secolo, all’apice dell’era Muromachi, questo approccio alla battaglia si rivelò particolarmente funzionale, ragione per cui trovò diffusione ad ampio spettro nel giro di un singola generazione, dando i natali a quello che sarebbe stato definito in seguito lo stile della Heki ryu (日置流 – scuola di Heki) o Koshiya Komiyumi (腰矢組弓 – metodo dell’arco [all’altezza] della vita). Una serie di meccanismi che prevedevano approcci di fanteria tutt’ora in uso, come l’avanzamento a scaglioni e il tentativo di rendersi bersagli più difficili da colpire, scoccando le proprie frecce a una distanza minima dal suolo. Mediante una serie di movimenti che possiamo tutt’ora apprezzare, nella dimostrazione pratica di un gruppo d’arcieri durante la terza Taikai (convention) dell’Arco Giapponese, tenutasi lo scorso aprile a Tokyo, con il patrocinio della Federazione Nazionale di Kyudo (弓道 – la via dell’arco). Un’arte marziale ben lontana dall’essere “semplicemente” uno sport…

L’espressione formale di una competizione di arco giapponese lascia trasparire il significato profondo di ciascun singolo gesto compiuto dai tiratori. Compostezza dei gesti e concentrazione spirituale non sono che l’inizio, di una sfida affrontata contro se stessi ancor prima che i propri rivali.

Una parentesi certamente insolita, nella kermesse di gare e competizioni nelle varie specialità riconosciute dalla federazione, quella in cui nove istruttori in armatura samurai dell’epoca Sengoku (1467-1603) con tanto di cappello laccato hikitate-eboshi, dimostravano al pubblico composto in parte da stranieri la formidabile efficienza del sistema di combattimento tradizionale, rappresentato all’apice della sua raffinatezza e funzionalità. Ovvero quando, secondo le cronache ufficiali, il samurai in fuga Hongo Yoshinori, schieratosi dalla parte sbagliata della grande battaglia finale di Sekigahara, si fece oppositore dell’egemonia Tokugawa, insegnando agli Shimazu di Satsuma le tecniche segrete di Heki Danjo, capaci di sconfiggere persino il terribile implemento bellico giunto dall’Occidente, l’archibugio tanegashima-teppō (種子島) ricreato dai progetti degli olandesi. Tramite l’applicazione di un vantaggio che possiamo riassumere in una singola parola: flessibilità. È in effetti piuttosto sorprendente, per non dire del tutto inaspettato, osservare dei guerrieri sufficientemente corazzati per un conflitto all’arma bianca che si muovono agilmente, accompagnando ogni singolo tiro di freccia con un grido attentamente modulato di ciascun samurai. Il quale possiede una funzione pratica, relativa alla coordinazione dei gesti e far sapere ai propri compagni quando l’ultima freccia è stata scoccata.
Fondamento stesso del sistema tattico qui messo in mostra è infatti il modo in cui, nel corso della situazione d’ingaggio simulata, le successive ondate di frecce non subiranno mai la benché minima riduzione, in un succedersi continuo di ondate, ovvero una letale e ininterrotta pioggia di dardi sull’invisibile nemico. Questo grazie al cosiddetto “secondo stadio” del Koshiya Komiyumi, quando la squadra di combattimento, terminata la prima raffica lanciata da una formazione immobile in linea retta, inizia ad avanzare verso la fanteria nemica, agendo come un diversivo mentre le ali dell’esercito tentano di guadagnare posizioni più vantaggiose. Ed è questo, sostanzialmente, il momento rappresentato nel video, in cui i nove guerrieri si alternano nel ruolo di mae Yumi (archi frontali) e ato yumi (archi delle retrovie) così che mentre una parte di loro sta scoccando le proprie frecce, gli altri possano avanzare di un passo, quindi fare lo stesso mentre i compagni tornano avanti a loro. Si tratta, in altri termini, della stessa tattica impiegata dalla fanteria moderna con armi da fuoco, particolarmente in situazioni di guerriglia, in cui non è possibile contare sulla copertura di mezzi pesanti o l’artiglieria. Il tutto condotto, d’altra parte, con una complicata serie di movenze, mirate a consentire l’estrazione ed il tiro delle frecce senza esporsi eccessivamente al probabile fuoco di risposta nemico. Un ginocchio a terra, l’altra gamba estesa verso il retro, i samurai si piegano in avanti, estraendo dal basso le frecce inserite nella loro faretra. Quindi in un singolo gesto dall’eccezionale fluidità, le scagliano verso l’obiettivo, mentre già i propri compagni si piegano come ingranaggi di un meccanismo perfettamente oliato. Nella versione su larga scala della stessa metodologia, qui semplificata dato il ridotto numero di membri e il poco spazio a disposizione, i due migliori arcieri della formazione erano posti ai lati della stessa, con i ruoli di hidari hashi no musha (guerriero di sinistra) e migi hashi no musha (guerriero di destra) finalizzati a colpire con priorità qualsiasi nemico tentasse di ampliare la formazione, aggirando in questo modo gli arcieri.

Si ritiene che raggiungere il grado più alto nella pratica del kyudo sia una delle imprese più difficili nell’intero mondo delle arti marziali. Alcune persone investono una parte considerevole della propria vita, nel tentativo di accedere al grado di maestro.

Una questione problematica nell’interpretazione della cultura guerriera giapponese, sopratutto quando ci si trova all’esterno di quel mondo, è separare le effettive priorità delle origini dalla sovrastruttura filosofica e interiore aggiunta nel corso della lunga epoca nota come Pax Tokugawa, destinata a durare fino alla caduta del bakufu (governo shogunale) nel 1868. Un periodo di due secoli e mezzo, nel corso del quale una classe di guerrieri spietati, costretti al disarmo e la trasformazione in meri funzionari della nuova burocrazia, trasformarono le gesta dei propri antenati in vere e proprie leggende, scegliendo di ripercorrerle attraverso la dura pratica quotidiana. Così che spada, arco e lancia diventarono dei simboli, prima ancora che effettivi strumenti d’offesa, il cui impiego fortemente ritualizzato diede origine a una particolare scuola di pensiero, in cui l’onore superava ogni altra considerazione, persino nel cuore della battaglia. E fu, in alcune versioni, proprio questo limite, a permettere la nascita di figure come quella di Miyamoto Musashi, lo spadaccino samurai capace di sconfiggere nel corso della sua carriera un’intera scuola di schermidori del calibro della Yoshioka-ryu, un tempo luogo di provenienza degli istruttori shogunali. Episodio lungi dal costituire un mero capitolo di qualche manga fantastico o cartone animato dell’epoca contemporanea, bensì un prezioso esempio custodito nel cuore stesso del bujutsu, rivisto secondo l’etica dei nuovi guerrieri samurai.
Ed è questa, sopratutto, l’importanza di una scena come quella della dimostrazione d’arceria alla terza Taikai dell’Arco Giapponese: una finestra su quello che un guerriero doveva realmente rappresentare, quando ancora il passo della storia si trovava definito dall’arco elegante disegnato da un freccia in volo. Sopra il territorio scosceso della catena montuosa nel centro di Tsushima. Dove persino un singolo guerriero, poteva fare la differenza?

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