In India tutti pazzi per il cocomero bitorzoluto

Nella più profonda giungla dell’alto Kerala, un dramma si consuma in prossimità della cima di un grande albero. Ma tra le due creature coinvolte, almeno in apparenza, una sembra del tutto inconsapevole della situazione. E ti credo. Avete mai sentito parlare di uno roditore, per così dire, perspicace? Persino se si tratta di un Ratufa indica, comunemente detto scoiattolo viola gigante, della lunghezza di 36 cm più mezzo metro circa di coda, intento a consumare il pasto capace di dare un senso ulteriore alla sua giornata. Ma se tale essere, mentre mastica la buccia coriacea coi denti aguzzi sembra assumere in se il significato prototipico del termine “voracità” è nel frattempo il macaco, che appare intento a spintonarlo e schiaffeggiarlo con enfasi, a personificare il concetto tipicamente umano dell’incontenibile cupidigia. “Lascialo. Lascialo. Vattene via.” Sembra esprimere a gesti, mentre dimentica ogni norma del quieto vivere come sa fare soltanto chi subisce il fascino di un potentissimo desiderio. Ma alla sua controparte, di un simile prepotenza ben poco importa, mentre continua a mordere e perforare, suggere e sgranocchiare. Nulla viene sprecato, tranne forse il nocciolo dei singoli semi, troppo coriaceo persino per lui. La morale di questa storia è che nulla può scoraggiare dal pasto ciò che costituisce la versione fondamentalmente sovradimensionata del topo. Oppure, soggettivamente, potrebbe essere interpretata così: “Qualunque cosa stiate facendo, se avete l’opportunità di assaggiare la giaca, fatelo subito. Qualcun altro potrebbe decidersi prima di voi.”
La giaca è quel frutto del peso di fino a 55 Kg, e il diametro di 50 cm massimi, che lascia basito chi visita per la prima volta l’India, oppure il Sud-Est asiatico, o ancora determinate regioni della costa brasiliana. Dove qualcuno, in un momento trascorso ed imprecisato, decise di trapiantare l’albero, facendo affidamento sul clima caldo ed umido della propria regione d’appartenenza. E cresce anche in Africa, questa pianta, ma di sicuro giammai in Europa (o Nord America) i continenti appartenenti, per così dire, alle regioni del Nord del mondo. Peccato. Perché chi finalmente ne assaggia il frutto, il più delle volte, finisce per descriverla come un’esperienza trasformativa, capace di connotare una visione ottimistica della natura e del mondo. A tal punto, è considerato delizioso a patto di aver raggiunto il giusto stato di maturazione, dolce come una caramella gommosa, eppure ricco di retrogusti armonici come quello dell’ananas, del mango e della papaya. E questo nonostante un aspetto che sarebbe un eufemismo definire “non particolarmente invitante” vista la buccia bitorzoluta, il colore giallo pallido della polpa e la consistenza vagamente simile a quella di una zucca. Più di un utente impreparato del web, in effetti, ha finito per confonderlo con una variante sovradimensionata del leggendario durian (gen. Durio) famoso per l’aroma maleodorante, il contenuto appiccicaticcio e il sapore descritto a seconda dei casi come “uova e formaggio” oppure “calzini bagnati”. E in effetti, alcuni punti di contatto esteriori sussistano, benché il contenuto dei due frutti non possa effettivamente essere più diverso di così. La giaca, anche detta in inglese jackfruit dal nome, secondo la leggenda, del botanico inglese William Jack (ma assai più probabilmente una mera traslitterazione ed adattamento del termine malese chakka) non viene per questo fatta oggetto di riti di passaggio o prove di forza d’animo, benché consumarla, contrariamente a quanto possa farci sembrare il succitato scoiattolo, sia un’esperienza tutt’altro che rilassante. A partire dall’apertura mediante coltello in corrispondenza del picciolo, da far seguire ad un rapido giro dell’equatore del tozzo globo, fino al cuore coriaceo della sua massa misteriosa. Un compito da portare a termine con un buon coltello, ma non il migliore coltello, questo perché secondo il racconto di tutti coloro che ne hanno sperimentato le conseguenze, nel frutto c’è una sorta di resina appiccicosa, che una volta entrata in contatto con il metallo non se ne stacca nemmeno impiegando solventi di chiara efficacia. Trasformando il suddetto attrezzo culinario, nel giro di pochi secondi appena, nel “coltello ufficiale da giaca” della vostra affilata collezione. Mentre ciò che viene dopo, il prelievo e la consumazione della polpa carnosa che incapsula i singoli semi, può essere soltanto descritto come paradisiaca… A patto, ovviamente, di aver impiegato i guanti. O di non essere, per propria imprevedibile sfortuna, allergici ai principi attivi dell’etil-isovalerato, del 3-metilbutil-acetato o del 2-metilbuitan-1-ol…

I dannati si scagliavano contro insulti e si spintonavano a vicenda per conquistare il pegno capace d’interrompere la sfortunata catena di eventi. Ma egli mi disse, con voce stentorea: “Non ti curar di loro Mr. D. ma guarda e passa. Guarda e passa…”

Ed è singolare, davvero sconveniente, che proprio nel paese della non-violenza per scelta e come importante principio religioso terreno, gli animali debbano combattere per qualcosa che invece, era presente in quantità sufficiente per chicchessia. Il tipico legno duro dell’albero di giaco, alto fino a 25 metri, è a tal proposito un materiale privilegiato per la creazione degli arredi sacri e le statue religiose nei templi del Kerala, mentre nelle Filippine, altro paese in cui la pianta ha trovato un areale idoneo a propagare se stessa, viene usata per gli strumenti musicali rituali ed altri orpelli tipici della benevolenza conviviale. Ma un conto sono, per così dire, i pilastri ed un altro le fondamenta stesse di un particolare sistema di valori. Il che corrisponde a dire che le bestie, volando basse, non possono fare a meno di mordere o prendersi a pugni, pur di assaggiare immediatamente un tale magnifico sapore. Dal punto di vista della consumazione umana, nel frattempo, la giaca è famosa per la sua eccezionale versatilità.
Essa compare raramente, in effetti, nel suo stato ideale di colore arancione e con la buccia ricoperta di qualche macchia nera, corrispondenti allo stato di maturazione compiuta, per la massima dolcezza e il sapore più intenso che sia in grado di presentare alle nostre papille in attesa. Bensì figura con la tipica colorazione tendente al verde chiaro, raggiunta la quale viene generalmente colta, affinché possa durare per un tempo adeguato sugli scaffali dei negozi e supermercati locali. Un periodo il quale, incidentalmente, basterebbe a farla figurare anche sugli scaffali dei nostri supermercati attraverso l’importazione, benché ciò non succeda praticamente mai, forse in funzione dei giudizi negativi espressi da un qualche dimenticato focus group. E tutto questo per dire che, qualora non fosse matura, la giaca si dimostra molto meno saporita, guadagnando invece la caratteristica dominante di una particolare consistenza gommosa, considerata come la più simile alternativa vegetale alla carne. Ragione per cui, nelle diete vegane o vegetariane. essa ha finito per agire come pietanza sostitutiva, spesso venduta all’interno di barattoli che ne suggeriscono l’impiego da parte degli occidentali nei tacos o altre bizzarre anomalie cibarie. Nei suoi paesi di appartenenza, nel frattempo, il frutto è soggetto ad un ampio ventaglio di preparazioni: dall’impiego all’interno di alcune tipologie di curry indiano tradizionale, ai dessert ghiacciati malesi chiamati es campur. Nelle già citate Filippine, nel frattempo, viene mischiato con gelatina d’alga e fagioli per creare l’halo-halo, coronamento dolciastro di ogni pasto completo che si rispetti. Una variante particolarmente apprezzata nell’India d’origine, nel frattempo, prevede l’essiccazione di vere e proprie chips di giaca, da consumarsi a merenda come fossero patatine. Ma dovunque, a partire dal Bangladesh (dove viene celebrato come frutto nazionale) il modo migliore di apprezzarlo viene considerato il semplice consumo direttamente dall’albero, con l’unica preparazione di un paio di colpi di un possente coltello. Così come vengono cotti, talvolta, i noccioli dei singoli semi, alternativa più salutare al nostrano pop-corn.

La formazione del jackfruit può essere paragonata a quella del fico, anch’esso formato da una pluralità di piccoli fiori. A differenza di esso, tuttavia, non è richiesto l’intervento fecondativo di una specifica tipologia di vespa.

Dal punto di vista prettamente botanico, la pianta dell’Artocarpus heterophyllus è significativa per diverse ragioni, a partire da quella di essere il singolo frutto che cresce sugli alberi più grosso e pesante del pianeta. La cui formazione, bastante a farlo inserire nella categoria dei sincarpi, prende l’origine da una grande quantità di piccoli fiori, assembrati l’uno vicino all’altro nell’infiorescenza definita dagli anglofoni come spike (punta). Della quale esistono, assai prevedibilmente, due versioni: maschio e femmina, in grado di coesistere sullo stesso albero, facilitando notevolmente il processo d’impollinazione, generalmente portato a termine da un’ampio ventaglio di specie di api senza puntura, o altri insetti non pericolosi per l’uomo. Mentre il trasporto dei semi avviene di continuo, grazie alla fagocitazione di animali come lo scoiattolo e il macaco sopra mostrati, nonché creature endemiche delle diverse regioni d’adozione. In Sudamerica in particolare, dove l’albero è riuscito a propagarsi con una tale virulenza da essere definito una specie invasiva, due delle creature coinvolte sono le scimmie cebidi dai ciuffetti bianchi e il coati, piccolo mammifero dal lungo muso imparentato con il procione, che ne fanno incetta andando incontro a una prosperità delle rispettive popolazioni, precedentemente inusitata. Il che, piuttosto prevedibilmente, costituisce un problema serio, poiché tutti e due sono consumatori opportunisti di uova e pulcini di molte specie d’uccelli rari, portando a un calo sensibile delle relative popolazioni.
Perché nessuno, che abbia assaggiato la giaca, può fare a meno di coltivare nel suo profondo un desiderio di riuscire un giorno a farlo di nuovo. Ma per chi vive alla giornata, come anello transitorio di una selvaggia catena alimentare, ancor più difficile sarebbe osteggiare il proprio intimo senso di costruire strutture al di sopra di un simile senso di sazietà. Perciò poco importa, ai consumatori della polpa giallastra, che essa rappresenti un pasto completo, piuttosto che il portale d’accesso verso una giornata d’atroci battaglie per tenere alta la bandiera ecologica della propria ferocia. Ciò che conta è soddisfare la contorta signora e padrona, quell’organo articolato che contiene tra le 2.000 e le 8.000 minuscole papille gustative. Perché come possiamo affermare in funzione d’innumerevoli premi Nobel, l’unica lingua universale del mondo è la matematica. Mentre il sapore costituisce, se vogliamo, un sorta di musica. O il puro, e insostituibile, senso della poesia?

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